15 Febbraio 2019

“Al novantesimo parallelo della scrittura”: dialogo con Filippo Tuena

A un certo punto – in ogni punto, in fondo, ad ogni istante, nella rabbiosa estasi del fiato – l’estremo si scrive, l’inequivocabile bianco di Antartide è una lettera, è alfabetico, la vita pura letteratura. “Scott è l’ultimo ad abbandonare la scrittura come attività quotidiana… vi si legge un profondo senso di riposo, come se scrivesse già dall’oltretomba, già separato dal consesso e privo di qualunque senso di angoscia”. Chi ha amato Ultimo parallelo deve andare lì, pagina 384 – questo romanzo, in effetti, va ‘giocato’, è una specie di Rayuela delle vite altrui, carnali o museali, del fittizio e dell’artistico, del dettaglio, dell’estetico e dell’esotico – per rientrare nella vicenda di Robert Falcon Scott, ennesima – anomala, tragica – variante dell’epica del ritorno. Lì mi fisso, certo che il demone della scrittura è il terribile bianco – ti fa scrivere per sottrarti ogni parola, per ipnotizzarle tutte e tu boccheggi a Nord – e che lo scrittore vada dissipandosi, attratto dall’incontenibile più che dall’inconsueto. Torno a me. Anzi, a Filippo Tuena. Nel suo polimorfico romanzo, di marmo e di azzurro, c’è Micene e Marsilio Ficino, l’estremo Sud e la Grecia arcaica, l’Odissea e Ovidio, la più bella schiena della storia dell’arte – Velázquez, adoratissimo, una malia che t’imprigiona fino a sbriciolare il desiderio in ipnosi – il patriota Luciano Manara e lo scrittore W.G. Sebald, Stendhal e Sofonisba Anguissola e Ludovico Ariosto e una avventurosa bibliografia, e tantissimo altro, il tutto sigillato, che impertinenza, dalla parola “il segreto”, quella che chiude il libro. Finalmente un libro!, esulto – e stop – leggendo Le galanti (sottotitolo: “Quasi un’autobiografia”) di Tuena (il Saggiatore, 2019), un libro – non più romanzo, ma universo – incontenibile, bulimico di sapienza, che non ha paura della cultura, che non narra ma svela, che denuda il gioco romanzesco facendone esperienza mutisensibile, dove lo scrittore – Tuena – è ragno e ruggito, è drappo di luce e canone di tenebra. Un godimento dell’intelletto. E il rischio – supremo – di morire, attraverso gli impossibili. Perizia nell’imprevisto, natura bianca della scrittura, morsi nel bagliore. Non facciamo più l’ode alla bravura degli scrittori oltreoceanici – il genio lo abbiamo qui. (d.b.)

Denunciamo fonti, padri, padrini. Ipotizzo che la ‘Bibliografia sommaria’ che hai compilato a fine volume sia anche la tua – ricalco Milo De Angelis – ‘Biografia sommaria’. È così? Qual è il libro e l’opera d’arte (dacché di quello parli) che ti hanno dato la scossa, che ti hanno imposto una conversione dello sguardo?

Per chi scrive, le bibliografie assomigliano davvero alle biografie; quelle sommarie assomigliano piuttosto ai frammenti di una biografia tutt’altro che sommaria, aggettivo che assume sempre un connotato riduttivo, corsivo, compendiario. Si tratta al contrario di testi fondamentali che delineano e circoscrivono momenti fondamentali nella vita di chi scrive e nel suo lavoro. Non è un caso che gli ultimi tre pezzi – o le ultime tre galanterie – che ciascuno li chiami o le chiami come preferisce – raccontano di libri, anzi di speciali e insostituibili singole copie di quei titoli, testi che hanno avuto la ventura d’incrociare la mia esistenza, non solo per quel che dicono ma per la semplice circostanza d’essere stati tra le mie mani in alcuni momenti importanti e che sono preziosi per quello e non per la veste tipografica o rarità d’edizione. Sono preziosi perché racchiudono brani di esistenza e li irradiano ogni volta che li prendo in mano. Per come si è andato strutturando il libro, l’autore e l’opera che più lo connotano sono Ovidio e le sue ‘Metamorfosi’. Si narra di amori a volte risolti, a volte impossibili, ma che producono mutazioni irresistibili e che non consentono un ritorno. Una volta che la ninfa si tramuta, per sfuggire all’impeto degli dèi, il cambiamento è definitivo. Rimane qualcosa nella memoria, impalpabile, qualche gesto che può tradire un’origine ormai lontana. La stessa cosa accade a noi quando ci innamoriamo. La passione può essere transitoria ma il cambiamento è definitivo. Anche se l’amore svanisce non si torna più come prima.

