Forse è a causa di quel rigagnolo: scorre trascinando con sé un’Amazzonia in miniatura – di sé ha intriso la terra che nonostante il sole, spazia in pozze, in Pleistocene di fango. Entità spirituale di questo rio colombella, questo rio piccionaia, che tutto trasfonde in melma, in creazione presa appena all’inizio.
Per questo, si marcia a strappi, il sentiero è disadatto, occorre andare per roveti, per i campi, il cui verde, oggi, è abbagliante, è un abbigliamento di lampi.
I caprioli calligrafi hanno lasciato insegne e vessilli sul fango – una loro Iliade, una loro Torah di sumere zampe. Come è possibile risalire al loro insegnamento, al loro insinuarsi tra le insenature dell’alfabeto? I bronchi del bosco ruggiscono. Dov’è la bestia a quest’ora?
Penso alla cerva assetata del Salmo 42 – alla cerva che apre la sua criniera, più vasta del sole.
Gli elementi del mondo, a quest’ora, sono in agguato, sono sulla cuspide dell’ira – le rondini si affacciano come falcetti, il cielo, ben tosato, ora può correre, come una pecora.
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Più tardi, appunto, le pecore. Pecore raganelle, al pascolo.
Ma ciò che vedo non è innocente – ciò che vedo è forse un agnus dei in muratura.
Il campanile della chiesa spicca, come il grano, chiaro, splende, ovunque. La chiesa, però, è in crollo. Hanno smontato l’altare e gli alberi crescono felici dov’era la navata centrale: il fico ha la buddità sulle foglie a palme aperte. A cascata, l’edera penetra nell’abside, penetra per le finestre; la cupola è sfondata, stelle a sei punte, orfane, trottano sui residui della volta. Hanno sete e vogliono un capezzolo a cui ancorarsi. La trave, travolta, sembra un drago; un serpentario, immagino, sotto i piedi.
Bosco in lotta con l’angelo.
Poco oltre: il cimitero. L’erba, la barbarica, degna erede degli Unni, ha travolto ogni cosa. Apro il cancello – non disturbare i morti, non esserne ostaggio, dice una voce – un cartello, di esosa ipocrisia, detta gli orari delle visite. Lapidi irriconoscibili, fotografie tumulate dall’oblio; una croce, in ascesa, tra quella gloria erbacea; ruggine a significare il Giordano e la benedizione.
Glabri morti, grati morti.
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Non saprei dire se sia questa la benedizione. Morire a tal punto che il marmo inghiotta l’iscrizione del nome – morire innominati – morire succubi dell’erba.
Lì per lì però penso ad altro. A come possa sparire un paese. Chi lo ha inghiottito?
Quei morti, dico. Avranno avuto figli, fratelli, zii, cugini. Quando si è interrotto il legame di venerazione, quando si è interrata la stirpe? Come il fiume sotterraneo che erutta fango. Il fiume è invisibile, e tu pattini sulla sua coltre – e il fango ti afferra le scarpe, i calcagni, le caviglie. Pretende che ti inginocchi.
Prova a sellare la cerva, prova a scalfirne la sete, l’insaziabile.
Sussurro la preghiera che il Nazareno ci ha insegnato. Sciamano vespe. Ronzano i morti.
Quando non si venerano i morti, si muore.
Del paese resta l’insegna, l’istoriato nome – poi: qualche silos in abbandono, case sfondate, un aratro meccanico sotto un velcro di piumate erbe. Falangi di felci. I corvi, i rospi del cielo, volano a coppie. L’iddio ha il corpo della cinghialessa e non so se questo sia qualcosa che si approssima al bianco, al significato della parola bianco.
Dentro una casa, certuni onorano la festa – gli unici vivi. Vivono dietro una trincea di lavanda. La casa è verde. Opera di coltello e d’amore – sopravvissuti – una visione, forse.
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Forse tradurre il testo sacro, la Bibbia, ha a che fare con quest’opera di terribile spoliazione.
Per noi che veniamo dopo tutto questo manovrare di linguaggi, dopo il cardine, il cardinalizio, l’andare tra i cardi. Forse è questo lavorare senza l’altare che ci protegga, senza più paramenti né paratie – con l’erba in faccia. Con l’erba alta che sfacciatamente ci spezza il viso. Erba che inibisce le gengive all’inno – un nuovo innario da fare, come le frecce.
