21 Novembre 2024

“Perennemente scisso, l’uomo è condannato a un’esistenza errabonda”. L’orrore del doppio: da Hoffmann a Calvino

Il concetto freudiano di perturbante (Unheimlich) si svela in una luce ancora più affascinante quando consideriamo il suo legame con il teatro classico, dove la mimesi, la ripetizione e la distorsione della realtà sono temi ricorrenti e fondanti. Nel pensiero freudiano, il perturbante non nasce dalla mera novità dell’ignoto, ma dall’affiorare di ciò che già apparteneva al nostro mondo interiore e che è stato rimosso o dimenticato. In effetti, in Das Unheimlich, Freud afferma con precisione:

“Ciò che è perturbante non è qualcosa di nuovo, ma qualcosa che è stato rimosso dalla coscienza e che ritorna improvvisamente nella sua forma originaria. In altre parole, è ciò che è stato un tempo represso”.

L’idea che il perturbante afferisca al ritorno di ciò che è stato rimosso, risuona potentemente con il tema dell’anagnorisis nel teatro greco, Il “riconoscimento” che svela una verità nascosta o dimenticata. Nella Orestea di Eschilo, ad esempio, il ritorno di Oreste segna l’inizio della catarsi, ma anche dell’orrore, del perturbante. Oreste, figlio di Agamennone, ritorna dopo aver ucciso la madre Clitemnestra, ma il suo ritorno non è mai un atto di pieno riconoscimento, bensì un’esperienza carica di angoscia, in quanto si confronta con l’omicidio filiale. Il suo agire è il ritorno di un atto che gli appartiene ma che lo trascina nell’orrore dell’inesorabilità della vendetta, che rende ogni azione un gesto perturbante, ambiguo (doppio) e che inficia tutto un ordine morale e familiare.

La nozione di perturbante in Freud appare particolarmente topica in relazione al doppio: altro tema ricorrente nel teatro classico. Il doppio, come in Freud, non è semplicemente una replica dell’altro, ma una distorsione, un riflesso non più riconoscibile, un’ombra che nullifica la possibilità di un’identità stabile. Pensiamo alla figura di Edipo, protagonista della tragedia di Sofocle, che affronta il doppio del destino: quello che si svela come una verità tragica, ma che si riverbera sinistramente nel suo stesso agire. La sua ricerca della verità lo conduce a scoprire che, nel tentativo di sfuggire al destino profetizzato, egli ha in realtà compiuto l’atto che avrebbe voluto evitare, scatenando così la catarsi e il perturbante.

L’elemento perturbante del mito di Edipo è che il suo destino è, in ultima analisi, la distorsione e compromissione della sua stessa ricerca della verità. In altre parole, la sua mimesi del doppio non è in nessun caso una pura ripetizione, ma un ritorno deformato dell’inatteso, un incontro con se stesso che non è lineare, diretto e rassicurante ma esperienza alienante. Nel momento stesso in cui Edipo agisce per sventare un esito, in realtà lo invera e gli va incontro, e sarebbe bene, a questo proposito, interrogare il concetto di coazione a ripetere.

Il ritorno dell’elemento rimosso appare nell’arte del teatro anche attraverso il motivo del travestimento o della metamorfosi, in cui la manomissione dell’aspetto fisico rappresenta la trasfigurazione della verità interiore, una alterazione che crea frattura tra visibile e invisibile, tra identità esterna e identità interna. Nelle Baccanti di Euripide, Dionisio, che personifica l’elemento dell’estraneità, del mistero, della dismisura e del sublime incarnato nella frenesia, fa ritorno nella città di Tebe, ma lo fa travestito da straniero. La sua presenza non è solo una rivelazione di una divinità rimossa, ma un incontro con una forza che non può essere riconosciuta, una potenza che agisce destabilizzando i confini tra umano e divino, razionale e irrazionale.

Freud scrive:

“L’automa, come l’immagine di una persona che non si riconosce più nel proprio riflesso, ci restituisce una distorsione di ciò che è familiare, ma che nella sua distorsione ci spinge a percepire senso di ineluttabilità e paura”.

La presenza di Dionisio a Tebe non è mai completamente rassicurante: il ritorno di una divinità, che si presenta sotto forma di straniero, sfida ogni categoria del conosciuto (mette in crisi il Principio di Identità stessa quale assioma inderogabile) creando un contesto di smarrimento che è intrinsecamente perturbante. Il ritorno di Dionisio è una distorsione della familiarità; egli porta con sé non solo una presenza estranea, ma anche il riaffiorare di ciò che è rimosso, come la parte irrazionale e incontrollabile della psiche umana. Dionisio sfida le leggi del Lògos e instaura un regno magmatico che porta in emersione il perturbante, in analogia con le dinamiche di una psiche che, attraverso la repressione, maschera gli aspetti percepiti e li fa riaffiorare in contesti inattesi e disturbanti ma topici in quanto a eziologia del trauma e ripetizione del suo contesto.

