Cabbala del disincanto, dell'incastro a cose senza cautela; le date – altrimenti, meri ornamenti cronologici – paiono l’azzardo del demone che si gioca l’eternità a dadi. Giuseppe Piccoli esordisce al ‘grande pubblico’ nel 1981, nel fascicolo Poesia Tre edito da Guanda. In primo piano, figurano testi di Dario Bellezza e di Giorgio Caproni, di Andrea Zanzotto e di Maurizio Cucchi (che tanta parte avrà nella scoperta di Piccoli). Piccoli pubblica un mannello di versi, Di certe presenze di tensione, di aurorale bellezza, antartico alla fauna della poesia italiana del momento. Era nato poeta dieci anni prima, nel 1971, con un libro, Il padre pazzo, edito da Rebellato, sotto la cappa dello pseudonimo, Francesco Maria Ebreo. Titolo di preveggente mania. Nel settembre del 1981 quel poeta di inconsueto talento, “in un attacco di schizofrenia”, colpisce con un coltello da cucina i genitori: il padre morì pochi giorni dopo. Internato nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, Piccoli transita per diversi reclusori; nell’ultimo, quello di Aversa, nel febbraio del 1987, si toglie la vita. Avrebbe compiuto trentotto anni due mesi dopo, nel più crudele dei mesi; era nato a Verona.
Di Giuseppe Piccoli – un autentico paria della patria poetica – si sussurra di tanto in tanto, come si svela una sindone. Su questo foglio elettronico, nel 2018, ne ha scritto Silvano Tognacci; di recente, me ne ha instillato la lince, ben ingemmata nel cervello, Antonio Bux. Si diceva, tra l’altro, di una genia della poesia italiana – che da Dino Campana e Lorenzo Calogero e Lucio Piccoli arriva, tra singolarità d’Everest, a Ivano Fermini, Dario Villa, Gian Giacomo Menon e, appunto, a Piccoli – che abita l’altro linguaggio, una lingua, chissà, preadamitica, da mangiatori d’angeli, da precursori del fuoco, intorno a cui bisognerebbe ri-ragionare di un ‘canone’ (cannonizzando l’attuale). Sono questi – i laterali, i ronin, i dispersi e i disperati, i disparati – a costituire la vena indocile, dal caglio più puro, della letteratura nostra: dovremmo ricostruirne l’albero genealogico (dico a sprazzi: i ‘notturni’ di Tasso, Galeazzo di Tarsia, il Buonarroti poeta ‘caravaggesco’, Leopardi al bulino del conciatore di stelle, Boine…).
Quasi che: intorno al sacerdozio lirico ‘ufficiale’, attorno alla conclamata ecclesia di poeti cardinalizi, dovesse sorgere, per eccesso di povertà e d’innocenza, il ‘folle’, il fool, il “pazzo” (nel dirsi dell’Assisiate), a mo’ di capro espiatorio. Per poi riscoprirlo, notoriamente, postumo, e farsene docili – ma egli viene perché voi ne respiriate l’asperità, a quella aspiriate. Grati all’ingrato – direbbe, Andrea Ponso.
Giuseppe Piccoli (1949-1987)
Mi placo. È stato Maurizio Cucchi a insediare Giuseppe Piccoli tra i grandi Poeti italiani del secondo Novecento. Nell’antologia omonima (Mondadori, 1996; 2004) Cucchi parla di “un inconsueto dire enigmatico, tra profetico e quotidiano, che non è collegabile con altre esperienze di autori del suo tempo”, parla di “originalità e forza di una fisionomia poetica tra le più notevoli della sua generazione”; accenna a qualche nobile lettura – Rebora e Campana, soprattutto – pur restando, Piccoli, “per strade del tutto autonome”. Piccoli viene inserito in una sezione fittizia, “Tendenze di fine secolo”, che lo accomuna, per puro dato anagrafico, immagino, a Viviane Lamarque e a Roberto Mussapi, a Franco Buffoni e a Gianni D’Elia, tra gli altri. Una silloge di Piccoli, Foglie, fu accolta nell’Almanacco dello Specchio edito da Mondadori nel 1983: insieme a lui, testi di Kavafis e di Marguerite Yourcenar, di Ferruccio Benzoni e di Ted Hughes, di Roberto Mussapi e di Mario Luzi.
Il primo libro incompiutamente compiuto di Piccoli uscì postumo, per Bertani, nel 1987, Chiusa poesia della chiusa porta. A curarlo, Arnaldo Ederle, fraterno di Piccoli. Proprio Ederle dedica a Piccoli due servizi su “Poesia”, la rivista di Nicola Crocetti: prima nel febbraio del 1997 (Giuseppe Piccoli. Del corpo e dell’anima, n. 103), poi nel febbraio del 2007 (Giuseppe Piccoli. Tre presenze, n. 213), in cui ricostruisce la vita lirica, l’ispirazione inafferrabile del poeta, assemblando “altre tessere del mosaico drammatico di Giuseppe Piccoli che ribadiscono lo spessore della sua presenza nel quadro non solo poetico, ma anche sociale e umano dei nostri giorni, evidenziando, nelle zone più dolenti dello spirito, le profonde inesauribili risorse della sensibilità artistica che riscattano, nel segno della poesia, il significato di un’intera esistenza”. Nel 2012, per Lietocolle, Maria Piccoli ha curato Fratello poeta: il libro risulta “non disponibile”, da allora non c’è traccia di pubblicazioni. Efficace il sunto che ne fa Nicola Crocetti:
“L’emarginazione dovuta alla sua vicenda personale si ripercuote sulla sua poesia, e rende difficile il suo riconoscimento artistico. Perché Giuseppe Piccoli è un ottimo poeta, uno dei migliori della sua generazione. E nonostante l’interessamento di rari amici (Arnaldo Ederle, Maurizio Cucchi), la sua ricca produzione di versi (dieci volumi; il primo, Il padre pazzo, del ’71) è ancora pochissimo nota”.