Insieme a Roberta Rocelli, per il Festival Biblico in atto quest’anno, si è dato forma al “Salterio dei Poeti”. A trentatré poeti, italiani e non solo, è stato chiesto di tradurre un salmo. Non contano i nomi, la nomea, la ‘competenza’: nel gruppo, ci sono poeti noti e ignoti, vecchi di vita e giovanissimi, cattolici o atei; c’è chi ha tradotto dall’ebraico e chi dalla “King James”, la versione inglese, chi dal greco dei “Settanta”, chi dal tedesco o dal latino, chi riformulando l’italiano, in un enigma traduttivo che comporta ascesi, asciuttezza, svuotamento di sé. Alcuni sono restati ancorati alla lettera, altri, letteralmente, sono andati fuori via, negli ignoti della propria ispirazione – tradurre, d’altronde, lo detta San Paolo, è un carisma, non incardinato, dunque, ad alcuna dottrina di esperti e specialisti. Qui, specialmente, ci sono degli avventati, degli insipienti – a questa forma di speciale inettitudine, di avventuriera investigazione si dà nome poesia.
Nel “Salterio dei Poeti” – che è un breviario da tenere in tasca, sempre con sé, a monito e a protezione – c’è un salmo tradotto in friulano e c’è un salmo extracanonico, c’è un salmo trapiantato nella lingua astrale di un poeta australiano. Il libro – fuori commercio, cosa per latitanti dall’ovvio – sarà in giro nei giorni del Biblico, dal venticinque aprile in poi, fino a giugno, qua e là.
Ciò a cui ci si appella, è certo, è la lunga, disordinata, dissotterrata tradizione di poeti e scrittori che hanno verificato il dire biblico. La nostra poesia – francescana prima che cortigiana – da quello proviene. Dunque: Dante, l’Assisiate, Jacopone, Petrarca; il Giobbe secondo Leopardi, le ustioni di Manzoni; Bontempelli, Quasimodo, Pasolini, Testori, Luzi, Raboni… Non si è mai tentato, finora, in Occidente, tranne sporadici, singolari, pur straordinari momenti – gli esperimenti biblici di Guido Ceronetti e di Erri De Luca, quelli di Jean Grosjean e di Paul Claudel in Francia, per dire, Coleridge e Milton nell’antro anglofono, i saggi di Harold Bloom negli Stati Uniti – un’indagine così ampia sui rapporti tra parola sacra e parola poetica, tra poesia contemporanea e Bibbia. Il libro dei Salmi, il libro infinito, è il ‘grande codice’ della poesia occidentale: Davide, il re salmista, che con il canto placa il male e piega Dio al suo sussurro, danza al fianco di Orfeo.
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Leggo qualcosa che Tiziana Cera Rosco ha scritto intorno a questa Pasqua. Io che del Vangelo non so trattenere nulla, se non un invito al fuoco, all’abbandono, all’abominio del sé, da setacciare fino alla garza del grazie, ricalco e imparo:
“Dal profondo del mio cuore non mi importa della resurrezione ossia se Gesù sia risorto o meno. Mi importa invece tantissimo che abbia portato l’idea del risorgere così in alto e così vicino alle nostre possibilità tanto da cambiare la prospettiva alla vita. Mi importa tremendamente che sia vissuto – che uomo incredibile, faccio fatica a tenerlo tutto a mente – e che sia vissuto così vicino a me tanto che potevamo incontrarci perché 2025 anni, in questo tempo infinito di tutte le cose, non sono nulla”.
Nel Salmo che ha tradotto, il 51 – riprodotto in calce – appaiono anche “i cani nella neve”. Forse è lì, nel bianco ovunque, nel bianco-bianco, che accade Dio – mio Iddio lebbra, mio Iddio artico, mio Iddio capodoglio, mio Iddio tutto e tutto sia un Moby Dick.
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Leggendo Giovanni, il brano evangelico in cui Gesù appare a Maria di Magdala – 20, 11 ss.; mi aiuto con la non bella ma utile traduzione di Giancarlo Gaeta edita da Quodlibet. Capisco – più che altro, annaspando – che i morti, gli appena morti, restano per un po’ tra noi, a rinnovare i legami (“Non trattenermi, perché non sono ancora salito al Padre”), o a scioglierli per sempre. Come sempre, Gesù è frainteso, è irriconosciuto e irriconoscibile: in vita lo dicevano profeta, un Elia; ora, apparso, è preso per “il giardiniere”; anzi, per colui che ha trafugato la salma del Nazareno (“se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai messo e io andrò a prenderlo”: estrema predazione del corpo, in predicato di unguenti). Atto di sabotaggio di Gesù e a se stesso. Nessuno sa individuarlo, sa dire chi egli sia: la voce, però, è più del volto. Al sentire il suo nome, al sentirsi chiamata – Mariam! – la donna capisce, la donna sa, Rabbuni! Sempre è necessaria la contraffazione, la contraddizione – morire per rinascere veri. Troppo facile circostanziare i fatti in un volto: identità non è l’identico.
Questo andare tra irriconoscenza e sconosciuto è poi il tradurre.
