Qualche giorno fa ho rivisto Sacrificio, l’ultimo film di Andrej Tarkovskij. Il titolo originale, Offret, rimanda all’italiano offerta: un dono in sé risolto, senza affari col sacro. Meglio ancora: offerta rimanda a offertorio, il momento della messa in cui il sacerdote mostra e offre il pane e il vino. Spoliazione che prepara al sacrificio – parole che fanno da cucitura ai gesti, rendono nuziali le misere cose.
Offerta: ouverture del sacrificio.
Offerta: desiderio di lasciarsi puntellare dalla fame.
Sacrificio esce nel 1986, ottiene il Gran Prix della giuria a Cannes; la Palma d’oro va a Mission, il film di Roland Joffé con Jeremy Irons e Robert De Niro. Tarkovskij morirà quello stesso anno, il 29 dicembre, come Rilke. In sostanza, il film si concentra su un uomo, Alexander, che, nel momento Everest, intona il Padre nostro, chiede che tutto gli sia tolto affinché la sua famiglia sia salva. Il sacrificio contratto con Dio è terribile fin nelle finiture filologiche: la casa che brucia, l’uomo internato come un folle. A questo porta, si dirà, il terribile patto con i celesti: qualcosa deve annientarsi perché un altro viva.
Il voto va sempre sussurrato: stravolge una vita.
Alexander si sacrifica – dona la sua vita, il suo passato, la reputazione – per la salvezza del figlio piccolo, che incarna l’innocenza, il bimbo agnello, il bimbo Adamo, ma anche per la salvezza della moglie, attrice in perenne deliquio, che ammette di non averlo mai amato. Donare la vita anche – se non soprattutto – per chi non ci ama.
Nel film, il fuoco ha qualcosa della neve.
Non so se il padre di Andrej, Arsenij Tarkovskij, sarebbe riuscito a girare un film simile. Arsenij muore tre anni dopo il figlio, il suo corpo terreno giace a Peredelkino, non lontano dalla tomba di Boris Pasternak, di cui può dirsi estremo erede. Nel 1947, con l’implacabile eleganza che si addice agli uomini di cristallo, avevano litigato: Tarkovskij aveva osato dire a Pasternak che del Dottor Živago, all’epoca alla primissima versione, apprezzava le poesie, rispetto alla prosa. Pasternak, sonnambulico nella sua mania, diceva di credere che la poesia era effimera, era finita. Quarant’anni dopo, Tarkovskij verrà insignito con l’Ordine della Bandiera rossa del lavoro, alta onorificenza del Soviet. Il suo libro, Dalla giovinezza alla vecchiaia, vendeva 50mila copie; Il dottor Živago uscì in Russia soltanto l’anno dopo.
Andrej era nato nel 1932 dalla prima delle tre mogli di Arsenij, Marija Ivanovna Višnjakova. Come si sa, l’opera cinematografica del figlio è anche una lunga rincorsa verso il padre: lo testimonia, tra l’altro, l’uso che Andrej fa, nei film, delle poesie di Arsenij. In uno scritto autobiografico del 1982 – poesie e prose di Arsenij Tarkovskij hanno trovato, in Italia, un autentico innamorato in Gario Zappi: sono edite da Scheiwiller e da Giometti & Antonello –, Asterischi, Arsenij Tarkovskij dice di credere “nell’immortalità dell’anima”; ricorda i suoi incontri con Marina Cvetaeva e Anna Achmatova; scrive di amare l’Iliade e l’Odissea, “sono per me libri sacri”. L’esordio del suo scritto è memorabile:
“Sono stato educato a venerare le leggi della convivenza umana, a rispettare la personalità e la dignità della persona. Ritengo che la cosa più importante a questo mondo sia l’idea del bene. l’idea del bene in tutte le sue concretizzazioni”.
È bello che un poeta, di solito avvezzo a speculare sul male con salottiera ferocia, cominci la sua autobiografia parlando del bene – anche se, a conti fatti, “l’idea del bene” può fare paura, può essere fautrice di male. Ad ogni modo, nello scritto di Arsenij non c’è cenno ad Andrej.
Non è possibile, nello spazio di un articolo, riferire di come l’estro di un padre si riverberi nel figlio. I figli, per natura, devono uccidere i padri: eppure, esiste forse una qualche sequela nel sangue.
Prima si accennava a Pasternak. Il padre di Boris, Leonid, è stato un pittore di riconosciuto talento; è grazie a lui che il figlio conosce Lev Tolstoj: il padre era l’illustratore dei suoi romanzi (“Era da questa stessa cucina che si spedivano a Pietroburgo le splendide illustrazioni di mio padre per Resurrezione di Tolstoj… Il lavoro era febbrile… Tolstoj tratteneva a lungo le bozze e rimaneggiava tutto”, scrive Boris in Uomini e posizioni). Grazie a lui, Boris entra in contatto con Rainer Maria Rilke, a cui Leonid aveva fatto un ritratto, di cui era amico. Tra l’altro, Leonid Pasternak ha realizzato un ritratto di Albert Einstein.
