“L’innocenza è svuotarsi ogni giorno”. Scrivere per Dino Campana, infermo d’assoluto
Poesia
Isabella Bignozzi
Il dubbio non è tentennamento: rafforza la fragilità, senza insinuazione dice la debolezza dell’uomo, cioè la sua luce. Ebbro di dubbi, l’uomo non scrive per essere riconosciuto ma per conoscere; essere dotato di spaventosa curiosità verso l’andare dell’altro. Antonio Prete, tra i rari maestri, oggi, uno che con ostinata devozione rilancia la parola letteraria nella tenebra del frastuono, costella il nostro dialogo di dubbi. “Forse”, “non saprei”, “credo di poter dire”, “direi”. Che bello questo pudore, il pudore della sentinella dai cui piedi si dipartono bivi, deviazioni, un delta di vie. Si parla, in effetti, sempre, da una soglia – si scrive su una zattera. Autore di libri sterminati – nel senso che non ‘chiudono’, non si entra nella prigionia di un pensiero risolto, si vaga lungo geografie e suggestioni, in stanze moltiplicate – Prete adopera il fatto letterario per misurare l’abisso umano. Esempio. Un libro come Il cielo nascosto. Grammatica dell’interiorità (Bollati Boringhieri, 2016), è fitto di frasi da segnare, in cui rientrare: “Ogni raccoglimento è un ritorno”; “L’indugio dello sguardo può dischiudere un interrogarsi sul senso dell’esistere, e persino sul perché del mondo”; “Camminare è pensare nell’aperto, attraverso l’aperto”; “La parola interiore è il silenzio che muove verso la lingua”. Prete, tra i grandi studiosi di letteratura, pensatore (autore di libri alti come Nostalgia. Storia di un sentimento; Trattato della lontananza; Compassione. Storia di un sentimento), traduttore di platino (per Feltrinelli, I fiori del male di Charles Baudelaire), poeta (per Donzelli ha pubblicato, ad esempio, Menhir e Se la pietra fiorisce), crea spazi cosmici, nelle sue riflessioni, sparge continenti nel gorgoglio dei verbi. La sua scrittura non è assertiva, tirannica, ma pretende l’accoglienza e il dilemma del dialogo. Tra i rapporti d’elezione, però, dobbiamo dire di quello con Edmond Jabès, poeta francese tra i titani del Novecento, di cui Prete ha tradotto testi decisivi come Il libro della sovversione non sospetta, Il libro del dialogo e l’ultimo, sul nitore della fine, Il libro dell’ospitalità. Proprio lì, nell’oblò di una postfazione molto partecipata, Parole di sabbia, perfino intima (“Nella stanza del suo scrittorio – in una piccola via nel cuore di Parigi che molte volte ho raggiunto attraversando il Jardin des Plantes e risalendo dalla rue Lacépède – Jabés custodiva alcuni segni di una sua frenata nostalgia…”), Prete ci ricorda che il poeta frequenta il deserto (“Del deserto Jabès ha narrato i silenzi, lo sconfinamento, i cieli di pietra, la solitudine di ghiaccio, le impronte cancellate o sepolte, le voci di un teatro interiore agitato dal vento e che dialoga col vento, la parola di un Dio senza volto e senza nome”), parteggia per la morte desiderandone la salvezza. Il deserto è il luogo del dubbio – dove la sabbia appare, per Effetto Morgana, lago e tra Dio e Satana la differenza è ambigua – e il poeta martoria la morte di dubbi. Fino a rendere anche la morte, sigillata dal verbo, santificata, ragione di vita.
Partirei da Edmond Jabès, perché nel grande francese il discorso sul verbo e sul libro è detonante e determinante. Come è accaduto il suo incontro con quel dire, in particolare, con Jabès? Che senso ha, oggi, il pensiero lirico (perciò, il vertiginoso) sul valore della parola?
