21 Maggio 2019

Carmen Llera & Alberto Moravia: le lettere. Testo per cultori dell’antesignano di Houellebecq o inutile mausoleo?

Le lettere tra Alberto e Carmen Llera dimostrano che Moravia conosceva intimamente la materia di cui narra nei suoi romanzi

È vero, probabilmente non si tratta di un testo strettamente letterario. Del resto, non è concepito con quel fine. Si sta parlando di Finalmente ti scrivo (appena ripubblicato da Bompiani, dopo un ventennio), biglietti, pensieri buttati giù, in preda agli spasmi della gelosia e della passione, da uno dei più grandi scrittori italiani e della risposta che decenni dopo – non è dato sapere se per motivi puramente commerciali – gli ha rivolto la moglie. Non ho neppure ben capito se sia una vera scrittrice, ma, a leggerla, ho la sensazione che, per una volta, basti la semplice vicinanza spirituale di un grande come Moravia perché risplenda a sua volta di una luce più intensa.

Mi piace pensare all’autore di La noia nel suo quotidiano, spiarlo mentre si contorce interiormente per questo amore con una ragazza che potrebbe essere sua figlia, Carmen Llera (“Clamorosa differenza di età: ventisette-settantatre all’inizio e trentasette quasi ottantatre alla fine”). Mi piace perché Moravia, in quei suoi libri che tanto amo, è algido, freddo come un entomologo. Studia l’uomo quasi fosse un insetto ma, quando in gioco è lui stesso, la sua lente si deforma – almeno in parte – a causa del filtro amoroso (“nessuno ti amerà mai come me”). È bello immaginarlo, lui così distante, fermo nella sua compostezza, che si lascia andare all’animalità più pura (“Appoggiata a un divano bianco con i lunghi capelli sul viso ho sentito il tuo corpo contro il mio ti sei alzato e sei andato a chiudere a chiave la porta ero di spalle, girata verso la finestra guardavo fuori mentre mi afferravi con mani grandi e mi prendevi da dietro alla maniera degli animali – sembri fatta per questo – l’avevo già sentito – ero poco consapevole del mio corpo L’orgasmo è stato veloce, intenso e mi sono rivestita”*).

Questi stralci di lettere, con le relative risposte, sono la prova che l’autore conosce sulla sua pelle, per intima esperienza, quell’amore borghese che tante volte, nei suoi sviluppi lungo tutto il corso del ’900, ha sviscerato (“Che pensa colui che ama nel momento in cui sa con perfetta sicurezza che la donna che ama sta con un amante? Moltissime cose psicologiche e morali che però trovano un’espressione concreta in immaginazioni fisiche. La bocca sulla bocca, le lingue che frugano nelle bocche. Le mani che accarezzano e palpano il seno, le natiche, il ventre, il pube. Il membro che entra in tutte le cavità femminili: nella bocca nell’ano nella vagina. Il membro e tante altri parti del corpo maschile che vengono leccate, accarezzate, palpate. Il seme maschile che si sparge nelle cavità della donna e si mescola con gli umori femminili. Insomma, l’intimità corporale. Tu dirai che sono immaginazioni lubriche. No, sono immaginazioni amorose. L’amore è un sentimento molto profondo e delicato ma senza queste manifestazioni, non esiste. L’amore senza sesso è quello dei mistici; ma tra un uomo e una donna, l’amore vuole il sesso”). In troppi ritengono che la narrazione possa prescindere dall’autobiografismo e basarsi sul sentito dire, su una narrazione della narrazione. Balle! Bisogna essere intrisi dell’oscurità che si vuole mettere in prosa, o in versi, e Moravia dimostra di esserlo con le sue considerazioni sulla carnalità. Per questo i personaggi a cui dà vita hanno una consistenza letteraria e umana così forte, perché in fondo, proprio come per Houellebecq con i suoi, sono derivati dalla sua stessa carne che, solo successivamente, ha incontrato la fantasia.

E Moravia è, per usare un’espressione del Sartre che parla di Baudelaire, “un piccolo borghese nevrotico” che lotta contro questa sua natura. Basti vedere come parla della possibilità del tradimento: “È un sentimento che nulla ha a che fare con la proprietà come si dice avvenga alla gelosia, semmai è un po’ il sentimento di chi torna a casa e scopre che in sua assenza i ladri sono venuti e, pur senza rubare nulla, hanno sconvolto la casa. Ciò che disgusta in simili casi non è il furto, che non c’è stato, ma la presenza straniera in un luogo intimo. Comunque preferisco sapere quello che è avvenuto piuttosto che trovarmi di fronte a delle bugie e a delle reticenze”.

