“Sterrare le profondità del cuore”. Il Trattato della Vita Nascosta

“Sterrare le profondità del cuore”. Il Trattato della Vita Nascosta

Non può esistere una vita senza addestramento.  Acquisire destrezza: essere desti.  Adescare all’addestramento: l’osservazione individuale è un preludio. Ci vuole un altro, già addestrato, perché sia addestramento – e non: vagabondaggio, bondage con noi stessi.  Addestramento, cioè: attenzione. Attendere. Se non si è desti, destri all’attendere, capaci nella tenda, la luce sfuma in falò, ogni […]
Politica culturale
L'editoriale
di Davide Brullo

“Voglio molto. Voglio tutto”. Il libro d’ore di Rilke

Rilke arriva all’ultimo – quando non ci sono più altre parole.  Non sempre le labbra danno in frutto – esistono labbra invernali, labbra radici. Per chi ha labbra radici, il corpo è un albero: su tali corpi potremmo costruire capanne. Potremmo inchiodarci al loro tronco, di tutto saturo.  Chi ha labbra che esplodono nel petalo e nel frutto, ha un corpo stelo – un corpo che deve essere strappato. Un corpo che puoi mettere nel vaso, a centro tavola: da mostrare. Un corpo che non può subire inverni.  * Un po’ tutti – compresa Andreina Lavagetto, che ha curato il formidabile tomo delle Poesie di Rilke per Einaudi (libro in grado di flettere più di un’esistenza, di porla sulla via della lince e del ghepardo) – ritengono che i grandi libri di Rilke siano le Elegie duinesi, i Sonetti a Orfeo, il getto delle Nuove poesie. È vero – è ovvio. Eppure, è Il libro d’ore, lo “Stundenbuch” che “fondò la fama di Rilke e fece di lui un poeta di culto” (Lavagetto). Diviso in tre ‘quaderni’ – Il libro della vita monastica, Il libro del pellegrinaggio, Il libro della povertà e della morte – che costituiscono una ascesi al contrario, dall’oscuro dove si adempie adombrato Dio (“amo le buie ore del mio essere”), alla caduta – lo scroscio – tra le cose, il libro esce per Insel a fine dicembre del 1905. Ventun anni dopo, Rilke muore.  * Un amico troppo antico e troppo caro per stare ancora al mondo, mi diceva: dicevo alla mia ragazza tedesca di leggermi Rilke. Non conosceva il tedesco – aveva bisogno di ‘udire’ Rilke. Era legato alla traduzione delle Elegie dei De Portu, ma aveva bisogno di ‘sentire’ Rilke. Alcuni corpi penetrano in altri corpi: come la pantera nella sinagoga, intravista da Kafka. Come un lampo che mette le zampe, diventa fiera – si fa fierezza.  * Si sa: la necessità di Rilke di ancorarsi all’arte. Il poeta che i cattivi lettori dicono ‘astratto’, cerca la parola concreta, che si stagli di fronte a noi come un paesaggio, come un’unghiata. Non si tratta semplicemente – come voleva Rimbaud – di dare un colore e una ‘figura’ alle vocali: la parola deve vivere, come nei tempi andati, deve diventare tigre e albero, notte e pioggia – vaso in frantumi, frantume. Negli artisti, Rilke vede gli ultimi maghi: conoscono la verità delle cose e delle creature, conoscono ancora i nomi, rendono imperituro il futile, il fuggiasco.  * Un po’ tutti i poeti del Novecento, esuli del linguaggio, in cerca del verbo-Graal, tentano l’arte. Così, ad esempio, Wyndham Lewis, Ezra Pound – al di là del sodalizio con Henri Gaudier-Brzeska, si veda: Ezra Pound e le arti, Skira, 2002 –, Anna Achmatova. Saint-John Perse amava Georges Braque; René Char era sintonizzato con Van Gogh e Matisse; André Malraux coniugava in sposalizio la Sfinge, il bucranio e Picasso; Eugenio Montale ha scritto su De Pisis. Ungaretti era ossessionato da Michelangelo e dal Bernini.   