Anche il padre di Robert De Niro, lo si citava prima, era un pittore: benché abbia vissuto lontano dal figlio, gli ha assegnato il suo stesso nome – un calco che rivela un compito. Come artista, Robert De Niro Sr. ha avuto incerta fortuna: il figlio, da grande, coronato tra i grandi attori di ogni tempo, si è occupato di catalogare e mettere in mostra l’opera del padre.
Il piccolo Daniel Day-Lewis gioca a dama con il padre, Cecil, poeta laureato del Regno Unito
Questi scarni esempi ci dicono che il talento del padre si trasferisce nel figlio in diagonale: il figlio del poeta diventa regista, il figlio del pittore diventa poeta o attore. Il caso di Daniel Day-Lewis è diverso. Il padre di uno degli attori più riconosciuti di sempre è stato poeta di genio, addirittura Poet Laureate del Regno Unito. In una fotografia del 1968, conservata alla National Portrait Gallery, si vede il piccolo Daniel, ha dieci anni, al tavolo con la madre, l’attrice di vaglia Jill Balcon, e il padre, mentre leggono alcuni biglietti. La casa è affollata di libri. Il papà è severo, travolto dalle rughe: compiva 53 anni alla nascita del figlio, sarebbe morto pochi anni dopo, nel 1972. In un documentario in onda su Sky, I mille volti di Daniel Day-Lewis, l’attore parla del padre, Cecil, come di un uomo oscuro, a tratti inaccessibile, recluso nel suo studio, nel suo marchingegno lirico. Il documentario – altrimenti didascalico – è interessante perché testimonia come tutto il lavoro di Daniel Day-Lewis sia stato, in fondo, un lungo inseguimento del padre. Una veglia che è diventata assalto. Questa grande caccia dell’ombra paterna ha due momenti cardinali: il primo è nel 1989. Daniel Day-Lewis interpreta Amleto in una produzione del National Theatre. Potrebbe essere la sua consacrazione; si consuma il crollo. Dopo una serie di repliche – di obliquo successo – Daniel Day-Lewis, letteralmente, fugge dal palco: mentre recita, dirà, anni dopo, gli pare di udire la voce del padre che lo ammonisce, dall’oltretomba. Aveva già dato prova di sé al cinema – con My Beautiful Laundrette, Camera con vista, L’insostenibile leggerezza dell’essere – non salirà mai più su un palco.
Seconda tappa. È il 2017, Daniel Day-Lewis interpreta per Paul Thomas Anderson un geniale stilista britannico, Reynolds Woodcock, chiuso nel proprio mondo, ossessionato dalla perfezione, brutale nei rapporti con il prossimo. Daniel Day-Lewis dice che grazie a quella parte “mi sono riconciliato con la figura di mio padre, l’ho finalmente capito”. Quel film, Il filo nascosto, è l’ultimo della sua carriera. A sessant’anni, Daniel Day-Lewis si ritira dalla scena – ha sedato lo spettro del padre.
In una poesia che s’intitola Walking Away, Cecil Day-Lewis ragiona sul significato di essere genitori; si parla di un figlio che gioca a pallone, “come un satellite/ strappato dalla sua orbita”; di un padre che osserva il figlio andare a scuola, “creatura libera a metà/ dalla sua natura selvaggia, con l’andatura di chi/ non trova il sentiero dove dovrebbe essere”. Le ultime due stanze recitano così:
“Quella figura esitante che vorticosa vacome un alato seme separato dallo stelo paternoha qualcosa che non sono mai riuscito a capiresull’offertorio della natura – le piccole, incandescentiordalie che infiammano la propria irresoluta argilla.
Ho subito separazioni peggiori, ma nessunami divora così tanto. Forse non è altrociò che Dio ci mostra con eterea perfezione:l’individuo esige l’allontanamentol’amore si dimostra nel lasciar andare”.
Che l’amore del padre sia preso dal figlio per abbandono, è parte del gioco, per sua natura tragico. Bisogna passare attraverso il figlio per giungere al padre, è scritto – in questo destino contrapposto non è più il figlio a ricalcare, nell'ambone del viso, il viso del padre, ma il padre che apprende a camminare grazie al figlio. Il figlio mostra al padre che esistono i piedi, che le mani non sono artigli. Svestire l’investitura: che il figlio sconfessi il padre è l’eredità, che il padre impari se stesso attraverso il figlio è un privilegio, vuoto ricolmo di falchi.