Questa relazione tra distorsione mimetica e perturbante viene ulteriormente approfondita da Emanuele Antonelli, il quale, in Considerazioni mimetiche su Il perturbante, sottolinea come la mimesi, che in molti ambiti ha come fine l’imitazione “rassicurante”, diventa, quando distorta, il veicolo del perturbante. Antonelli afferma che essa, nel suo carattere dissonante, non è mai una replica perfetta dell’originale, ma una deformazione che crea senso di alienazione, simile alla percezione del doppio. Nel teatro classico, questa distorsione mimetica è onnipresente. Nelle Metamorfosi di Ovidio, poi, i personaggi vengono trasformati in figure estranee a se stesse, ma pur sempre legate alla loro natura originaria. Il loro ritorno a una forma alterata crea una tensione tra ciò che erano e ciò che sono diventati, tra l’identità perduta e quella ritrovata, proprio come il perturbante.

Infine, la riflessione freudiana su di esso si intreccia con il concetto di catarsi nel teatro classico, che è, in fondo, il processo di purificazione dalle emozioni perturbanti attraverso la loro espressione e comprensione. La catarsi, in tale contesto, sarebbe il risultato di un procedimento analitico che porta alla consapevolezza e alla rielaborazione di ciò che è stato rimosso, permettendo al soggetto di affrontare il represso riducendo così l’inquietudine. In tragedie come l’Elettra di Sofocle, l’azione di vendetta, pur essendo disturbante e piena di tensioni interne, porta a un riconoscimento e a una risoluzione emotiva che, pur non annullando il dolore, è incunabolo  di possibile liberazione. Così, la deformazione della realtà che il perturbante implica è anche il luogo di una catarsi psicologica, in cui la consapevolezza del ritorno del represso, del doppio e della mimesi alterata, può condurre a una rielaborazione che consegua la restaurazione di un equilibrio psichico, seppur instabile e mai definitivo; inquieto in quanto non risolutivo, perché come suggerisce Freud v’è un legame profondo tra Eros e Thanatos talché ogni tensione psichica mira al proprio annullamento e alla restaurazione di uno stato di quiete inerte, ovvero a un Nirvana sempre rivedibile e mai stabile.

Ora, Freud identificherà qualcosa di simile ai frutti della coscienza malata e risentita di Nietzsche, nel senso di colpa come qualcosa di atavico e originario rimontante all’uccisione del Dio-padre. Oltretutto vedrà bene come la coscienza altro non sia che un dispositivo di setaccio (cos’altro di più mediato?) degli stimoli che innescano una tensione energetica la cui cessazione, sempre provvisoria, sarebbe l’obiettivo principe di ogni forma vitale e assieme un anelito ad uno stato di quiete definitivo che mette Thanatos (Morte/Nirvana) in un rapporto di forza su Eros (Amore/libido/istinto di sopravvivenza). La famosa frase di Nietzsche “Dio è morto” diverrà nella psicanalisi l’originaria uccisione del Padre, e la colpa conseguente presso la liberazione di Eros innescata dai figli nel clan delle origini. Il complesso di Edipo diventa il paradigma per interpretare correttamente i riti di sacrificio e di sangue che erano all’origine della Morale e mezzo stesso del suo sopravvivere in Nietzsche, nonché alla formazione di ogni Stato di diritto in termini di colpa e pena da scontare, che avrebbe salvaguardato niente altro che le vittime. Ma se la vittima fosse priva di colpa? Se Cristo fosse l’incarnazione stessa dell’immolazione al Dio-Padre in assenza di colpe? Abbiamo qui un paradigma unico nel regno dei miti e delle religioni, in cui un singolo subisce una violenza mimetica senza pari, a ragione di non altro che la propria stessa innocenza.  Si capisce bene perché Nietzsche finì con l’essere ossessionato dalla figura di Cristo fino a dirsi egli stesso un “Dioniso” crocifisso.

