19 Maggio 2019

“No, quella su Instagram non è poesia: non si scrive per un pollice alzato, ma per restare. Per questo, leggo Sbarbaro e obbedisco a un vuoto sconosciuto”: dialogo con Matteo Bianchi

Dialogo con Matteo Bianchi, e mi viene la ‘luccicanza’ critica. Camillo Sbarbaro è tornato, prepotentemente – e con lenti, liguri passi andrà a scalzare, dall’iconografia canonica, Montale, o quasi. L’ultima raccolta poetica di Bianchi, Fortissimo (uscita nella collana ‘Cleide’, curata da Giancarlo Pontiggia e Cinzia Demi per Minerva), estremo esito di un lavoro iniziato nel 2011 con Fischi di merlo e scandito da diversi riconoscimenti (il Premio Metauro per La metà del letto, 2015, ad esempio), è un diretto omaggio al Pianissimo di Sbarbaro, in effetti. Settimane fa, parlando con Daniele Mencarelli, si tornava a ruminare quel nome. A leggerlo oggi, Sbarbaro, ha una luce più acuta di allora, forse (“Adesso che placata è la lussuria/ sono rimasto con i sensi vuoti,/ neppur desideroso di morire./ Ignoro se ci sia al mondo ancora/ chi pensi a me e se mio padre viva”), perché i poeti scrivono sempre per il poi, per il chissà, per l’altro tempo, per gli al di là. Poeta che intende la poesia come esercizio conoscitivo ma anche come disciplina etica – Bianchi è uno che ‘lotta’, cioè che esercita il giornalismo culturale per spostare di un asse il massacro odierno – è congeniale al mio sguardo la sezione di mezzo di questa raccolta, Diario di un amore, costituita da una cronaca della lucidità, da brani in prosa pianeggianti all’enigma. Questa è 22 maggio, ad esempio: “Loro e noi, i dispersi e i disperati. Una questione di “d”, dura, dark. D’altronde, hanno lasciato che li chiamassero debolmente “Tartari”, i motivi di quelle fortezze di sabbia difese dal niente. Purtroppo non c’è barriera che tenga il vuoto, se non alla stregua del malessere: ognuno gli dà un nome, fa come può, come gli è capitato. I più fortunati riescono a immaginarlo con l’ultimo sorriso”. Oppure questa, si chiama 11 giugno:

Lui: «C’è pieno di corvi, sia in volo sulla città sia a spasso per la strada. Fuori dalla porta di casa e comunque su due piedi, piumati o meno di nero. Vivono di luce riflessa. A volte succede che mi senta tale anch’io e che cerchi un’aria più chiara, più lontana».

Lei: «Nel loro gracidare indistinto mi pare di sentire qualcosa, quasi che dicano nevermore».

Nella canonica voliera della poesia italiana, Bianchi trova il suo esatto nel ‘mai più’ del corvo, che ricalca quello di Poe. Nella foto pubblicata in copertina, invece, è sottile l’ironia nei riguardi di Montale e della sua upupa fatale, come a dire: la poesia è rivelazione, già, ma è pure un pupazzo.

Fortissimo è l’antitesi di Pianissimo. Camillo Sbarbaro. Ti sei laureato su Govoni. Il libro è anche, quindi, una presa di posizione poetica? Quale?

Non ho mai condiviso la fretta emulativa di tanta produzione govoniana, forse troppa; ma ho sempre ammirato il suo entusiasmo nei confronti di ogni singola espressione, il suo stupore di fronte alle variazioni del mondo circostante. Fortissimo intende essere un omaggio a Sbarbaro e al suo Pianissimo, a un approccio al magma poetico tanto controllato – per l’estremo rispetto nei confronti della lingua – quanto irrinunciabile e vacillante come una fiamma. Il suo coraggio, però, rimane fondamentale: il poeta esordisce nel 1914 per rimetterci mano nel ’54 e ancora nel ’60, senza il timore di specchiarsi in un passato remoto, di ritornare sui suoi passi ma da fuori, come chi fa visita alla casa dalla quale ha traslocato ripercorrendone il vialetto, le forme di un’altra vita, e riapre la solita porta, la solita sconosciuta, avendo scordato tutte le ragioni per cui proprio quegli oggetti ne compongano immutabili l’interno, ossia le parole stesse. Rileggersi ogni volta significa accettare il proprio cambiamento, sebbene parziale, e asciugarsi buttando qualche vecchio abito fuori luogo per l’io lirico attuale.