Poveri poeti: oltraggiati dal loro compito di far resuscitare le cose.  * …e Rilke: la fascinazione per l’antico Egitto (nel 1913, al Museo Egizio di Berlino, davanti al cranio di Amenophis IV: “si ha soltanto il compito silenzioso di accettare il prodigio”); il viaggio in Spagna, nel 1912, per ‘contattare’ El Greco (“il bisogno di dedicarmi seriamente a lui ha quasi l’aria di una vocazione, di un dovere radicato nel profondo”). Ma prima, dieci anni prima, il delirio per Rodin: gli è al fianco, come segretario personale, lo scruta. Nel lungo testo che gli dedica c’è una frase memorabile:  “Ma chi viene da fuori, dal grande regno del vento, porta sconfinatezza nelle stanze”. * Rilke parla di Rodin come di un “rabdomante” perché scopre “una dimensione del tutto originale, piena di vita senza nome”. Scrive anche – a proposito dei disegni di Rodin, raccolti, tempo fa, da Stampa Alternativa, in un libro-oggetto mirabile, Rodin. Nudi di donna – che  “Mentre sui corpi regnano sempre mutamento e battito d’onde, alte e basse maree, sui volti l’aria è immobile”.  Il volto: la vetta dell’uomo. Volto Everest. Il punto di maggior somiglianza con Dio. Nel volto: immobilità d’arcangelo. Che il corpo sia il frutto del volto. * La fortuna editoriale di Rilke, in Italia, non teme soste. Eppure, l’unica edizione del Libro d’ore è del 2012, per le edizioni Servitium, dei Servi di Maria. Per qualche giorno, ho letto il Libro d’ore di Rilke in tedesco, per il gusto; mi sembrava affascinante, con arcane sgrammaticature, perfino la versione del traduttore telematico.  Qui il cielo ha una nitidezza da forgia – questo è un cielo forgiato da un falegname. Sembra di vivere sotto un tavolo: un cielo a cui puoi appendere l’altalena. Ci vuole Rilke per imporre gli uccelli carnivori, gli angeli a nove ali.  Ricordo quando il cielo era una stola: potevi denudargli le spalle. Ma eravamo bambini e scavalcavamo il cancello per entrare, di soppiatto, in casa.  * Tommaso Filippucci ha tradotto alcune poesie dal primo quaderno del Libro d’ore, Il libro della vita monastica. Rilke scrive quelle poesie tra il settembre e l’ottobre del 1899, “nei boschi berlinesi di Schmargendorf” (Lavagetto), reduce dal primo viaggio in Russia, con Lou Salomé (a cui lo Stundenbuch è dedicato). Il poeta ha 23 anni, “la svolta decisiva è stata la Russia, mi aprì… un mondo senza possibilità di paragone” – scrive, molto tempo dopo, nel 1926: ma ogni incontro di Rilke è un bere a sazietà, è decisivo. In Russia, il poeta conosce Tolstoj, si fa amico di Leonid, il padre di Boris Pasternak, artista. Soprattutto, incontra il mondo dell’arte russa: “è la ricerca solitaria nell’arte russa delle icone, delle cattedrali e dei monasteri ciò che a Rilke si rivela come chiave” (Lavagetto).  Poesia come pittura di icone: ribaltamento di prospettiva, avvento.  (Da meditare: l’anonimato, l’anemia della ‘firma’. Perché la parola cavalchi e sia destriero il poeta deve morire, deve sparire).  * Nel 1907: l’ennesimo incontro decisivo di Rilke. Cézanne.  Trovo tra libri non miei le lettere di Rilke “su Cézanne e sull’arte come destino”, Verso l’estremo. Il libro, edito da Pendragon nel 1999, è curato da Franco Rella. Cézanne – lo diceva più volte, l’amatissimo, abissale Rella – è una zattera, è la svolta che porta Rilke alle Elegie e ai Sonetti. (Rilke procede per ‘svolte’, per incontri ‘decisivi’, per terremoti che magari agiscono, dopo lento frastuono, come capita con le Elegie, anni dopo).  