È indubbiamente bella Shōgun, “la serie tivù più premiata nella storia degli Emmy”, nonostante il romanzo di partenza, di James Clavell, non sia proprio un capolavoro. Chi ama quelle atmosfere, troverà miglior nutrimento estetico in Silenzio, il libro di Shūsaku Endō da cui Martin Scorsese ha tratto, qualche anno fa, il film omonimo (non un capolavoro). Altrimenti, resta Ran, caposaldo della filmografia di Akira Kurosawa: uscito nel 1985, ambientato in uno shakespeariano Giappone di feudi e di fool.
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La cosa più interessante della serie – al di là della fattura filmica, di cui diranno i cosiddetti esperti – è nella contrapposizione degli stili di vita, del gorgo morale in cui sono invischiati i giapponesi dell’era Tokugawa e gli occidentali, d’ogni setta (cattolica o anglicana).
Per un suddito di laggiù, l’obbedienza pare essere tutto: al collo della nobile Mariko il Crocefisso è un amuleto come un altro, perché nella sua gerarchia prima del Signore c’è il suo signore, Yoshii Toranaga, e l’ombra del padre, di cui deve riscattare l’insudiciata memoria. Il cristianesimo, per così dire, pone Mariko sotto un’aura più affascinante – più conturbante; ciò non toglie che la nobildonna possa essere buddista, taoista, shintoista. Il credo religioso sembra non attecchire oltre la coltre superficiale; non intacca la fede nel proprio signore e nel proprio clan. Al contrario, il cristiano non accetta di inchinarsi al cospetto di alcun principe o re – di qui, le soppressioni in serie dei cristiani, setta altrimenti infima, da parte degli imperatori romani (il punto nodale nel processo contro Gesù è che lui si dica – dicendo che lo dicono gli altri – re). Al contrario, Cristo dichiara la fine di ogni gerarchia familiare, ci svezza dal clan, recide l’ombelico dagli ancestrali rapporti di sangue – di consecutiva colpa e consecutiva gloria – che legano (fino al soffocamento) i padri e i figli e gli avi.
“Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto”, scrive Paolo agli Efesini (6, 1), tentando di dare ordine alla comunità, ma il suo ragguaglio etico è infinitamente tenue rispetto alle parole di Gesù: “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me” (Mt 10, 37).
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A tutto si obbedisce – tranne che a se stessi. Altrimenti, ci si sfascia in ronzio di mosche, nel signore delle elitre.
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In Shōgun la vita è una preparazione alla morte: un po’ tutti sono pronti – si direbbe: protesi – a morire se la vita li conduce all’oltraggio, alla vergogna. Civiltà della vergogna, si diceva un tempo. I gesuiti che pullulano le lande giapponese affermano la stessa cosa con la formula perinde ac cadaver, vivi come fossi morto. Con questo incantatorio motto, “esprimono, iperbolicamente, la sottomissione assoluta alla regola e alla volontà dei superiori, con rinuncia alla propria personalità”. I gesuiti: samurai cattolici.
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La figura della nobile Mariko, inflessibile nel suo ardere, ghianda di fuoco sepolta sotto la neve, ha per contrappeso, nella tradizione cristiana, quella di Perpetua. La Passio Perpetuae et Felicitatis narra il martirio di un gruppo di cristiani, nello stadio di Cartagine, il 7 marzo del 203. Ventenne, di buoni natali, madre di un bimbo che ancora allatta, Perpetua è condotta in carcere insieme a Felicita, la figlia dei suoi servi, incinta, e ad altri cristiani. Nelle prigioni, le donne scemano tra botte e terrori: Perpetua è abitata da visioni, gli è data virginea forza. Indomita, la ragazza resiste, gettata nello stadio, all’assalto delle fiere:
“con volto luminoso e incedere calmo, da vera sposa di Cristo, la prediletta di Dio, e aveva una forza tale nello sguardo che nessuno fu in grado di sostenerlo”.
Quando, esasperati, i cristiani vengono mandati a morte, in mezzo allo stadio, per mano dei gladiatori, la ragazza compie un ultimo gesto, di celestiale violenza, di coerenza acclimatata agli angeli, specie di seppuku convalidato dalla luce:
“quando la spada le arrivò all’osso, lanciò un urlo e guidò lei stessa contro la propria gola l’incerta mano del gladiatore inesperta”.
Morale del cronachista:
“è da credere che una donna siffatta non avrebbe potuto essere uccisa se essa stessa non l’avesse voluto – tanto grande era il timore che incuteva allo spirito immondo”.
Il testo, costruito intorno al diario di Perpetua – tra i primi scritti cristiani di mano femminile –, d’alto pregio – c’è di mezzo il genio di Tertulliano, straordinario apologeta e scrittore –, ebbe successo inatteso (ora è raccolto in: Atti e passioni dei martiri, Fondazione Lorenzo Valla, 1987): Agostino si sincerò che i fedeli non lo ritenessero testo sacro. Le spoglie di santa Perpetua sono ora custodite a Vierzon, in Francia.