Poesia è stare nell’alveo della tradizione, nell’avatar dei maestri? Quali sono stati i tuoi? E quindi: gli instagram poeti sono o non sono poeti?

Non lo sono, specie se con il genere poesia si presuppone anche una fase di labor limae supportata dal confronto con la tradizione e motivata dal superamento dei luoghi comuni. In questo senso portiamo con noi il passato andando oltre qualsiasi sfoggio citazionista. Le penne su Instagram, come chiunque scriva per una griglia social, sono vincolate ai parametri specifici del medium prescelto. E spesso in loro prevale la voglia effimera di cogliere il momento attraverso qualche pollice alzato o smiley, piuttosto che rimanere. Mi spaventa l’indifferenza dilagante di chi non teme di sparire, di chi non concepisce la paura dell’oblio. Ecco che i vari Gio Evan – che schiva questa etichetta di sé – cavalcano l’onda emotiva di uno sfogo rancoroso, se non di un piatto lamento, non dando onore e spessore alla ricchezza di figure retoriche che distinguono la nostra lingua dalle altre. A proposito di maestri, in Fortissimo spero di aver portato con me l’essenzialità dei Sillabari di Parise nel catturare in poche righe la realtà intorno e il desiderio di Sereni che non riuscì mai a darsi alla prosa, tornando di peso alla sua irrinunciabile vena poetica, croce e delizia.

Tu credi? In Dio, negli dèi, in qualcosa? A cosa obbedisci quando scrivi?

Credo nei particolari, poiché solo da quelli si intravedono le intenzioni della regia. Credo negli altri e nelle infinite possibilità del presente, almeno per le nostre ridotte capacità di previsione. Quando scrivo, però, obbedisco alla metà del letto che mi manca, a un vuoto sconosciuto.

13 maggio

Ricordo quando mi domandavo cosa fosse quell’ubi consistam irraggiungibile che aveva fatto ammattire Pavese; quasi egli fosse in ritardo sulla tabella di marcia della vita, un escluso a oltranza, o meglio, da allora a prescindere. Adesso è chiaro e fatale: avrebbe desiderato che una donna fosse diventata la sua origine, il suo eterno e necessario ritorno, per non avere più bisogno di quattro mura da scegliere, di un nome sulla mappa.

La mia vorrei fossi tu. La maledizione innocente di chi mai si accontenterà della sua passione.

Un atto lirico è anche ‘politico’. Tu poi nella politica culturale sei impelagato. Dunque: in che era viviamo? Verso quale direzione culturale ti muovi? Cosa fai: subisci, reagisci, stai? 

Reagisco, che domande. E spesso subisco la solitudine di avere una voce indipendente. Il contesto di Ferrara, a misura d’uomo e di idea ma meno esposto di Mantova o contraddittorio di Venezia, può essere un buon metro di paragone. Non ho mai accettato la dimensione salottiera o di quei ferraresi inconsistenti che rincorrono il primo mecenate per mettersi in mostra e asservire la bellezza alla vanità, all’egocentrismo, alle vetrine dei bottegai. La poesia è un approccio e un impegno per conoscersi più a fondo, per superarsi e lasciare lungo il proprio percorso qualcosa di migliore.

Ma leggi la letteratura e la poesia contemporanea? Dettagliaci il panorama letterario che vedi dalla tua tana personale. 

Per fortuna certi autori non si esauriscono mai, rimanendo sugli scaffali più alti in barba, come l’anonimato ingombrante di Giuseppe Berto che non mi stanca mai. Adesso sulla scrivania ho alcuni titoli nei quali credo molto: comincio da Trasparenza (Interlinea) di Maria Borio, sorprendente per la purezza della fiducia che ripone nella parola scritta. Non solo nella capacità di veicolare un’evoluzione interiore, ma proprio di risolvere la realtà o alcuni suoi aspetti; in particolare quelli spartiti con gli altri; proseguo con Perciò veniamo bene nelle fotografie di Francesco Targhetta, finalmente riedito da Mondadori, forse il romanzo più coerente – anche per la forma in versi – nel rappresentare la nostra precarietà esistenziale; e finisco con il Foliage (Raffaello Cortina) di Duccio Demetrio, perché nell’autunno, nell’ultimo atto di ogni ciclo vitale la bellezza non è più scontata e si percepisce già l’energia di un nuovo inizio.

*In copertina: Matteo Bianchi secondo Claudio Furin

Gruppo MAGOG