Impaniarsi, si dirà – non è detto che appaia.
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Dal “Salterio dei Poeti”
Salmo 42
Lamento del Levita in esilio
Al maestro del coro. Maskil. Dei figli di Qorah.
Cerva assetata l’anima miasbava per rivoli d’acqua – per te, o Dio.L’anima mia è in arsura per Dio, il Dio zampilla-vita;quando potrò tornare ed espormi al suo volto?
Mangio lacrime giorno e nottementre mi scherniscono senza tregua: Dov’è il tuo Dio?
Ricordo questo, e in me l’anima esala:emergevo tra la gente, all’avanguardia per la casa di Dio,tra inni e grida di giubilo di una folla in festa.
Perché ti schianti, anima mia,perché in me bramisci? Confida in Dio:ancora potrò celebrarlo,archivio delle mie fattezze, mio Creatore.
L’anima mia è frantapoiché mi ricordo di tedalla terra del Giordano e dell’Hermon, dal monte Mis’ar.
Abisso desta abisso nel turbinio delle tue cascate,i tuoi flutti e i tuoi frangentiirrompono su di me.
Di giorno l’Eternoaccende il suo amoredi notte in me è il suo cantico,supplica del Dio vivente.
Interpellerò Dio, mio baluardo:Per quale ragione di me ti dimentichi?Perché vago oppressodal giogo dei nemici?
Raschiano le mie ossa con blasfemie gli aguzzini,irridendomi tutto il giorno: Dov’è il tuo Dio?
Perché ti schianti, anima mia,e in me bramisci? Confida in Dio:ancora potrò celebrarlo,archivio delle mie fattezze, mio Creatore.
Nel mio esilio di figlio che aveva appena perso la madre e, oltre la patria del cortile, voleva diventare grande, disperso nel piccolo popolo di altri bambini estranei l’uno all’altro, intruppati in seminario, il canto d’esilio del salmo 42 (ad aprire il Secondo Libro, a scandire la mia Seconda nascita) risuonava con particolare potenza, fra gli altri. Per noi, gregge petulante di Dio, i salmi erano pasto quotidiano, da brucare sotto lo sguardo attento di sacerdoti esperti, smaliziati al plagio della vocazione.
La cerva assetata mi ha tormentato notte dopo notte. Bestia femmina, di odori forti, selvatica, nel cui sguardo l’abisso dell’animalità rispecchia l’anima dell’uomo. Madre perduta e desiderio incipiente, negli anni della pubertà, la cerva mi ha sedotto. Ed è ancora inseguendo lei che mi avventuro in territori non giurisidizionali. Altri filologi esperti, allattati nella lingua di Davide, avanzeranno diritti. Il poeta è sempre un ladro, un accattone reietto che rovista nel tempo, un eretico che s’infila tra la folla con in tasca una ruvida pepita di verità. Ci pagherà un’ora d’amore, un tozzo di pane. O la scambierà con il fondo di bottiglia di un bambino.
Ho passato lo sguardo, ovviamente, e provato la lingua sulla corteccia scorticante dell’ebraico, da autodidatta, ma l’eco nelle viscere riportava a quell’esilio, alla nenia tradizionale e armonizzata dei salmi, spesso cantati anche da noi ragazzini (pietra liscia, levigata da millenni, splendente e scivolosa al passo), e alle brame del ventre, morsa di solitudine e desiderio d’acqua, di nuove sorgenti. Indietro non si torna: questa filologia di vita sprona a forzare lo scrigno, ad appropriarsi dei sussurri del dio ripetuti di lingua in lingua. Dio regge anche il fiato degli atei, anche di chi rigira il coltello nella piaga e mentre ti contorci nel dolore chiede, spavaldo: “Dov’è il tuo Dio, adesso? Eh, dov’è?”. Proprio lì, dentro la domanda, verbo che s’incarna anche in un tempo assurdo.
Un sacerdote con cui colloquiavo, proprio mentre stavo traducendo il salmo, mi riportava delle sue preghiere su questi testi, di quel senso di angoscia e oppressione per il nemico. Come non bastassero i rumori di fondo dei nostri anni, mossi da una sete di giustizia che stordisce e confonde. Abbiamo tutti una patria ideale e perduta alle spalle, un sogno che ci asseta, e un nemico che ci opprime.
La cerva è attenta ai rumori. Si nasconde. Scappa veloce. Osserva senza mostrarsi. Solo quando si sente al sicuro esce in una radura e pascola al sole.
Sia così la nostra anima: raccolta e guardinga, in tempi di sperpero dell’io e di sproloqui. Non nei dispositivi elettronici, non negli abissi del web troveranno salvezza le nostre individualità. Dio è la memoria della nostra identità, colui che ci porta “scolpiti sul palmo delle sue mani” (Isaia 49:16).