Ciò che qui vi è di inedito è il sacrificio in assenza di colpa. Cristo è vittima e innocente. È, come scrisse Marcuse in Eros e Civiltà, la sintesi stessa della liberazione di Eros: Cristo è apportatore di un messaggio di liberazione, pace e redenzione come rovesciamento della “Legge” (dominio) da parte di “Agape” (Eros). Egli è un redentore della carne, quella stessa che costituisce un perturbante tale da essere fin dalle origini affermata attraverso il desiderio e poi negata attraverso la colpa. Ecco perché Cristo, significativamente, predica nei Vangeli il Perdono: esso altro non è che la rivoluzione di tutti i figli attraverso l’oblio del senso di colpa. Ed ecco perché costituisce una vera e propria eccezione alla Legge come dominio e a ciò che Nietzsche definiva morale dell’utile, egli non agisce che in modo oblativo, trabocca d’amore in maniera sorgiva e non è reattivo, ma direttamente dativo e assertivo di Eros senza lo spettro della colpa. Ma se questo suo messaggio evangelico consisteva di Agape-Eros contro il Governo del Padre e il “crimine primordiale freudiano”, non poté essere pienamente tale perché soppiantato da un altro crimine: quello sul Figlio. E attraverso la sua uccisione, che lo riponeva letteralmente accanto al Dio-Padre, sofferenza e repressione si perpetuarono nel Cristianesimo. Attraverso la sua transustanziazione anche il suo Vangelo fu transustanziato. Ed ecco che proprio come nel clan di origine si tributano ad Esso i più efferati Moloch di sangue.

Forse la colpa atavica del clan è sopravvissuta nel Cristianesimo nella forma di una volontà reazionaria nei confronti della rivoluzione dei figli, come un’incapacità fatale di riconoscerne l’innocenza e la stessa assenza di reali colpe da scontare?

Ora, l’inconscio è governato dal Principio del Piacere, comprendente i processi più remoti, primari, i residui di una fase di sviluppo nella quale essi erano la sola tipologia di processi psichici. Essi lottano esclusivamente per conquistare piacere. Col Principio di Realtà l’uomo apprende come rinunciare a un piacere momentaneo, incerto e distruttivo, in favore d’un piacere soggetto a costrizioni, differito ma d’un piacere “sicuro”. Freud considera eterna la lotta primordiale per l’esistenza, e crede quindi in un antagonismo perenne tra Principio del Piacere e Principio della Realtà: il convincimento che una civiltà non repressiva sia impossibile, è una pietra angolare della costruzione teorica freudiana.

“Oltretutto il Principio della Realtà impone una costrizione alla funzione cognitiva della memoria – al suo attaccamento all’esperienza passata di felicità che acuisce il desiderio di ri-crearla consciamente. La liberazione psicoanalitica della memoria sconvolge e distrugge la posizione razionale dell’individuo represso. Quando il conoscere cede il passo al ri-conoscere, le immagini proibite e gli impulsi proibiti dell’infanzia cominciano a proclamare quella verità che la ragione nega”.

(Marcuse, Eros e civiltà)

Anche sotto choc, cioè quando la coscienza è incapace a filtrare una sollecitazione esterna, emerge la volontà preconscia o proprio inconscia di ricostruire le condizioni dell’evento che è stato choccante. Ovverosia la volontà di ricreare il suo vecchio contesto e di ritornarvi ossessivamente. È una ripetizione di un identico che non si compie, a livello quasi destinale, che con un reiterazione della legge dell’uguale.

Il paragone con una Società e un Sistema che rimuovono esattamente come rimuove l’individuo nevrotico, resta d’obbligo. Le pagine rimosse della Storia più recente sono perlopiù violente, insensate, tali da dichiarare il sussistere di una terribile arbitrarietà del Potere di fronte alle esistenze singole come ai gruppi sociali, o nel caso delle guerre, a interi popoli. L’eterna lotta tra Eros e Thanatos si traduce in un Sistema tanto più repressivo quanto più gabellato per democratico e libertario. Vi è inoltre una sorta di assuefazione dei popoli, proprio come quella descritta da Machiavelli ne Il Principe, verso tale arbitrarietà, proprio come se creando dei precedenti e ripetendoli, per quanto terribili e violenti, vi fosse da parte del tessuto sociale una reazione “elastica” ed una progressiva normalizzazione di ciò che il Potere impone. Ma se il lato più oscuro, insensatamente crudele e sardonicamente spietato diventa impellenza a essere ripetuto dal singolo, chiamiamo in causa Il demone della perversità di Poe e scopriremo come esso sia elemento atavico e quasi incoercibile, che travalica ogni convenienza e ragione sensata come un impulso a ripetere il peggio assieme a ciò che può annullarci o comunque danneggiarci. Questo lato oscuro prende le sembianze del doppio nel racconto Mr. Wilson, dello stesso autore. Proprio là dove il doppio, lontano dall’essere identico al protagonista è ad esso uguale e incarna presagi funesti divenendo oggetto di ripugnanza nonché lesivo dell’identità e della serenità del protagonista. Il doppio è ciò a cui il protagonista è alieno e allo stesso tempo ciò che desidererebbe essere, la sua sicurezza in sé, il suo ardimento e la facilità con cui ha successo in ogni cimento divengono l’ossessione di questi ed egli ne è attratto almeno quanto inquietato e destabilizzato.