Fonti letterarie. Nel libro ne appaiono due, d’evidenza elettrica: Sebald e Stendhal. Unisco le fonti a un concetto formale che percepisco leggendoti: tu rompi le forme narrative. Non ti va di scrivere un romanzo ‘dalla A alla Z’: divaghi, rompi, erompi, scassi, fracassi. C’è la leggerezza del flâneur e l’arguzia dell’astronomo. Insomma: cosa è per te la letteratura?

Di Stendhal m’interessa l’ingarbugliamento, la ‘sconclusionaggine’, il trasformare una biografia in qualcosa di totalmente immaginario dove però al lettore sono concesse alcune boe di orientamento. Se è attento, riesce a separare il grano dalla crusca. Il gioco delle date dei suoi soggiorni fiorentini è emblematico. Ci ho perso tempo per ricostruirlo ma n’è valsa la pena, credo. Più che nei romanzi è in questi testi ‘pseudo-autobiografici’ che il gioco letterario dello scrittore francese si fa sottile e affascinante. Sebald è il mio autore di riferimento, ma non tanto per l’uso che fa delle immagini – io vengo dalla storia dell’arte e per me è naturale ragionare per immagini e sulle immagini – ma per l’imprevedibilità del tessuto della narrazione. Questo libro, le prime volte che ne ho parlato in casa editrice, doveva svilupparsi in due passeggiate, una romana e una milanese – le città dove ho vissuto. Poi è prevalsa l’idea di una sorta di museo immaginario dove le opere d’arte producessero innamoramento. O che documentassero passioni trascorse e non recuperabili. Ma in entrambi i casi – passeggiate o museo immaginario – era l’imprevedibilità a governare la narrazione.  L’aspetto più sebaldiano del libro è quello del girovagare. Inizialmente mi ero fatto uno schema delle opere d’arte che avrei voluto analizzare ma non sapevo che cosa avrei trovato scavando in profondità. Dunque anche i circa trenta pezzi in cui è diviso le ‘Galanti’ sono stati determinati da quel che ho trovato e non da quel che avrei voluto trovare. A volte ho sacrificato dipinti o sculture che ho amato ma di cui non sono riuscito a trovare l’appiglio per farle mie. Altre volte è accaduto il contrario, oggetti poco amati si son fatti strada e hanno conquistato il loro posto. Accade così anche con gli amori di una vita. Alcuni non sappiamo risolverli, altri ci invadono completamente. Certo che non mi va di scrivere un romanzo ‘dalla A alla Z’. Ne ho fatti – i primi tre che ho pubblicato lo sono in gran parte – ma non mi diverte più. Il cambiamento è avvenuto nel 1999 quando ho pubblicato ‘Tutti i sognatori’, su Roma in tempo di guerra. Mi sono accorto che il semplice elenco di fatti di sangue avvenuti allora aveva una valenza assai superiore alla ‘drammatizzazione’ di quel periodo, ovvero al mettere in commedia quei fatti. Quello è stato il libro di svolta. Non mi dispiace che le Galanti festeggi il ventennale di Tutti i sognatori, che tra l’altro cito esplicitamente in queste pagine, paragonandolo – vado a memoria – a una lettera d’amore.

Dalla scrittura autografa di Tuena possiamo risalire al suo talento di scrittore?

Quanto alla letteratura, la questione può riassumersi così: è il conflitto tra la storia e l’individuo, tra gli eventi e il loro essere narrati. Sia che si tratti di vicende storiche che questioni personali. È l’impatto di queste immagini innescate attraverso la memoria, storica o individuale, a produrre l’esplosione. Le cose vanno in frantumi ed è solo andando in frantumi che riesco a scoprire che cosa nascondevano.

…piuttosto, cos’è per te la scrittura? Azzardo. Nel libro torna l’ossessione antartica. Ti concentri sugli scritti di Scott, di Wilson, di Bowers, quasi che in quell’enigmatico bianco dove gli uomini stessi si muovono come ideogrammi la scrittura avesse un valore perentorio, simbolico. In quel bianco dove galleggia la scrittura, però, non c’è Dio. “Scott l’agnostico ha percorso il deserto, è stato l’anacoreta dei ghiacci, ma non ha incontrato la divinità che domina quei territori”, scrivi. Estremo Sud, scrittura, bianco, Dio assente. La tua idea di scrittura ha a che vedere con l’assurdo antartico?