Sì, in Jabès, è vero, la parola è il cuore del cercare e del domandare, la parola come tempo e spazio di un dire che non si acquieta nel senso, non si adagia nel significato, e neppure nel piacere del suono: una parola che è ferita. Ferita per due ragioni: perché è distanza da ogni perfezione, da ogni principio e fondamento – parola nel deserto – ed è toccata dal tragico della nostra epoca, non può essere separata da quel tragico: “Non si racconta Auschwitz: ogni parola lo racconta”, leggiamo in un suo libro. Inoltre Jabès dava molto rilievo a quell’essenza della parola che è il vocable, il vocabolo, inteso nella sua letteralità, cioè nel suo rapporto con la voce, con la vocazione, e dunque con l’ascolto interiore. Il mio incontro con Jabès è avvenuto attraverso i suoi libri e insieme attraverso l’ascolto della sua voce: una modulazione molto bella, e fortunata per me, quella che poteva passare dalla lettura/traduzione all’ascolto, dall’incontro del libro all’incontro della persona. L’ultimo incontro è stato sulla soglia della sua casa, quando, mentre lo salutavo dopo una mattinata di conversazione e ascolto, mi ha dato il dattiloscritto dell’ultimo suo libro, appena concluso. Era Le livre de l’hospitalité. L’ho tradotto in stato di lutto, riascoltando dentro di me la voce dell’autore. In Italia il libro è uscito, postumo, in contemporanea con l’uscita francese.
È raro, oggi, un pensiero che dia rilievo alla parola, al suo nesso con l’interrogazione, con l’ascolto, con la conoscenza, ma anche con il silenzio che della parola è come la struttura portante. Perché di fatto una società della comunicazione totale – verbale, visiva, digitale – ha via via dislocato la parola dall’ordine della risonanza – di senso, di suono, di immagine – all’ordine della strumentalità, della ripetizione: da qui il dire ovvio, che mira al consenso, o alla polemica, non all’apertura della domanda, alla sospensione interrogativa.
In sostanza. Che senso ha leggere? Che senso ha scrivere? La scrittura, oggi, non sembra più essere il regesto di una interiorità ma la necessità, furibonda e analfabeta, di dire ‘io ci sono’, ‘io vedo’, ‘io vivo’.
È vero, la scrittura oggi, qui da noi, non appare come voce di un’interiorità, occasione di ricerca e di ascolto, come esercizio di invenzione e di conoscenza. Giustamente lei nomina quella “necessità, furibonda e analfabeta”, quella sorta di diffusissima pulsione a essere presenti sulla scena, per allestire il teatrino del proprio io. Qui vedo un’omologazione con la rappresentazione che i mezzi visivi promuovono: un’incessante esibizione di un io, la cui ipertrofia è poi di volta in volta mascherata da necessità politica, spettacolare, comunicativa. Diminuisce la curiosità per l’altro, per il mondo che non si conosce, per l’inesplorato (anche interiormente inesplorato) e di conseguenza perde vigore il dialogo, il riconoscimento dell’altro che il dialogo implica. Quando il mercato editoriale dà rilievo a un’idea di leggibilità fondata sul numero dei lettori, sulla quantità, e appiattita sui gusti dominanti (dominanti perché indotti da centrali dell’immaginario visivo), allora la scrittura rischia di perdere il suo patto essenziale con l’invenzione e si allinea ai generi precostituiti, alle forme note. Scrittore diventa allora colui che si mostra in sintonia con il proprio tempo, con le sue mode, i suoi vizi, i suoi miti. Il che non ha davvero a che fare con la scrittura, con la sua storia. Si perde quello scarto, quella non contemporaneità alla propria epoca che per Leopardi era propria della poesia. E una società nella quale la funzione-poesia è svilita è una società dominata facilmente dall’utile, dall’economico, e dalle mitologie necessarie ad alimentare quell’utile e quell’economico.
Nei suoi libri più noti (ad esempio “Nostalgia”, “Compassione”, “Trattato della lontananza”) sonda i sentimenti remoti dell’uomo. Insegnando, per così dire, che la lettura, la letteratura centuplica la sensibilità dell’uomo, ne eleva al cubo la capacità percettiva, la facoltà immaginativa. Che cos’è, allora, la letteratura?
Appunto, la letteratura, se ancora questa parola ha un senso, è anzitutto amore della lingua, un amore che si svolge come interrogazione sul perché del mondo, di questo mondo cosiffatto, dei viventi, di noi viventi tra viventi. E si svolge anche, allo stesso tempo, come invenzione di forme, cioè disegno del possibile, dell’assente, dell’oltre. I modi diversi – romanzo, poesia, saggio – sono declinazioni di questo domandare e cercare. E di questo dare presenza di forma e lingua, di ritmo e pensiero a una necessità di conoscenza. Si tratta, ogni volta, di una conoscenza che nella sua radice stessa vuole essere condivisa con altri: il lettore è in questo senso parte attiva nel farsi della letteratura. Ma non intendo qui il lettore dal punto di vista della fruizione, destinatario di un mercato del libro. Intendo il lettore come soggetto in dialogo.