Traduzione e commento di Andrea Temporelli
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Salmo 51
Porta numero 51
Abbaia la tua pietà, Signore, che arrivo con il mio sfregio.Spingimi la testa nel tuo amoreSpingila verso il mio pettoRompi l’osso occipitale dell’orgoglio che tiene su il collo Per il quale non so baciare la dolcezza Che hai inalterato nel mio cuoreDunque spingimi verso la vicinanza violenta Del tuo battito che sono tutta ioTamburellami con la tua graziaCol capo piegato su me stessaAnnegamiFammi sbranare dal centro di questo petto L’iniquità che mi protegge offendendotiFlettimi, spezzami, raschiamiScorzami da questa pelleCon cui ho solidificato la maschera della mia purezzaSmascherami, sì, sfiguramiRiportami riconoscibile a misura ripidaRipertica l’altezza con cui mi hai precipitatoRicongiungimi con la stretta del tuo giudizioPerché contro te solo ho peccatoCon il male ho scomposto quello che la tua parola aveva allineatoRiportami all’aria della tua boccaRespirami profondamenteE vietami l’uso della disperazione Perché non voglio coincidere col mio erroreReincarnati in questo corpo flessoNon farmi morire nel NessunoAppendimi denocciolata al tuo colloFammi ciondolare vicino al tuo caloreRistabilisci la violenza non del sacrificioMa dell’abbandonoAbbandonami in te soloIsolami in te soloSfoderami dal mio peccato, fammi splendere ancoraE torniamo alla neveRimarginiamo lo sfregio al biancoLava con rami e ghiaccio la pelle dell’animale ancora vivo Che ha scambiato l’intimità siderale e il suo diapasonCon il suono dell’impatto di un colpo genitaleQuesta inviolabile intimità che esige il riconoscerci ancoraRiconoscimi bianco, spezza ogni osso Bucalo, intarsialo con la tua Parola in meSostituisci il mio cuore col mio stesso cuore ma riamatoStiamo bocca a bocca con la Pietà che parlaSillabami mentre dormo l’oro del tuo fiatoLasciami solo nel sonno, solo con teSaldami come il denudato mai privato del tuo ringhio.Non abbandonarmi, rimani in me.Non guardare la banalità del mio peccato Liberami dall’inguine con cui fingo un altro bianco per raggiungertiE aprimi come un sesso in pieno petto in tutti i lembiSciogli questo ghiaccio irrigidito Che ritorna acqua al contatto col Vivente in meNon farmi soffocare dalla mancanza della gioiaNon accatastarmi tra i pesci di una fossaChe muoiono perché nessuno sa più come farli respirare.RiossigenamiSpingimi la testa nel tuo polmone di neveAzzannami nella dolcezza dello scomparire nel tuo fiatoSi, scomparire.Ti ricordi quando andavamo con i cani nella neve?Quanto abbaiavano i cani, orinavano in corsa nella buferaE noi sempre bianco davanti dietro di fiancoSi condensava il fiato come un fuoco delle neviLe facce tagliate senza più vedere se non il freddo ardenteChe anche i cani si giravano e riannerivano i loro occhi nei nostriSempre vibranti dentro il bianco ancora in corsa che si spaccaSulla terra che vibraFino a non servirci delle slitte, perché non c’erano più slitteFino a buttare via le redini perché non c’erano più rediniE vedere appena la terra davanti a noi Come un prato bianco immenso mietuto di fresco Senza più corsa dei cani e voci degli abbaiSolo la linea di silenzio del ritorno a casa.Fammi ritornare, mio Bianco VelocissimoFammi risalire Sion, Gerusalemme Fino al cospetto della montagna orsoFammi sgozzare l’orsoE lasciare ancora un bisbiglio luccicante nella neveNon disprezzare quello che ho da offrirtiNon i sacrifici degli uominiChe non sanno quel che dicono e non sanno quel che fannoMa la somiglianza del tuo sangue siderale in me.Fiutami ancora e purifica questo freddo nero che mi porto in pettoNon affidarmi a questo buio.Guardami, Mio Accecante, denudami Mio Ipervedente, lavami Tienimi attaccato, attaccato alla tua boccaLasciami respirare la pronuncia del mio nomeSchiacciami in te, incostolami, spingiNon farmi rimanere mezza vivaE rifoderami, Mio Siderale, così affilata dal tuo amoreNessun prossimo apparenteIo sono qui tutta teRiconoscimi dal punto più distanteRiavvolgimi al tuo fianco con un mattino di foreste in corsaE come un mattino, mio Boreale, Sarò bianco, vedrai –
Sarò più affamato della neve.
Traduzione di Tiziana Cera Rosco