“Era facile smarrirsi nell’insensatezza”. Storie dal Tempio
Letterature
Veronica Tomassini
“I pensieri non sono assimilati dai libri, spuntano dalle ossa”, Andrej Sinjavskij
Si possono adorare le edizioni Tallone o simili, e possedere, tra gli altri, una copia del mirabile Lettere dalla Russia di Custine, nelle edizioni Fògola, e detestare nondimeno i bibliomani. Si possono amare la letteratura, la scrittura, i libri e allo stesso tempo detestare il tipo antropologico a cui danno luogo. Si può essere grandi lettori entusiasti, più spesso, anche solo per un vasto e indefinito senso di malinconia dettato dallo stupore e dall’orrore di esistere, e da un’involontaria frattura nella fisiologia. Si possono detestare gli scrittori, i critici e i filosofi che sono sedotti dalla potente circolazione tra arte e vita, per il loro trucco pletorico e la passione di chi conosce solo la tentazione della vita, una tragedia che è solo una voluttuosa tragedia e non una tragedia pura e semplice, il fetore del reale trasformato in profumo letterario, che si scioglie in una trama vaporosa, immateriale; in sigillo del loro limite, oltre il quale si dissolverebbero. Poche cose sono detestabili come vedere un fine scrittore e bibliomane accanito, un flâneur TUTTO intellettuale, una Testa che cammina, atteggiarsi con il genere di spiacevolezze che appartenevano al suo idolo Rimbaud, un poeta!
Vezzo fatale, e ahimè frequente, farsi ritrarre in posa attorniato dai libri della propria biblioteca è il plateale indizio che si sta votando un monumento al simbolo della propria decadenza. A meno di non trovarsi di fronte a un genio, l’esibizione della propria erudizione libresca è la fierezza dell’imbecille ormai felicemente ignaro del segreto della propria natura. In genere vi indugia lo spirito di second’ordine, anche se talvolta di rango. I libri dovrebbero sedurre e disgustare allo stesso tempo, per quello che rappresentano! Chiunque si trovi completamente a suo agio in mezzo a loro, come in mezzo alle parole, è uno zero per me. Al contrario, benché amandoli, alcuni di noi si vergognano dei propri libri; è il pudore del peccato originale.
Vedere una grande libreria nella casa di un erudito provoca sempre un certo sconcerto, il brivido dettato da un luogo dove regna il favore di una ricchezza tutta spirituale, la sontuosa cattedrale di una debolezza, l’avventura umana di un delicato, il balocco di un orfano di reale. La prova l’abbiamo quando guardiamo negli occhi un erudito, colui che, in tutto e per tutto, è la fragile versione secolare del monaco medioevale, i miasmi claustrali dell’ascesi dalla vita, perfino quando dovesse lui stesso criticare i maniaci dell’Intelligenza. La sua avventura, nei migliori dei casi, assomiglia a uno splendido veliero che non prenderà mai il mare, che non vedrà mai il mare aperto o le onde furiose del reale; all’infinito guardato dalla terra ferma o all’ignoto coattato verbalmente, e dunque riportato al noto; a uno stupefacente pletorico e un turbamento addomesticato; a una mente foderata di libri, l’orgoglio di una corsa paralizzata dall’erudizione, e la vanità di una creatura priva di paesaggio che infuria dentro il proprio nulla.
I maniaci dei libri fanno l’effetto di chi non ha il coraggio di confessare pubblicamente: “I miei migliori amici sono i libri”, il loro esclusivo colloquiare con i morti o con una cultura anemica. Ovviamente c’è un che di patetico e di triste in tutto ciò. Ma si intravede il misterioso movente di tale passione… la sovranità, il privilegio di un dialogo esclusivo con se stessi e le eccezioni di rango che affollano le antologie e la Storia. È la promessa del nostro piccolo assoluto, la conquista della solitudine. Ma è la conquista dei maniaci dell’intelligenza, nel migliore dei casi, e non quella dei poeti e dei creatori: è la solitudine cartesiana, “l’anima sceglie i suoi compagni, poi chiude la porta” della Dickinson ridotto alle filosofiche tigri di carta. Le personalità complicate, pallidi sensuali a rimorchio della linfa altrui, sono sempre sedotte dalle personalità complesse, sebbene non abbiano il loro coraggio né la loro incoscienza o il loro genio.
È l’atrofia e il paradosso di un mondo in cui l’intelligenza si rivela incompatibile con la vita, perché in preda a “un fenomeno di esacerbazione della coscienza”, a quella cultura che da sempre ci nutre e ci distrae per evitare la nostra ribellione, con un disinnesco cognitivo del reale, con la commedia e il teatro della conoscenza, al fine di separare la vita dalla morte; con la forma più raffinata di aggressività contro la vita che l’Uomo abbia mai prodotto.
La pietà per i propri simili, allora, è legata al dispiacere di incontrare tale sconfitta nei loro occhi. Non perché non sono riusciti a essere uomini, buoni padri o madri, mariti o mogli o cittadini, quanto per qualcosa che ai nostri occhi è infinitamente più grave. È pietà, se così possiamo ancora chiamarla, per il loro dolore, e disagio ad averli intorno, quasi fossero degli appestati, o solo perché in fondo si nuota nelle stesse acque. Quello che non tolleriamo in loro, e in noi, è la perdita significativa o totale della bellezza, del tono e del ritmo della creatura, o il non averli mai conosciuti davvero. Come per i grandi amori perduti, l’Umanità se ne fa una ragione ma non dimentica, si abitua soltanto al dolore.
Amo questa intuizione illuminante del delicato Keats, nelle sue Lettere: “Anche se una lite per strada è una cosa detestabile, le energie che in essa si dispiegano sono belle. È proprio di questo che è fatta la poesia…”, prima che la sua crudeltà fosse sostituita da un “folklore di cretini”, dai critici, i letterati, gli intellettuali e gli eruditi “ibernati nel vaso dell’erudizione”.
Luca Orlandini