Così scrive Rella: “L’artista, ha detto Rilke, deve giungere al limite estremo: all’ultimo confine. E cosa si trova quando si giunge su questa soglia se non la perdita, il nulla, in una parola: la morte? […] Quando Cézanne diceva di fronte alla montagna della Sainte-Victoire che bisognava far presto prima che questa svanisse, non era preso come Rilke dall’ansia della caducità e della precarietà delle cose e dalla volontà di salvarle? […] Le cose contengono la morte. Noi conteniamo la morte. Dire la morte dentro la vita è dire il loro segreto a loro indicibile… Cézanne dipingeva: ecco la cosa, e la cosa sapeva di essere amata da lui”.   Uscito dal chiostro, Rilke cerca la parola che fa risorgere, la “nuova lingua” che riporti le cose alla loro identità, imperitura, imperiale. Conquistare – non concupire – le cose, cioè: prendersene cura.  L’opera non è più un tempio, non è più tempo per il tempio, perché tutti i sepolcri sono ormai dissigillati: l’opera è un corpo. E su quel corpo le stimmate sono ancora fresche, turgide: le puoi mungere, le puoi rendere degne dell’agnello.  Anche un corpo risorto sanguina – della poesia bisogna abbeverarsi.  * Nel Libro d’ore siamo al di qua: siamo tra le grate dell’orante, tra le grate della gratitudine. “Preghiere, se si vuole – così le considerai, anzi, neppure questo: le recitavo e mi regolavo su di loro per le incognite del sonno o del giorno che iniziava”. Così Rilke dice dei versi dello Stundenbuch. Preghiere. Poi si corregge – è una lettera tarda, questa, del maggio del 1911, a Marlise Gerding –:  “D’altra parte, visto sotto il profilo del lavoro, quel libro ha il piacere che ogni arte prova per se stessa, ed è quindi diverso dalla preghiera, ha una vanità che manca alla preghiera. Ma che cos’è la preghiera, lo sappiamo?”.  * Oh, a volte basta questo: arretrare, sterrare. Dire la parola che trascolora la minaccia nella minuta della vita erba, della vita breve, della vita bue. Non affrancare i corpi dalla morte, ma esigerne il crollo. Che questo ordinario abbia un sovrappiù in audacia: la corona, pari allo sgabello.  * L’idea stessa del “libro d’ore” ci intaglia a vita nuova. Aggiogare il giorno, creatura dai molti musi, nel pregare – nella parola-fune. Come si vigila con le candele un fiume – o la fiumana degli invitati a nozze. Non si tratta neppure di murare con le parole il tempo, perché noi siamo quelli sul tetto, con le fionde – le stelle siano i nostri ciottoli.  ** Rainer Maria Rilke  Il libro d’Ore Primo libro – Il libro della vita monastica Amo le ore buie del mio essere,quelle in cui i miei sensi si acuiscono;in esse, come in vecchie lettere,ho trovato la mia vita quotidiana già vissutae, come una leggenda, lontana e superata. Da esse nasce la consapevolezza di avere spazioper una seconda vita ampia e senza tempo. E a volte sono come l'alberoche, maturo e frusciante, sopra una tombarealizza il sogno del fanciullo perduto(attorno al quale si affollano le sue calde radici)perduto in tristezze e canti. * Se solo per una volta ci fosse questo silenzio.se il casuale e il vagosi spegnessero come le risa dei vicini,se il frastuono che i miei sensi generanonon mi impedisse di essere vigile – allora potrei, in mille pensieri,raggiungere il confine della tua animae possederti (solo per un sorriso),per donarti a tutta la vita,come segno di gratitudine. * Tu, oscurità da cui provengo,ti amo più della fiammache