14 Settembre 2023

“L’innocenza è svuotarsi ogni giorno”. Scrivere per Dino Campana, infermo d’assoluto

Cristiana Panella scrive per Dino Campana. Poeta dell’estasi nello strazio, della perenne trasfigurazione: di Campana il peregrinare, il mesto approdo sono già per intero nella tenerissima serietà dei suoi occhi giovani, “nostalgia mortale delle acque ferme” che giura l’esattezza in amore dei “cani fedeli”.

Non il Dino dei dannunziani suoi languori, dei sublimi arcaismi; non l’esteta che cadenza anafore fino a remote e supreme latitudini, inarcando analogie all’aperto infinito; non il danzatore metrico, l’equilibrista che allittera, fa assonanza e rimando, fascinazione. Piuttosto l’Orfeo sventurato, infermo d’assoluto. Poeta in fuga (Montale), dilaniato d’infanzia cagliata, di giovinezza malfatta; poi costretto nella stanza dove la stessa piaga rossa languente che affligge il cuore della sera stilla e duole: rendendo moire le Chimere, e avviliti delirî gli arabeschi sintattici che, col loro fluire, avevano illuso le sue precoci limpidezze: quando gli azzurri e gli aurei bagliori s’irradiavano gli uni negli altri, e i naufraghi cuori battevano all’unisono con l’ale celeste sul mare.

Panella è poeta di vasta perizia etnografica e cortesia sensitiva; oltre alla sacra lealtà del linguaggio conosce il rito, il cammino scalzo, le bianche città dormienti ai piedi dei vulcani, il soffio torbido dell’equatore. Forte di ogni sua essenza, la poetessa diviene qui canovaccio, e chiama Campana in eco, dandogli voce con una prosa di avvenenza demoniaca: idioma alieno, che gravita tra foschi bagliori e lucentezze tese al sublime.

Ridare lemma agli scomparsi, alle docilità ferite nella contenzione, strette ai lacci di un’ordinarietà che addita e isola, medicalizza ogni disagio. Recuperarne l’innocenza creaturale intera: se pur mai data al singolo, setacciarne i barlumi: pagliuzze raccolte da occhi d’orafo, e sollevate all’ostensione come luminescenze insonni.

Una vita estinta che ancora grida. Spoglia rannicchiata, disseccata tanto da frangersi in pugno; nei panni il fremito di un acre singhiozzare: questa è la presenza che, per Cristiana Panella, daccapo scuote il cielo, e reitera inesausta la sua elegia, a straziare ogni anfratto di pace.

Dalle segrete, canto (Anterem 2023, nota di Mara Cini): caduto il corpo oltre la soglia d’ombra, del poeta Campana rifluisce a ritroso la trenodia: dalle stanze serrate dell’inaccolto, del patito.

È tesa e mirata la richiesta al nuovo cantore, la domanda di connivenza è rivolta a occhi precisi: in quest’epoca sorda, estinta, Panella sa accogliere il ritorno, il ricordo, farsi parola che schiude come corolla, attorno a quella del suo Dino.

Ripararne la mortalità accaduta – rapida e rovinosa – nell’impercepito, nell’attutirsi, e far sì che dalla terra s’inerpichi a ulteriore cuore: a dire nervo, cronaca, turbato sangue. Che, linfa riaccesa, torni poi alla terra come bevanda di canto nuovo: per chi sa l’ascolto, il tacito contemplare. Fare splendore, perché ogni fiato risponda all’inconcluso lamento, e, se vigile ancora all’offesa, vibri alla perpetrata iniquità, al trascorso tremore.

Dall’immane grembo dei sepolcri una falange di fati inesauditi s’alza e incede: lo spasimo di Dino s’incunea e fende, germina nel punto sensibile dell’anima affine. Nel generale sconcerto degli acquietati, il vano patire di un uomo trova riparo in cui accordarsi al gemito eterno. È questo, per la poetessa, il troppo che fa bruciare gli occhi di similitudine, che spalanca le ali come strapiombi.

I dolorosi pentagrammi della fratellanza che invadono di certuni la vita hanno il passo di un’imminenza che fa vertigine: toni dai temperamenti equabili nella sola fraternità. Così, rapinosa e fulminea, s’abbatte il canto nell’informe e incompreso dei giorni, a fare, del silenzio dei pesci, un grido di basiliche bianche fino alla trasparenza.

Non cola mai nel sonno il dolore di alcuno, ma rifà agonia e travaglio lungo le vertebre di chi accoglie. Poeta, poiesis, ripensare e dar forma. Negli inverni volgari, nel deserto dell’artificio, Dalle segrete, canto è opera esile e mirabile, scrittura rappresa come “il sangue che rimane dopo la cura” sulle braccia trafitte dagli aghi.

