Ushuaia è la città alla fine del mondo, la capitale della provincia di Terra del Fuoco, Antartide e Isole dell’Atlantico del Sud; si trova a 3mila chilometri da Buenos Aires, e a 17mila dall’Alaska. Sono stata a Ushuaia all’inizio di ottobre e ho visitato la nave ammiraglia della Fuerza Naval Antártica. Il 12 ottobre la città ha compiuto 133 anni, con un grande festeggiamento: cerimonia ufficiale, parata civica e militare, colorata e ricca, e l’apertura al pubblico del restaurato rompighiaccio ‘Almirante Irízar’, la nave della Marina militare Argentina che è approdata nel paese nel 1978 e che un giorno del 2007, dopo 34 campagne nel Continente Bianco, si è incendiata, in alto mare.
A vederla oggi, ormeggiata nel porto, sembra incredibile che una simile massa, una massa che ha valicato il ghiaccio più impenetrabile del pianeta, abbia potuto incendiarsi per l’80% e che un giorno sarebbe stata salvata.
Il pomeriggio del 12 ottobre, in una delle sale, il comandante Maximiliano Mangiaterra ha raccontato l’ambizioso progetto di ricostruzione e ha annunciato alla stampa che in pochi giorni la nave avrebbe varcato il canale di Drake per raggiungere l’Antartide e concludere il viaggio con la prova del ghiaccio, prima di tornare a Buenos Aires per l’approvvigionamento e il ritorno al servizio attivo nella prossima stagione estiva.
“E’ motivo di orgoglio – ha detto – che l’Irízar sia tornato all’opera e che lo faccia con una tecnologia di ultima generazione”.
Quattrocento metri quadrati dediti alla scienza, che comprendono tredici laboratori per studi di glaciologia, chimica, biologia marina; un ponte di comando integrato con tutti i sistemi e spazio sufficiente per alloggiare più di trecento membri dell’equipaggio: questo ha riferito il comandante. Una nave tramutata in una macchina multifunzionale, uno dei dieci rompighiaccio più grandi al mondo. In breve, “una Fenice gigante”.
Quando la conferenza stampa è terminata, ho preso una scala, sono entrata nella cabina di comando. Il sole calava sopra un fronte simile a un enorme parabrezza e creava ombre lunghe, oltre la fila degli schermi. Uscendo, ho visto un marinaio in camicia, con una giacca leggera, che si sfregava le mani. La temperatura non era superiore ai cinque gradi, eppure c’era un uomo, fermo, come altri dell’equipaggio.
“Per di qui”, mi ha detto, guidandomi verso la discesa.
Gli ho augurato buona fortuna. Mi ha ringraziato.
“Ci sarà necessaria”, ha detto.
Ho raggiunto il piano successivo, poi una delle estremità della barca, ho scattato alcune fotografie e ho percorso le scale che restavano. Poi, sulla terra ferma, ho alzato la cerniera della giacca fino al naso. Infine, me ne andai.
María Soledad Pereira
María Soledad Pereira è una giornalista e fotografa (sue le immagini che adornano l’articolo) freelance di Buenos Aires. Per lavoro, viaggia molto. Scrive, tra l’altro, per Letras Libres e FronteraD. Suoi testi sono stati pubblicata in Italia dalla rivista Internazionale. Un racconto, La orquesta impensada, sarà pubblicato dall’editore statunitense Routledge all’interno di un progetto letterario e didattico, una antologia per insegnare spagnolo agli stranieri in Gran Bretagna e Stati Uniti. María Soledad Pereira ha un blog, Sostiene Pereira, qui.
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Ushuaia es la ciudad del fin del mundo y es, además, la capital de la provincia de Tierra del Fuego, Antártida e Islas del Atlántico Sur; está situada a 3000 kilómetros de Buenos Aires, a 17000 de Alaska. A Ushuaia viajé a principios de octubre y visité el buque insignia de la Fuerza Naval Antártica. El 12 de ese mismo mes, la ciudad cumplía 133 años y lo festejaba en grande: una ceremonia oficial, un desfile cívico militar, multitudinario y colorido, y la apertura al público del renovado rompehielos Almirante Irízar, el buque de la Armada Argentina que había llegado al país en 1978 y que un día de 2007, tras 34 campañas al Continente Blanco, se había incendiado en alta mar.
Al verlo ahora, amarrado en el puerto, costaba creer que semejante mole, una mole que se le había atrevido a los hielos más duros del planeta, hubiera ardido un 80% y que, aun así, se hubiera salvado.
La tarde del 12 de octubre, en una de sus salas, el comandante Maximiliano Mangiaterra se refirió a lo ambicioso del proyecto de reconstrucción y anunció, ante la prensa, que en pocos días el barco cruzaría el Pasaje de Drake, que llegaría a la Antártida y que así cumpliría con las pruebas de hielo, antes de volver a Buenos Aires para el alistamiento y el regreso al servicio activo en la próxima campaña de verano.
—Es un orgullo —dijo— que el Irízar vuelva a operar y que lo haga con tecnología de última generación.
Cuatrocientos metros cuadrados dedicados a la ciencia, que abarcan trece laboratorios para tareas de glaceología, química, biología marina; un puente de mando integrado a todos los sistemas y espacio suficiente para alojar a más de trescientos tripulantes: a eso se refería el comandante. Un buque convertido en una máquina multipropósito y en unos de los diez rompehielos más grandes del mundo. En síntesis, un “ave Fénix gigante”.
Cuando la conferencia de prensa terminó, subí una escalera y entré a la sala de mando. El sol caía sobre un frente como un enorme parabrisas y creaba sombras más allá de una hilera de pantallas. Al salir, vi a un marinero de camisa y saco liviano frotándose las manos. La temperatura no superaba los cinco grados centígrados, y sin embargo, ahí estaba el hombre, firme, como otros más de la dotación.
—Por acá —me dijo, guiándome para el descenso.
Le deseé buena suerte. Y me lo agradeció.
—Vamos a necesitarla —dijo.
Llegué al piso siguiente, caminé hasta uno de los extremos, saqué fotos y bajé los escalones que restaban. Después, ya en tierra firme, me subí el cierre de la campera hasta la nariz. Y me fui.