delimita il mondo,mentre splendeper qualsivoglia cerchio,al di là del quale nessun essere ti conosce.Ma l’oscurità abbraccia tutto:forme e fiamme, animali e me,come rapiti,uomini e potenze – e forse: una grande forzasi muove accanto a me.Io credo alle notti. * Credo a tutto ciò che mai prima è stato detto.Voglio liberare i miei più pii sentimenti.Ciò che nessuno ha mai osato desiderarediverrà un giorno per me spontaneo.Se è presunzione, mio Dio, perdonami.Ma solo questo voglio dire:la mia miglior forza dovrà essere un impulso,senza ira e senza paura;così ti hanno amato i bambini.Con questo fluire, con questo sbocciarein ampie braccia verso il mare aperto,con questo crescente ritorno,voglio riconoscerti, voglio annunciarticome mai nessuno.E se è superbia, lasciami essere superbonel mio pregare,così serio e solitariodinnanzi alla tua fronte velata di nubi. * Sono solo al mondo ma non abbastanzaper consacrare ogni ora.Sono insignificante al mondo ma non abbastanzada stare dinanzi a te come una cosaoscura e scaltra.Voglio il mio volere e voglio accompagnarlosui sentieri delle gesta;e voglio, nei quieti ed esitanti tempi, quando qualcosa si avvicina,essere tra coloro che sannoe restare soli. Voglio riflettere sempre tutta la tua forma,e mai voglio esser cieco né vecchioper sostenere la tua pesante e instabile immagine,voglio dispiegarmi.In alcun luogo voglio restare piegato,poiché dove sono piegato, io sono bugiardo.E voglio che il mio senso sia vero dinnanzi a te. Voglio descrivermicome un’immagine che ho visto,a lungo e da vicino,come una parola compresa,come il vaso del giorno,come il volto di mia madre,come una naveche mi ha portatoattraverso la tempesta più mortale. * Vedi, io voglio molto.Forse voglio tutto:l’oscurità d’ogni infinita cadutae il tremulo gioco di luce d’ogni ascesa. In tanti vivono e nulla vogliono,e sono, per il lieve giudizio che si danno,governati da levigati sentimenti, ma tu gioisci d’ogni voltoservitore ed assetato. Tu gioisci di tutti coloro che ti usanocome uno strumento. Non sei ancora freddo, e non è troppo tardi per immergersi nelle tue divenenti profondità,dove la quieta vita si svela. * Rumoreggia la luce sulla cima del tuo alberoe rende a te le cose variopinte e vane, esse ti trovano soltanto quando il giorno si estingue.Il crepuscolo, la tenerezza dello spazio,posa mille mani su mille teste,e sotto di esse si fa devoto l’estraneo. Tu non vuoi controllare il mondo in altro modose non così, con queste delicatissime gesta.Dai suoi cieli afferri a te la terrae la senti sotto le pieghe del tuo mantello. Hai un modo così silenzioso di essere.E coloro che roboanti piangono il tuo nome,sono già dimentichi della tua vicinanza. Dalle tue mani, che si ergono come montagne,sale, per dare legge ai nostri sensi,con fronte scura la tua muta forza. * Tu, volenteroso, e la tua gloria è giuntasempre in antiche gesta.Qualcuno intreccia le manicosì che siano mansuetee attorno a una piccola oscurità – all’improvviso ti sente in esse crescere,e come al vento,si china il visoin vergogna. E allora cerca di giacere sulla rocciae di alzarsi, come vede fare gli altri,e il suo sforzo è cullarti,per paura di aver già svelato la tua veglia. Perché chi ti percepisce non può di te vantarsi;è spaventato, trema attorno a te e fuggeda tutti gli estranei che dovrebbero accorgersi di te: tu sei il miracolo nel desertoche accade a chi è fuggito. Rainer Maria Rilke *Traduzione dal tedesco di Tommaso Filippucci