Questo perpetrare, far risuonare voce, che rinnega l’opacità del pianto allo schianto dei secoli. Non si estingue il lutto sulle pareti – se pur scalene –, sulle diversità del sentire, ma rinasce sbieco e claudicante: controcanto potente in minore, nelle gremite partiture della sofferenza. Spine dorsali sonore di moltitudini di creature; polifonie desolate, richiami attraverso le stagioni: ognuna col suo bemolle che torce e abbatte lo sguardo.

Ma un solo infinito cuore calpesta questa terra, un solo patire concamerato nell’interminata cattedrale degli sconforti: una cartografia di plessi e gangli comunicanti, intrisi di cordoglio e di stupore, rabbiosi di speranza. Ed è di nuovo quel miracolo che proscioglie la selva dal suo incantesimo, sortilegio degli intrichi scuri, e sale alla canopia d’oro dell’ostenso, del riconosciuto e condiviso: una vita umana ha sofferto, ha fatto crimine e portento, ha inciso sull’acqua la propria storia. Ogni vita è Dio che traccia un segno per conoscersi, e di sé stesso fa esempio.

Privato un uomo delle scarpe, degli indumenti per scendere nel giorno, confutata ogni memoria della sua personalità. Umiliata la percezione e stremato il pensiero con le “bacchette magiche” della corrente elettrica, ogni pulsione negata come “vizio capitale” da soffocare fino alla piena “estinzione dell’uomo”, la schiera dei non allineati fa dei cortili “piazze d’armi”, delle piane antistanti i cronicari il “campo di battaglia” di un amore ostinato: gramigna della speranza che sfalda il selciato, abbevera il selvatico che inverdisce i muri, trasfigura le sbarre nel fasto dei girasoli.

Cristiana Panella

Medicare a ritroso certe vite è un’eterodossia, un rosario di sassi che spezza le ciglia. Ma sono pieni di frutti i palmi aperti di chi si fa mattino, dando dimora all’inconsolata pena.

Panella disegna a mani nude per Dino le rimpiante radici che riscrivano l’amore assoluto: quello che si scava nel fuoritempo, e grida che ogni perduto è eterno. (Isabella Bignozzi)

*

Dalle segrete, canto (Anterem 2023):

Ho infilato la sua giacca come occhiali rotti. mi penetra la
schiena, il suo corpo di vetri. si abbandona, al giaciglio che
l’ha estratto dal cumulo di sudore che fete le richieste d’amore
scambiate per fiere rabbiose, il tempo di una passeggiata. mi
inerpico sul suo Golgotha, nei piedi la fedeltà dei sentimenti
mai pronunciati a nessuno. i suoi orli cuciti addosso, fino a
che la schiena non si slabbra, anche la mia, sotto la frusta
dei Supplicanti al vuoto.

*

E tu, Mai creduto.
hai provato ad arrancare a quattro zampe come i loro
fortunati servitori. ti riprendevano per la collottola e
annientavano la tua volontà d’amore. neanche il tempo di
spiegarlo,
che era per la nostalgia mortale delle acque ferme
che le tue dalie da giovani avevano le gote accecanti dei
daidala offerti agli dèi

che di essi eri frammento

scintilla precipitata dalle mani-caverna di Efesto.

*

mentre le bacchette magiche sferrano l’assalto finale al
mio libero arbitrio in una girandola di stelle di pirite
guardo dalla finestra il movimento delle fiamme del sole.
la pioggia di lebbra di Hiroshima si posa lieve sugli steli
d’erba, e noi saremo quei lembi di pelle scoperchiata che
cammina tra i resti che non avevamo ancora indossato.
Ho detto loro: Hiroshima sorgerà, dietro l’Amiata.

*

hanno convocato mio padre per sbirciare al riparo di occhi
sigillati la sua disperazione storpiare la firma a fondo
pagina, ed eleggere mia madre Declamante-della-parola-
ebete-delle-sorgenti-snaturate.                         Perché le
piace            pa-sse-ggia-re-da-sola.                     cercano
di carpire l’ermeneutica della mia M. non la pronunciano
mai,                    la parola M.
            Madre.
Malattia.
Manlio.
Muro.