(Prima disperazione. Piccoli, gli ardori del «ladro di fuoco», in “il Giornale”, 6 luglio 2014).
Il nocciolo di versi qui trascritti testimonia un irredimibile candore, il purissimo ‘nuovo mondo’ nella mente del poeta: non è il tragico a confonderci, ma il confinamento in una perenne primavera. Un alleluia da oltremondani, da oltraggiati, che nelle minime cose del creato assiste a una rivelazione con gli uncini, alla casa infuocata che chiami, per analogia, sole. Così al dolore è consegnato un supremo detto dono. Sono poesie cristalline, queste, che si sbriciolano appena pronunciate – una pronuncia con le rondini negli occhi, e i roseti –, conseguenti al mistero, da tenere a lungo sul palato, nel loro avvelenato zucchero. S’intravede una cristianità senza paramenti, qui, senza più tempio, sguainata, di avvenuto regno – un oro non disgiunto dal sangue.
In una memoria, Cucchi parla del “giovane timido e gentile” e di “diversi faldoni colorati, una grande quantità di suoi versi. La quantità mi aveva un po’ sorpreso e un po’, inizialmente, anche scoraggiato…”. L’appunto, straniante, non è estraneo alla pratica di questi poeti da primo uomo e da fine dell’umanità, poeti senza tempo, di pleistocenico genio: la scrittura ‘continua’, la pratica assidua che sconfina nell’incanto dell’ossesso. Tutto va cantato, continuamente – nulla a che fare con le ‘occasioni’, ma con l’amore che la sentinella porta all’aurora e alla notte bicorne, con la veglia perpetua. Quando s’interrompe il canto, finisce il mondo.
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Baci. Ma nell’aria c’è unamalattia dell’Essere: la chiaminoia per ripetermi e quindievadere ogni possibilità di offesa.La chiamo «mondo» e, rinnovandomi,c’è questa splendida facoltà di intesa.
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Sinché resista questa scorzad’uomo, sin che la polpanon s’asciughi, aprila finestra sul mondo:perché di te sia inconsumabileil vero vento e la reale rosabianca, dell’uno e dell’altrobimbo, di quelli che reggonoil velo di Ecce Homo.
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Perché la grazia sia verde,e sia verde il contagio, avvicinati:io spalmo di olio le tue mani.E per andare lontano, più lungi,sarò amante del dolore cristiano.
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Chi sono? Una sillaba acquisitanel cerchio provvidenziale,la sicurtà che non è più stranieranel prezzo quotidiano del dubbioche io mi trovi in condizione immortale.Ma il “tu” che non scappa dalla solitudine,il testo reale e non imbrogliato,la caduta sul suolo amatosono l’ortica, che mi pungecome fa una mamma.
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Separàti da un muro, l’idiotae l’angelo scrivono lo stesso poema,per venticinque anni, con graziadi arguzie e senno squisitamentedemoniaco. E la stessa farfallaentra ed esce, per ricapitolarela storia dei suoi voli: ma quellefolte rase sopracciglia dell’idiota…e quel verso di ufoche gli angeli atterrisce…
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Se ti chinisul mondo che si dividedel mezzogiornoo della mezzanottein un giorno d’estatevedrai e udraile foglie cantarenate da tedallo spirito dell’alberocon mille ciliegieo le albicocchee vedrai sentirai capiraipalpitare le ciocche di capellidella tua bellache non sa parlare.E capirai sentiraigli anelli dell’ariadi sé in stelle mutare.
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Tu ed io abbiamo avuto semprepoca dimora, ma tanto cielo.Eppure forse tra i due quelloche più astiosamente cercòl’esilio dalla terra, resto io:ché dove suona il sole è semprepronta una macchia di sangue.
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Pensò che le brune stelleportavano alla scuola alla casaal primo amore al libro.Lo si vide sospirare per questo.Lo si vide piangere per questo.Per questo né amante né maritoma rincasando una sera s’angosciò.E non era stato solo il libro. Il verme che tutti ci divoraè questa ansiosa ansia di lenzuolache vestono il suo corpo in un sudario.
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Ma per chi non ha stradac’è la caverna dove un muto infantesi rifugia chiamando il padrone:non scesi con la lampada nell’antroné vidi i morti fare all’amore,né pensai a mia madre china al cucitoné sorpresi il maestro che disegnava alfabeti.Ma l’angelo che il fanciullo custodisceera il mio seno nella casa segreta:io ero la chiave e l’oltremondomani e piedi e bocca offerti al sacerdote.
Giuseppe Piccoli
*In copertina: Eugène Delacroix, Schizzi di tigri e uomini, 1828 ca.