Lei accenna ad alcuni miei libri dedicati al sentire, alle forme del sentire. Si tratta forse di un’unica riflessione che si è svolta, e spero continui a svolgersi, privilegiando ogni volta un campo diverso. Niente di più singolare e proprio e irripetibile del sentimento, e tuttavia la letteratura e l’arte ci mostra quello che trascorre di comune nel sentire degli individui, e inventando personaggi e situazioni ci fa conoscere la natura, la radice, di ogni forma del sentire, le relazioni che corrono tra quelle forme. Per questo interrogare la letteratura su questo piano ci aiuta a conoscere i modi del nostro stesso sentire e di conseguenza a rapportarci con il sentire dell’altro.
Nel suo ‘canone degli affetti’ quali sono i poeti più cari? E quelli fondamentali alla nostra storia italiana?
Difficile dirlo, per chi si è trovato a frequentare e amare, in stagioni diverse, e in lingue diverse, molti poeti. Ma ci sono, come accade, amori persistenti, e immutati nel tempo. Leopardi e Baudelaire, naturalmente, tra questi. Ma aggiungerei Keats, Rilke, Stevens, Celan (di Jabès ho già detto). Quanto a quelli della nostra “storia italiana”, avendo già detto di Leopardi, richiamerei la presenza per me ciclicamente assidua di Dante, la dolcezza della forma poetica di Petrarca, l’intensità dolorosamente immaginativa di Tasso, l’eleganza affettiva e creaturale di Pascoli e, avvicinandoci, l’energia espressiva del primo Ungaretti, il ventaglio di una temporalità visiva e intima di Luzi, la gioiosa e pensosa lavorazione della lingua di Zanzotto… Ma il bello della poesia è che non sopporta se non per provvisorie convenzioni i canoni: ogni esperienza poetica che davvero sia tale ha una sua energia, una sua presenza.
Come si concilia nel suo lavoro l’ispirazione del poeta all’attenzione, all’attitudine dello studioso?
Non saprei definire i modi delle relazioni sotterranee tra due attitudini, che sono anche due tempi e due esercizi di scrittura. Naturalmente, trattandosi sempre di scrittura, di rapporto tra pensiero e forma, un modo ha a che fare con l’altro. Però quel che accade è che diverse sono le condizioni per dir così esterne. Per la ricerca e il saggio c’è il tempo del progetto, la scelta dell’ordine espositivo, la definizione delle parti, insomma la costruzione di una struttura, e poi c’è il tempo in certo senso continuo, fatto di scansioni, di procedimenti progressivi, con ritorni e riprese, cancellazioni e riscritture; ma sostanzialmente si fa esperienza di un cammino, di un divenire, e questo è un tempo per certi versi quieto, e anche assiduo, che dà una certa pacificazione, pur nella tensione del pensare e nel ritmo della scrittura: lo star bene spesso per me coincide con l’essere dentro il processo di una scrittura saggistica. Per la poesia – un po’ meno per la prosa narrativa, ma con caratteristiche eguali – il rapporto col tempo è diverso: non c’è il continuum, ci sono salti, interruzioni, attese, rotture, silenzi. Si tratta di accadimenti che in qualche modo ti chiamano dentro, non progettati, e allora solo quando sei dentro quella sorta di urgenza o necessità, venuta in qualche modo da fuori, senti di dover metter mano tu all’ordine di un tempo, che consiste nella cancellazione, nella prova, nell’esercizio, insomma in quel lavoro che Valéry diceva d’essere il resto del poème, dopo il “dono” del primo verso (potremmo però dire che quel dono riguarda sì il primo verso ma si sventaglia e riverbera sull’insieme della poesia).
Il suo libro, rarefatto, rifratto, “Il cielo nascosto”, scava nei recessi della solitudine, torchia l’io nell’acido della letteratura. “Stupore è dunque osservare le cose come se apparissero la prima volta”. Questo è il cuore della poesia? Ma poi… cos’è l’anima (o ‘interiorità’), cos’è la poesia?