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In un estremo tentativo di salvarla, il padre di Perpetua scende alle carceri e “distrutto dal dolore, tentò di piegarmi”: chiede alla figlia, per “non volere la rovina di noi tutti”, di abiurare. Sembra la scena che precede il suicidio rituale – poi smobilitato – di Mariko. Naturalmente, tale richiesta non fa che esagerare la fermezza di Perpetua: “Sappi che noi non dipendiamo dalla nostra volontà, ma da quella di Dio”, risponde, tranciando così ogni rapporto con il padre, in virtù dell’abbandono nel Padre.
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Il cristiano – creatura del “Sì, sì; no, no; poiché il più viene dal maligno” (Mt 5, 37), sempre pronto all’opera, a un’operosità diretta, senza fronzoli – non ha maschere, e se l’io non è che un elmo lo ha deposto in Cristo, perché a tutto è disposto. Al contrario, in Shōgun anche il tradimento può diventare una forma di più sottile, di più profonda fedeltà.
Qualcosa di simile – tale ubriacante equilibrio tra il vero e il falso, tra l’ombra e la sua convalida – troviamo nella tradizione mistica ebraica. La conversione all’Islam da parte del Messia ebraico Sabbatai Zevi – accaduta a Costantinopoli, nel 1666, al cospetto del sultano Mehmed IV – fu letta, da alcune frange, come il più significativo dei misteri: ingresso nel sancta sanctorum di Dio. I seguaci di Zevi si fecero dunmeh, convertendosi pubblicamente all’Islam pur continuando, nascostamente, a compiere i riti ebraici. Tra esteriore e interiore è rotta ogni intesa: il fedele è scisso, il tempio è nascosto nei dedali del cuore.
“L’apostasia del Messia apparve a molti di loro una spiegazione religiosa di quel comportamento che per lo più aveva tormentato la coscienza di molti marrani… Il Messia per adempiere la sua missione secondo il concetto ebraico deve essere costretto ad agire in modo che le sue stesse azioni sembrino condannarlo… Nella libertà messianica egli realizza una legge nuova che, considerata dal punto di vista del vecchio ordine delle cose, appare sovversiva e abbatte gli antichi ordinamenti”.
(così Gershom Scholem in Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi, 1993, pagg. 299 ss.)
L’antinomismo, a questo punto, è all’assalto. Il bene penetra il male, l’autentico il falso, il giusto esige il perverso ed è difficile, senza adatte torce, non smarrirsi in questo cerimoniale di menzogne.
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Il punto, semmai, è capire perché e per chi si muore: a volte, anche il suicidio, il seppuku, è parte di un inganno ordito lungo l’arco dell’esistere – ci si faccia, dunque, freccia.
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In Shōgun: uomini addestrati tutta una vita al mentire, in virtù di quell’atto, rivelativo, unico, ultimo. Concentrare ogni gesto verso la cruna, la cima: questo vuol dire svettare. Ancora: invischiarsi nel mondo. Diversamente: all’agire sovrapporre il contemplare.
Certo, tutto ciò che agiamo lo supportano gli avi, ce lo rinfacceranno i morti. Ma quando i legami con tale aldilà – i Campi Elisi o la comune degli spettri – sono recisi, cosa resta? Fracassarsi in Cristo.
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Nella serie, Mariko parla del “recinto a otto pareti”, cioè della disciplina di “scomparire dentro noi stessi”. Inchini e cerimoniali, dunque, non sono che formule per fortificare queste pareti, per costruire un chiostro di paratie e di paraventi. Altrove, Kashigi Yabushige parla – riferendosi alle reali intenzioni del suo capo, per raggiungere le quali non esita a sacrificare ciò che ha di più caro: amici, fedeli servitori, figli – del “cuore segreto” di Toranaga. In questo mondo di fraintesi, è ovvio che la poesia sia il ‘genere’ dominante. La poesia vela svelando, dice per non dire, accenna – come l’oracolo delfico – e incendia, incede per immagini fugaci, facilmente fallaci, è il bocciolo del linguaggio e l’idolo da incenerire; è il fiore di ciliegio e la condanna a morte, il feto e il fato. Il seguace di Cristo, invece, ha rotto le pareti: ha rinnegato se stesso proprio come Cristo ha rinnegato misteriosamente la propria origine divina, svuotandosi di sé, fino a dubitare di sé. “Prudenti come serpenti, semplici come colombe” (Mt 10, 16) riguarda il tono da avere nei confronti del mondo, dominio del demone. La poesia, ora, non serve – basti la preghiera, e ricalcare le tracce verbali che Lui ci ha dato – avere voce, cioè: intonare, consuonare.
Cos’è dunque questo “noi stessi” trincerato da pareti? Refolo di nebbie, rapina già avvenuta, lince già sparita oltre il crinale. Nulla. Né odore di preda né resa. Infine, ingannare fino ad aderire all’inganno, ingemmare nell’inganno – insignirsi di questo niente. Cuore segreto, cioè: segregarsi al volo, prima che nel voto. Non avere cuore, ma favore di falconiere.
Poi, certo, ci si abbraccia, ci si bacia, ci si stringe, come non avessimo altre funi.