
Scipione, il pittore che con 10 poesie cambiò la letteratura italiana
Cultura generale
Andrea Caterini
Primo anno. Tra i primi articoli mi ricordo quello sulla morte di Saint-Exupéry e quello sulle lettere della giovanissima Sylvia Plath. Mi ha emozionato intervistare Susan Stewart e trovare una intrepida sintonia con una poetessa canadese, Jan Zwicky. Idealmente, sono arrivato in capo al mondo, a Ushuaia, traducendo il reportage di Maria Soledad Pereira. Un anno di Pangea. Non pensavo neanche di scrivere un editoriale. Perché? Perché se sei gettato verso l’avvenire – che è avventura – non hai modo di guardarti indietro. L’alba la rimpiangi al tramonto.
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Nel canto X del Paradiso, Beatrice indottrina Dante su come deve rapportarsi con le altezze. “Ringrazia,/ ringrazia il Sol de li angeli, ch’a questo/ sensibil t’ha levato per sua grazia”. Ringraziare per la grazia. Ora. L’idea di Pangea mi agitava da anni. Almeno sei. Ricordo che ne parlai, con un foglio dettagliato, nel 2012. Prima al mio primo direttore, a Milano; poi a un editore. La cosa complicata è trovare chi sappia tramutare una idea in fatto. Infine, dopo il definitivo fallimento del quotidiano locale per cui lavoravo – cioè: con ampio tempo a disposizione – ho trovato l’editore, anzi, l’uomo. Jonathan Grassi. Figlio di Giorgio, fondatore della Grabo, azienda che fa palloncini. Legare la cultura ai palloncini mi è parso un segno. Ricordo una fotografia folgorante di Marco Pesaresi. Nella metropolitana di Tokyo, particolarmente oscura, fredda, un palloncino rosso, a segnalare la fuga, il volo, la libertà, l’impulso del sogno. Dunque, grazie.
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Il pudore mi mozza la lingua. I grazie sarebbero una grandinata: ma delle amicizie è bene celare il senso e il talento. Diciamo sempre troppo rispetto a ciò che andrebbe detto. Nel segreto, ciascuno sa.
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Una circostanza, piuttosto, mi forza all’articolo. Lo scorso primo ottobre, alla Scuola Superiore per Interpreti e Traduttori in cui insegno, tre studenti hanno discusso un progetto di tesi su tre autori argentini valorizzati da Pangea. Un ragazzo si è laureato sull’opera di Hebe Uhart, una ragazza sui racconti di Liliana Heker e un’altra sulle poesie di Juan Arabia. In tutti i casi, gli studenti hanno lavorato su testi inediti in Italia. A quel punto, mi dico, ecco il compito di Pangea che si realizza: portare in Italia, prima di altri, grandi autori di altri Paesi. Parlare, prima di tutti, dei grandi libri che si pubblicano altrove. Perché siamo cugini di Marco Polo, ci avventiamo verso l’ignoto.
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Una amica mi sfotte, “sei diventato un influencer”. Certo. Proprio questo dobbiamo fare. Influenzare la cultura e l’editoria italiana. A non martoriare con l’oblio certi poeti, a promuovere soltanto testi vertiginosi, capaci di scuotere, anzi, di squartare. Già. Diventerò la Chiara Ferragni della cultura italiana.
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Eravamo quattro gatti, siamo qualche migliaia, tra poco fondiamo un partito politico, il programma lo facciamo scrivere ad Antonin Artaud, il regolamento interno da Dostoevskij, il gruppo dei probiviri sarà capitanato da Dino Campana.
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Gli anniversari non servono per fare festa, ma per celebrare il futuro. Un paio di sogni realizzabili – e conseguenti a questo primo anno: tradurre Pangea in un trimestrale di carta. Il digitale è decisivo – esempio: rende ‘immortale’ e consultabile l’archivio dei contenuti, dilata un ‘pezzo’ in un labirinto di link, permette approfondimenti impensabili sulla fissità cartacea – ma la carta ha un sapore unico. Poi. Dopo il ciclo ‘Hybris’ – il cui successo ha sorpreso un imperiale cinico come me – Pangea deve diventare un evoluto ‘laboratorio di contenuti editoriali’. Accompagnando l’attività giornalistica al dialogo con i protagonisti del genio italiano e internazionale. Pubblicando libri. Proprio così. L’obbiettivo naturale è quello: dare sostanza libraria alle nostre provocazioni culturali.
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Mai ovvio. Senza i bravissimi collaboratori che ogni giorno mi aiutano, questi corsari eroi con il coltello tra i denti e continenti perduti nel cuore, Pangea sarebbe semplicemente il megafono delle mie valide cretinate.
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Tradurre l’accademia in bar: parlare di Iosif Brodskij come della Juventus, discettare di Leopardi al posto di spendere l’ennesima battuta sulla schiena di Di Maio. Credere che ci siano ancora parole su cui rampicare e costruire capanne, e la salvezza esiste, allora, la gioia è possibile dietro l’angolo di un verbo, mescolando una terzina con la luce del giorno che muore, e lascia il suo pelo biondo sui rami degli alberi.
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Un quotidiano culturale. Rispondere all’orrore quotidiano con cui ostacolano i nostri passi con la meraviglia, lo stupore, l’eterna giovinezza della poesia, la ribellione fanciullesca. Il tempo ci costringe all’economia delle cose: tutto ha un prezzo, tutto ha un costo. Noi diciamo che tutto è poesia, e che le cose non si comprano, bisogna saperle riconoscere – e cantare. Il canto vince il mercato.
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Ora arroto i denti perché c’è molto ancora da mordere. (Davide Brullo)