Domande brucianti. Certo, si può dare della poesia quella definizione: osservare le cose come se apparissero per la prima volta. Di fatto senza stupore non c’è poesia, come non c’è conoscenza. O meglio, si potrebbe dire che lo stupore è l’alfabeto della poesia, come il silenzio ne è la sintassi. Si potrebbe aggiungere che nella poesia il senso si fa suono senza perdersi in esso, il suono prende un senso senza attenuare la sua natura di suono, e suono e senso si congiungono al punto da formare quello che Dante chiamava “legame musaico”, non scioglibile (da qui l’azzardo della traduzione in un’altra lingua che pretende di dare a quel senso un altro suono e a quel suono un altro senso). L’interiorità, in tutto questo, cosa c’entra? Nel suo tempo e spazio prende idea e forma, linfa e cadenza il dire poetico: senza l’ascolto di questo sé indecidibile e nascosto e frantumato in riverberi di altri sé perduti o possibili non c’è passaggio al pensiero della poesia. Anche nelle forme più sperimentali questo teatro è necessario al dire della poesia. Poi la si potrà chiamare come si vuole, lirica, antilirica, postpoesia… In più, direi che con la poesia si fa davvero esperienza di quel che è l’essenziale e il necessario, in un mondo di parole superflue e imbellettate e svendute.
Un giudizio sulla letteratura contemporanea. Meglio fuggire in Baudelaire o Leopardi, o lavorare in trincea, nel tempo presente? Insomma, in che stato di salute vive la letteratura italiana, oggi?
Derei che occorrerebbe tentare di perseguire, allo stesso tempo, una linea e l’altra: rifugiarsi nei classici (o semplicemente frequentarli) e, come lei dice, “lavorare in trincea”, stare nel presente, anche nel suo assillo. I classici sono una riserva che nessuna avanguardia riesce ad abbattere, anzi senza i classici le avanguardie non avrebbero ragion d’essere. Stare in trincea può voler dire anche difendere i classici in un mondo che amplifica e sacralizza il presente e crea nel presente sistemi di valorizzazione fondati sullo stile mercantile (mode, successi, consumi). Quanto allo stato in cui vive la letteratura italiana oggi, è difficile cogliere linee e tendenze mettendosi da un punto di vista diciamo artistico, perché la valorizzazione di un testo avviene oggi non per via della critica – è caduta da tempo la funzione di mediazione propria della critica – ma per via di un’opinione alimentata e guidata dal quel patto più o meno esplicito che c’è tra editoria, mercato, sistemi di comunicazione culturale (in gran parte televisivi ma anche giornalistici). Questo favorisce il super affollamento di quella dimora o spazio all’aperto che chiamiamo letteratura. Ma dirsi scrittori non è esserlo. C’è, per fortuna, ancora una riconoscibilità dell’essere scrittore: ma qui si apre un altro discorso…
Quale libro, da ragazzo, le ha cambiato lo sguardo; quale libro consiglierebbe, oggi, a un ragazzo?
Credo di poter dire che sono stati via via, nei primi anni di letture appassionate dell’adolescenza, diversi libri. Ricordo la forte impressione che mi fece la lingua e il mondo dei Malavoglia di Verga: conoscevo da vicino quel mondo di povertà, e quella sapienza dolorosa (ero in un Sud non toccato ancora se non in parte dalla modernità), ma vedere che c’era una lingua particolare per dire quel mondo mi colpì molto. A lungo sono tornato sulle pagine di una grande antologia della poesia – Orfeo. Il tesoro della lirica universale – dove un ragazzo poteva trovare in buone traduzioni italiane poesie di poeti di varie epoche e di varie lingue. E poi il grande romanzo russo dell’Ottocento. Ma anche i romanzi di Stendhal, di Victor Hugo, di Flaubert. Il fatto è che le letture dei classici fatte nell’adolescenza e nella prima giovinezza vanno riprese poi. Un classico è tale perché ritorna, e noi torniamo a lui. Oggi consiglierei a un ragazzo la lettura del Don Chisciotte di Cervantes, con l’impegno a tornarci, dopo alcuni anni, per una nuova lettura (una buona traduzione è quella di un poeta come Vittorio Bodini, per Einaudi). E insieme consiglierei di leggere e mandare a memoria (dunque rileggere più volte) qualche poesia della tradizione italiana (Dante, Petrarca, Foscolo, Leopardi, Pascoli, o qualcuno del Novecento): un esercizio oggi desueto, che varrebbe la pena riprendere, in tempi in cui deleghiamo la memoria alle pagine che Google ci spalanca di colpo davanti.