Quattro. Sono quattro.
Mai,
per continuare a vegliare dispari. Mia e Mai sono i genitori
del vuoto. costeggio raso il Muro, Mentre Mia Madre
cammina in Mezzo alla via con Manlio in braccio, unico
figlio. Entra nel muro, Dino. Entro nel muro. Fatti ragno.
Mi faccio ragno. Per farla passeggiare. Per farla respirare.
dalla fessura le mando baci che non vede cadere.
Caedere. Cedere. Re-cidere. Re-ci-si. Ricadono.
ci cammina sopra e con il sangue dei petali intesse il
tappeto rosso per i primi passi del suo unico figlio M. Io,
unico dolore accreditato. penitente nei Muri.

soffio su nove candeline senza Mia Madre. è a passeggio
con un neonato a cui canta canzoncine d’amore. mi volta
le spalle, per insegnarmi che i figli appartengono
all’ultimo volto che li vedrà, non al primo. la sincope della
fiamma dura l’esitazione di ciò che non sarà stato. gli occhi
attingono spalancati per non spaventare l’ultima occasione
di conoscere la verità. se è lei chi mi gridava di uscire,
già così ostile.
nei nove mesi prima ho impastato questa torta di
compleanno mai esistita.
                La Mia Malattia è un Muro Mai Mondato.

*

col tempo, le parole mi avrebbero ucciso, fuoco sacro
evirato a torcia umana per le wunderkammern dei
cronicari. le dispersi in ogni taccuino che ho lasciato
squadernato ad un crocicchio, le pagine chiamate dal vento
e porta via le parole che non vedrò più. la frase spazzata è
il sussurro del primo vagito e l’ultima la frattura originaria
della sensazione, a fogli sparsi,
ché la verità trova pace solo nelle sue ceneri,
dopo disperata erranza.
            il mistero è condannato a non posarsi mai.

un passero si ciberà dei brandelli volati dalla pampa
incendiata sulle teste di coloro che non vedono la fiamma.
non sanno che sulle loro crape nidificano le ceneri delle
mimose selvatiche. nelle mie scarpe lo sciaquettio delle
carni aperte.

[…]

mendicante delle porte chiuse. la mia giacca inopportuna
butta addosso ai cani in frac le rughe del tempo svenduto
a disconoscere.

[…]

hanno sciolto nel formol la polverina dell’oblio che
sgomma i numeri dispari, che nessuno ricordi i desideri
della mano che impresse il voto arcaico alle pareti di Lascaux.
Fare massa informe, durante le azioni costruttive con cui
offriamo la testa al temperamatite. i suoi trucioli non
hanno lo splendore della cenere.
       mi sono divelto i denti, e non è mai bastato.

*

[…] dalle pareti del cranio i
pipistrelli occhieggiano, mutazioni del buio di farfalle
disorientate. li aspetto accucciato, a celebrare la paura,
unica vestale di verità.

[…]

durante lo spettacolo fisso le mie gambe elettriche, in moto
continuo per non affogare nella piscina color ossa di
nostalgie sconosciute.
Vorrei dire loro
Accogliete nella pace
Accogliete nella pace, dico loro.

*

nei cortili
piazze d’armi
campi di battaglia

urlo la parola che sconcia,
a liberare l’umanità dagli auguri legati a testa in giù nei
sacchi neri allineati
nei cortili dei cimiteri per neuritici a lunga degenza

quelli che hanno peccato per disperdimento,
quelli che hanno peccato per rinuncia,
quelli che sono stati regalati

steli della parola mancata
sotto al cemento invocavano, le voci
impaurite dal giallo margherita all’aria sui muri di cinta

nel cortile, noir de foule,
i sacchi sfilano nudi battendo le piante per congedarsi dagli
augùri recisi,
batte e vola,
batte e vola,
ali di grandine affolate contro il cielo di vetro

cosa resta, in questo giorno,
delle impronte disattese sul cemento?

antiche pelli indosso ai nevrotici nuovi,
giacche di ferro senza braccia,
foulard senza collo,
questi sono, i volti freschi dei reclusi

oggi il cortile ospita i figli ignavi degli aneliti resistenti
il cemento è rotto dalla gramigna della speranza accecata
ogni crepa, un percorso di guerra
ogni non ti scordar di me, una bandiera issata

gli eserciti sciamano in camicia bianca, sulla piana
vanno a cercare a mani nude il tepore del petto nemico

ogni pelle esposta merita onore
ogni soldato offre la sua pelle all’opposto in pegno d’amore

le loro promesse abbeverano i fiori dei muri,
affinché da girasoli svettino, dietro le grate

nei cortili, odore di lenzuola traspirate,
linceuls di vecchi inquilini abbracciati all’ultimo sonno
gli strascichi unti delle attese si sfiorano per le scale
dalla balaustra implorano di non farli cadere

ogni condominio è un cronicario
ogni cronicario specchia un padre e una madre.

l’innocenza è svuotarsi ogni giorno
lasciare il computo alle termiti.

*

Il libro di Cristiana Panella: Dalle segrete, canto è risultato vincitore alla 37^ edizione (2023) del Premio Lorenzo Montano per la prosa inedita, ed è ora edito da Anterem Edizioni (collana piccola biblioteca Anterem), accompagnato da una nota di Mara Cini.

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