Scrittura e Antartide: tutto si riduce alle poche parole pronunciate da Scott quando raggiunse il novantesimo parallelo. It’s an awful place. È un luogo orribile. Privo di coordinate, tutto si riduce a un punto geografico. È un luogo inospitale, privo di ripari. In effetti quando arrivi al novantesimo parallelo della scrittura la sensazione non è piacevole. Lo percorri ma cerchi subito di tornare a luoghi più confortevoli, a situazioni dominabili e non alla devastante sensazione di essere senza protezione. Non si può barare. Non si possono abbellire le situazioni con una scrittura garbata. Una scrittura educata tradirebbe la natura del luogo che si percorre. Come forse si evince, il libro si struttura in due grandi parti, una legata alla seduzione femminile, erotica, l’altra al desiderio di annientarsi, di scomparire; alla dannazione di essere gettati in questo mondo e di non poterlo evitare o dimenticare. La vicenda di Scott è quella di una lenta, meditata e inflessibile autodistruzione. Ne siamo tutti attratti e vittime.

Rewind. Come nasce questo libro ‘per figura’, perché è una ‘quasi’ autobiografia?

Nonostante io abbia studiato da storico dell’arte non ho mai esercitato né la professione accademica né quella museale. Per molto tempo sono stato antiquario e dunque attratto dall’aspetto estetico e dalla vicenda che le opere d’arte raccontavano. Quando ne acquistavo una e la portavo in galleria valutavo la pertinenza di quell’oggetto in quel luogo, se apparteneva alla componente commerciale del mestiere o se rimandava a qualcosa di più intimo, che poteva raccontare a me qualcosa di me che ignoravo. Sempre recuperando la devastante malinconia ovidiana, quel che emerge da quelle opere è nascosto in pieghe profondissime. A volte ricompare in maniera imprevedibile e viene a giustificare la passione che mi preme. Salvo una, nessuna delle opere d’arte che commento in questo libro m’è appartenuta e dunque emerge abbastanza evidente l’impossibilità di possedere alcunché. Tutto è lontano e quel che è vicino, come il dipinto nel mio salotto, è inconoscibile.

Il libro comincia con l’arcaico greco e si chiude con l’Odissea della Calzecchi Onesti. Ancora è lì, nel ritorno all’alveo, nell’alveare soleggiato della grecità, il viaggio?

Il ritorno a casa è paradigmatico. È il viaggio quintessenziale, che sia quello storico dell’Anabasi o mitico di Ulisse o che sia quello abortito di Scott. Ma anche quest’ultimo giunge a compimento. Ci tengo a ricordare che i corpi di Scott e dei suoi sono oggi, molto probabilmente, all’interno di iceberg che si allontana dall’Antartide e che a va a sciogliersi e li libererà da qualche parte nell’Oceano Pacifico. Ma anche il viaggio dello scrittore è un nostos, un ritorno. Compiuto il libro – ma il libro non si compie mai, la sua forma è flessibile e inafferrabile legato com’è non ai fatti, ma alla memoria dei fatti – il ritorno a casa è l’ambientazione di ogni capitolo finale, infausto come quello di Agamennone, fausto come quello di Ulisse.

Più che altro, sorprende l’uso che fai dei materiali storici, che siano lettere, frammenti statuari, ritratti, ipotesi fotografiche. Sembra non esserci distanza tra la Storia e la tua storia, tra i dettagli di vite lontanissime nel tempo e i lacerti della tua vita. Perché questa necessità di penetrare in certi istanti della Storia? Mi sembra, tra l’altro, un gesto del tutto ‘anti’ in un’era dove la cronaca è sostituita da instagram e la memoria da un tweet, dove non c’è profondità ma la cecità del presente totale, continuo. 

Anche le moltissime citazioni, anche lunghe, che compaiono nel libro, hanno il medesimo scopo delle immagini. Si tratta di dati storici ‘verbali’ coi quali si deve entrare in rapporto; manifestano una verità altrettanto efficace di quella visiva. La componente autobiografica è il punto di vista da cui osservo l’arte antica. Che cosa le opere che descrivo hanno in comune con la mia vita. Come mi hanno cambiato. Che cosa in maniera inaspettata fa ritornare alla memoria, siano battaglie risorgimentali o dipinti galanti, scene di seduzione o di passione che ho vissuto. Scrivendolo, il libro ha svelato cose che non sapevo, che non rammentavo, che non mi aspettavo ritornassero prepotentemente in primo piano. Ne do conto. È anche un suggerimento al lettore: fai come me, scoprirai qualcosa d’importante. Quanto al senso della storia, mi guardo indietro perché ogni scrittore lavora sulla base della memoria e dell’esperienza e perché, invecchiando, è quella la direzione dove si più spazio e libertà di agire.

Gruppo MAGOG