08 Aprile 2020

“Se ti comparisse davanti Pavese, sei sicuro che non lo odieresti?”. Il gatto, le donne, il suicidio: uno studio di Abelardo Castillo

Uscì dalla sua casa in Via Lamarmora, prese un tram e affittò una stanza all’Hotel Roma. Undici giorni prima aveva scritto l’ultima pagina del suo diario da suicida. Chiese una stanza con il telefono; a questa circostanza dobbiamo alcuni dei dati più scomodi che ci restano della sua morte. La centralinista dell’albergo raccontò che aveva fatto quattro o cinque telefonate, solo a donne. Le invitò a pranzo, a chiacchierare con lui. Insistette soprattutto con Fernanda Pivano, che aveva il marito malato. Tutte trovarono, o ebbero realmente, una scusa ragionevole per sottrarsi all’invito. La più sbrigativa, forse la più sincera, fu una ragazza che lavorava in un café chantant. “No”, gli disse. “Sei musone”. Un pedante. E mi annoi, aggiunse. Cesare Pavese si suicidò quel pomeriggio, in quella camera d’albergo. In una copia del suo libro Dialoghi con Leucó annotò: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Non fate troppi pettegolezzi.”

Quando, quella notte, aprirono la porta della sua stanza uscì da lì dentro un gatto: Pavese o il caso avevano ricostruito una scena letteraria, quella di Rosetta, la prostituta suicida di Tra donne sole.

Non si possono non carpire troppe cose di fronte a una morte simile: lo spirito di vendetta e l’odio velato che tradiscono le telefonate.  Pavese sapeva in anticipo che quelle donne avrebbero detto di no: entrò in quella stanza disposto a suicidarsi; l’aspetto decorativo e ambiguo di quel gatto, il fastidio creato dall’ordine in cui compare il verbo perdonare nelle sue ultime parole. Non si può nemmeno non sentire quanto pauroso, quanto triste e quanto assolutamente sconfortante sia ammazzarsi una domenica pomeriggio in una stanza d’albergo.

Letteratura, odio per le donne, incapacità patologica di vivere. Per quindici anni, le annotazioni del diario di Pavese non parlano d’altro che di questo; ma come parlare di ciò che parla quel diario? “Non fate troppi pettegolezzi”: queste parole anticipano qualsiasi tipo di giudizio e annullano qualunque cosa si dica su Pavese. Tuttavia, qui troviamo per l’appunto queste pagine intime, che ci autorizzano, paradossalmente, a prendercela con lui e a rivoltare il suo cadavere. Qualsiasi diario intimo è una forma di pettegolezzo e, se diamo credito a Dostoevskij, una forma di cattiva coscienza.

Fino a oggi, l’unica edizione esistente de Il mestiere di vivere era quella pubblicata, espurgata, da Italo Calvino e Natalia Ginzburg agli inizi degli anni Cinquanta. Ma il diario vero non era un testo segreto: molti amici conoscevano la sua esistenza e lo stesso Pavese aveva manifestato il desiderio che Il mestiere di vivere, così come lo conosciamo adesso, venisse pubblicato dopo la sua morte.

Questo condiziona lo sguardo che volgiamo a questi fogli: non sono il diario clandestino di Amiel, né le caotiche e cifrate annotazioni di Kafka, neppure il candido diario adolescenziale di Marija Baškirceva. Sono un’opera premeditatamente rancorosa e feroce, la cui scrittura anela la lettura. Quando Pavese scrive: “Le donne mentono, mentono sempre e ad ogni costo… hanno la menzogna nei genitali”, o quando scrive: “Nella vita succede a tutti d’incontrare una troia. A pochissimi, di conoscere una donna amante e onesta. Su cento, novantanove sono troie”, sa che questi testi verranno letti: vuole che questi testi vengano letti. Letti da una donna in particolare (Tina o Fernanda o Natalia o Connie o la donna dalla voce rauca) o da una qualsiasi di quelle che lo disdegnarono. O da tutte, e da tutti.

