Dopo molti anni ho riletto Il sosia di Dostoevskij e fin dalle prime pagine mi è tornato alla bocca il sapore che mi era rimasto dalla prima lettura. Un misto di dolce e di amaro. Da un lato il piacere di sprofondare in una storia che ti avvolge subito come in una rete da cui non puoi, ma soprattutto non vuoi, più liberarti, e dall’altro l’inquietudine provocata dal vuoto pneumatico in cui si muove il protagonista, Jakov Petrovic Goljadkin. Che personaggio il vecchio Goljadkin! La tendenza a esasperare ogni più piccola cosa, a contraddire continuamente se stesso, a pensare una cosa e farne sistematicamente un’altra: sono questi alcuni degli aspetti che fanno di Goljadkin il primo uomo del sottosuolo, un’anima morta, un inetto, un disadattato, un perdente e mille altre cose. Ma a pensarci bene in fin dei conti chi è veramente Goljadkin?
È un uomo terribilmente solo. Anzi, secondo il mio personalissimo cartellino, l’uomo più solo al mondo. Vede nemici dovunque e si mette in testa di essere vittima di un complotto ordito ai suoi danni da non si sa bene chi. Il suo motto è: «Non toccatemi dal momento che io non vi tocco». Isolato da tutto e da tutti, tormentato da un disperato bisogno d’affetto e comprensione. Lo si capisce al termine della prima delle quattro giornate in cui è ambientato il romanzo, quando, dopo avere subito la più cocente umiliazione della sua vita, vaga per le strade di una Pietroburgo splendida e livida allo stesso tempo, sferzata dalla tormenta. È disperato, vuole solo sparire, desideroso di «distruggersi, ridursi in polvere». Proprio in quel momento incontra il suo sosia, che si materializza nella figura di un gemello, di un impiegato che porta il suo stesso nome, una vera e propria copia del nostro eroe.
«Goljadkin aveva perfettamente riconosciuto il suo amico della notte. L’amico della notte non era altri che lui stesso, Goljadkin, un altro Goljadkin assolutamente identico a lui; era, in una parola, quello che si chiama il proprio sosia, sotto tutti i profili…».
In men che non si dica l’ambizioso e scaltro Goljadkin-junior – così è chiamato nel libro il “nuovo” Goljadkin – si fa beffe del Goljadkin-senior, si dimostra tanto scaltro e astuto quanto il Goljadkin-senior è goffo e ingenuo, ne usurpa la posizione nell’ufficio dove presta servizio e si guadagna il favore dei suoi superiori, imboccando così la strada di una brillante e rapida carriera.
E di fronte a tutto questo come reagisce il nostro Goljadkin? Superato il disorientamento iniziale, oppresso da un disperato bisogno d’affetto, di comprensione umana e desideroso di trovare un alleato, un “fratello” che possa tendergli la mano, Goljadkin non trova di meglio da fare che accogliere in casa propria il sosia. «Noi due, Jakov Petrovic, vivremo come il pesce nell’acqua, come fratelli carnali; noi due, amicone, giocheremo d’astuzia, giocheremo d’astuzia insieme».
Solo in un secondo momento si renderà conto di aver aperto il proprio cuore al nemico più crudele con cui ciascun essere umano possa mai trovarsi a dovere fare i conti: se stesso. E così il povero Goljadkin resta lì in mezzo, schiacciato tra le sue due identità: la prima, quella originaria, remissiva, imbarazzata, priva di carattere, e la seconda, sfrontata, insolente, capace di tutto. Tanto per rincarare la dose, va detto anche che, a differenza di altri grandi personaggi dei romanzi di Dostoevskij, Goljadkin non ha nemmeno il conforto del senso cristiano a cui aggrapparsi. Tanto meno può accusare il sistema sociale in cui è costretto a vivere. Non sono le strutture, l’ambiente o l’educazione che stritolano Goljadkin. Fa tutto lui. Tutto è racchiuso nel suo animo. Nudo, completamente inerme, senza difese, va incontro al suo destino come una vittima sacrificale.
Coprotagonista del romanzo la città di Pietroburgo. Fredda, innevata, umida è lo sfondo ideale per una storia costantemente sospesa tra sogno e realtà. Non sappiamo mai se il sosia esista veramente o se sia il frutto dell’immaginazione distorta del protagonista. Anche perché tutti gli altri personaggi del romanzo – tranne il servo Petruska – non sembrano notare nulla di strano.
Accecato dalla possibilità di riconciliarsi con una società che lo rifiuta, Goljadkin è sordo alla ragione e cieco all’evidenza e spera fino all’ultimo in un epilogo salvifico, in un tacito accordo con il proprio doppio interiore che possa, in qualche modo, strapparlo alla follia, ma ormai è troppo tardi. Les jeux sont faits.
«Il nostro eroe emise un grido e si prese la testa fra le mani. Ahimé, già da un pezzo egli aveva presentito tutto questo!».
Goljadkin viene fatto accomodare su una carrozza e condotto in manicomio, per certi versi l’unico, estremo paradiso terrestre per uomini come lui. Arrivati all’epilogo, noi lettori non sappiamo se gioire o piangere. Prima di vederlo allontanarsi, possiamo solo lanciargli un ultimo saluto: «Addio, vecchio Goljadkin. E grazie di tutto».
Silvano Calzini