Naturalmente, questo è un testo per estimatori e cultori morbosi del Maestro – chi ama è sempre morboso –, per chi condivide, seppur solo intellettualmente, la passione che la moglie nutriva per lui (“Nel nostro rapporto per fortuna c’è sempre stata la mediazione della sola cosa in cui credo: la letteratura”). Come i romanzi di Moravia, anche questo testo è parte di un incredibile zibaldone del sentimento del secolo scorso. Con una differenza, come giustamente sottolinea Carmen Llera: la lucidità che “non è mai inutile perché ci permette di non essere personaggi da romanzo ma romanzieri”.

Matteo Fais

*Il testo di Carmen Llera, nel libro, spesso sorvola sulla punteggiatura, preferendo gli a capo. Ovviamente, non era possibile riproporlo in questa sua particolare struttura.

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Si ama sempre ciò che sfugge. Ma Carmen Llera non è una Musa, è un bel musino, il museo del tempo perduto

Per essere una Musa ci vogliono i coglioni. Immagino sia stata bella, la suppongo conturbante – ma senza la stampella di quel cognome un tempo altisonante, Moravia, lei sarebbe solamente Carmen Llera, una come tante. Non una Musa, ma un bel musino. Forse.

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A Moravia piaceva Jun’ichiro Tanizaki. Ha ragione: è molto più estremo di lui. L’erotismo, in Tanizaki, è scalfito dal demone dell’impossibilità. La donna è faina, arpia: l’uomo insufficiente, la sua obbedienza è fastidiosa voluttà. Gli inciuci – dove la carne è esasperata ostia vista l’assenza, assiderata sensualità – sono estremi: nel Diario di un vecchio pazzo il protagonista – il vecchio – arde d’amore per la nuora, giovane, bella, glaciale. Si ama sempre ciò che sfugge. Credo che Moravia, nell’unione con Carmen Llera, abbia voluto riprodurre un romanzo di Tanizaki. In questo caso, la sua scelta sarebbe sublime: cerco di fermare lo sfrenato, porto all’altare ciò che non avrò mai.

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La disparità, l’impossibilità, la vecchiaia del vampiro che si nutre della giovinezza. Tanto basta. Ma quando Carmen Llera piglia la penna è l’impietoso narcisismo tipico delle donne che non sono Muse, ma il museo di ciò che fu. Che c’importa dell’amante di Carmen, le cui “dita sanno darmi piacere” che “mi regala fiori e profumi”, con cui “non parliamo molto, scopiamo”? Che imbarazzo l’assenza del pudore – che non serve a tutelare nulla, ma ad aizzare il mistero – l’idiozia narrativa, la gergalità buttata lì, scopiamo, con vezzo altoborghese, da donna di mondo, mica dell’altro mondo.

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Le muse, davvero, sono altre, vivono nell’impalpabile, in una ferocia di diamante intoccata dal verbo: per questo Carmen Llera, ambiziosa succhiamemorie, fa di Moravia la sua musa, il suo mausoleo, con questa sfilata di lettere di decrepita bruttezza. Per lo più, viene fuori il ritratto di un vecchio (Moravia), mezzo sordo, dai pensieri masturbatori (per incapacità fisiologica, evidentemente, di sbattersi a dovere la giovane moglie: e da questo dovrebbe germogliare il vigore di un romanzo…), che “Non eri scorbutico né antipatico, non credevi di essere superiore anzi, la timidezza ti faceva sembrare arrogante rispondevi al telefono (niente filtri)”. Insomma, un uomo qualunque, precipitosamente banale.

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In sostanza, le memorie di Carmen – ripubblicate, forse, in reazione al libro di Anna Folli, MoranteMoravia. Una storia d’amore, pubblicato da Neri Pozza lo scorso anno (almeno lo scatto furibondo della gelosia repressa lo renderebbe lecito, meno anonimo) – redigono la fatale vita, in anzianità, di due abbienti. Lei porta in giro il cane (“giravo con Arancio, il nostro spinone dallo sguardo languido o vedevo qualche amica”) o fa cagnara, obbligando il vecchio a riconquistarla. Poi, i viaggi. Medio Oriente (“Una notte all’hotel Baron di Aleppo ero irrequieta mi sono alzata e sono partita per Damasco o meglio fuggita”), Stati Uniti (“A New York sentivo l’oceano che mi separava dal vecchio continente, dall’Oriente”), Africa (“Devo smettere di bere coca cola di notte, mi rende nervosa e irritabile. Noi la prendevamo solo durante i viaggi – fa digerire la trovi ovunque – ci teneva svegli nelle lunghe traversate africane”), Parigi (“ti tentava l’idea di un trasferimento a Parigi”). Pare la vita di una ricca lady al fianco di un rugoso diplomatico – in effetti, oggi, Moravia è pura diplomazia, nota a margine di cui si racconta la vita poiché l’opera sta lentamente svanendo, non vive. Qualcuno ricordi a Carmen Llera che non è Jacqueline Kennedy e neppure Marina Cvetaeva. Delle sue memorie, ubriache di nostalgia, chissenefrega.

Davide Brullo

Gruppo MAGOG