“I suicidi sono omicidi timidi”, scrisse qualche giorno prima di ammazzarsi e, qualche anno prima: “Non ci si uccide per l’amore di una donna”. Ci si uccide per uccidere l’universo, aggiunse. Cesare Pavese vuole sistemare i conti con le donne, con gli uomini, con la letteratura, con la morte.

Una delle caratteristiche più inquietanti de Il mestiere di vivere è di tipo sintattico. La quasi totalità del diario è rivolta a un tu, a una seconda persona che è l’autore stesso, un Pavese che è sempre un altro o che si maschera persino nell’universalità del tutti. Non dice: quando io avevo tre anni. Dice: “Non è già chiaro tutto il suo destino in un bambino di tre anni che, mentre lo vestono, pensa inquieto come farà a vestirsi da grande, lui che non sa?”. Non dice: i miei sogni. Dice: “Nei sogni, chi sogna è sempre molto vile e tollera cose che nella vita reale non tollererebbe. Manca assolutamente di senso morale e sociale. Diventa nodo d’istinti”. Questo sdoppiamento si avverte anche nella sua corrispondenza. Una delle sue lettere più intense, sgradevoli e lucide, quella che invia nel 1940 a Fernanda Piovano, è interamente scritta in terza persona. Non è solo che Pavese veda pietosamente se stesso: Pavese è lui stesso e il suo unico apostolo e il suo peggior giudice.

Le sue finzioni, invece, tendono ad assumere naturalmente l’io e quindi forse, non è necessario essere uno psicoanalista per sospettare che nel momento in cui Pavese avvertì che ormai non poteva più immaginare i propri io, perse definitivamente l’unica identità con cui si riconosceva al mondo e dovette uccidersi. La penultima annotazione del diario, tuttavia, è scritta in prima persona. Dopo aver parlato maniacalmente di suicidio per quindici anni come se parlasse della morte di un altro o dell’uomo in generale, scrive con brusca felicità: “Perché morire? Non sono mai stato vivo come ora, mai così adolescente”. Due giorni dopo: “Tutto questo fa schifo. Non parole”..Dieci giorni dopo affitta una stanza all’Hotel Roma, si rinchiude con un gatto e si ammazza.

“Siamo sinceri”, si domanda in un qualche episodio di chiaroveggente insonnia di quei quindici anni, “Se ti comparisse davanti Cesare Pavese e parlasse e cercasse di fare amicizia, sei sicuro che non ti sarebbe odioso? Ti fideresti di lui? Vorresti uscire con lui la sera a chiacchierare?”. Pavese chiede a Pavese se avrebbe voluto essere amico di Pavese, ma la domanda ricade brutalmente su di noi. È difficile non rispondere no. No, musone, non vorrei essere tuo amico: la ragazza del  café chantant aveva ragione.

Fortunatamente, c’è un’altra domanda a cui possiamo rispondere senza sensi di colpa.

“Scrivi per essere morto, per parlare fuori dal tempo, per farti a tutti ricordo. Questo per altri, ma per te? Essere per te un ricordo, molti ricordi, ti basta? Essere Paesi tuoi, Lavorare stanca, Il compagno, i Dialoghi…?”. Cesare Pavese poteva diluirsi nei suoi paesaggi, sdoppiarsi nei suoi adolescenti, sentire il mondo dalle sue prostitute, ma non poteva conoscere l’unica cosa negata a uno scrittore: non poteva capire il senso dei propri libri. Penso a La luna e i falò, a Tra donne sole, a Verrà la morte e avrà i tuoi occhi e mi piace immaginare che persino la ragazza del café chantant avrebbe risposto: “Certo, musone, questo è già abbastanza”.

*Questo testo è raccolto con il titolo “Las palabras, las mujeres y la muerte” nel volume: Abelardo Castillo, “Diarios 1992-2006”, Alfaguara, 2019 (pp.79-82). Traduzione di Matilde Guerra con la supervisione di Mercedes Ariza

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