Il Wilson-doppio potrebbe essere una costola delle pulsioni e dei desideri più innominabili dell’originale, l’incarnazione del suo rimosso, lo scandalo che genera, nella forma della ripetizione, un destino di deriva e smarrimento e una contesa per il prevalere che si spegne solo con la morte di uno dei due. È interessante notare che Jung chiama il lato oscuro e sotterraneamente oppositivo della personalità “ombra”, ed essa è legata a doppio spago al concetto di doppio, che simboleggia la dualità dell’essere umano, l’ondivago movimento intercorrente tra conscio e inconscio, emerso e represso. Non è un’entità ontologicamente intesa, ma una zona del sé che deve essere integrata con tutte le altre per generare equilibrio nel processo di individuazione. Da Stevenson, passando per Conrad e Dostoevskij, fino a giungere a Pirandello e Calvino, il doppio è assieme qualcosa di fantasmatico, umbratile, e minaccia reale: lo specchio di una scissione e di un contrapporsi in dipolo degli elementi Bene/Male, Realtà/Apparenza, Consuetudine/Angoscia, Interiore/Esteriore, Veglia/Sogno, Scacco/Riuscita. Tanto vi è meno certezza negli eventi della vita, quanto più essa slitta fuori dall’identico. Tanto più la ragione si sforza di fare presa su di essa e sulle sue leggi, quanto più la vita le sfugge e pare una sciarada senza scopi. Qui come altrove il destino coinciderebbe col grande sommerso dell’inconscio, e la volontà, se non intesa alla Schopenhauer come energia irrazionale, inconscia e intrinseca alla natura nella forma di una pulsione orba e indefettibile, risulta espressione conscia della vita dal ruolo esiguo, marginale: il lume fioco della lanterna della ragione in Pirandello. La zona conscia, per usare questa metafora, è solo la punta dell’iceberg di un’identità psichica e delle sue manifestazioni.

Tutti i personaggi di Pirandello, sono identici in lotta contro mille uguali, e nell’era della serializzazione produttiva e artistica, culturale e politica, questi paradigmi sono lì a dire che essere se stessi è un miraggio, una chimera, così come la verità e la sua ricerca hanno un ruolo scivoloso e marginale, e forse perfino uno statuto di impossibilità intrinseco a ogni società e ordine morale e civile, di fronte alla simulazione e alla dissimulazione, al divenire fantasmatico delle identità entro una torbida mescolanza che porta alla sua sospensione con l’indefinito e l’indefinibile, con il proliferare degli uguali e scapito delle singole identità: questo non appartiene solo al terreno della mimesi e dell’imitazione, ma a una caratteristica ben più atavica della natura umana, cioè quella di essere ossessionata dai ruoli e dalla loro ripetizione ma ben poco rispettosa della fluidità intrinseca della vita.

Quella di Pirandello non è una maschera dionisiaca, liberatoria, ma uno sberleffo alla vita stessa, un cliché che si ripete stancamente, una recita senza fine, e l’impossibilità, in fondo, di essere se stessi fuori dalla logica del ruolo. Dobbiamo anche fare i conti con un altro spettro, nel giardino stregato di un’identità, che è in fondo un altro doppio nella forma della nostra incoerenza stessa. Ma diremo di più: se l’alienazione di Serafino Gubbio lo rende un’escrescenza del proprio strumento di lavoro, è perché veste un ruolo divenendo quel ruolo stesso: si interroghino a tal proposito gli “uomini seri” della Simone de Beauvoir in Per una morale dell’ambiguità. Abbiamo qui una pericolosa latitanza della responsabilità presso mezzi che siano relati ai fini, che è già di per sé un’eclissi dell’identità a favore di un ruolo, di una postazione, di un comparto; è in fondo La banalità del male della Arendt: Eichmann era un chiunque e chiunque poteva essere Eichmann, tale perché ripetitore inerte e mediocre di condizionamenti sociali, non un mostro invertito e da bestiario morale, ma un ometto comune e eterodiretto, nel quadro di un leviatano burocratico disumanizzante e di compartimentazione delle competenze spinte al diluirsi delle responsabilità fino alla loro insignificanza a livello di ciò che fosse espressione di reale volontà e autarchia valoriale, ovvero di scelta individuale.

Ne Lo strano caso del dottor Jekill e del signor Hyde di Stevenson, già il nome del doppio indica qualcosa di nascosto, recondito, ctonio, e la frattura tra un lato privato primitivo e violento e uno pubblico civilizzato e benevolo: allegoria del conflitto tra un sé sociale e uno inconscio che assume quasi una dimensione mitologica.

“L’uomo non è veramente uno, ma due. Io dico due perché le mie conoscenze non vanno oltre questo punto. Altri seguiranno, altri arriveranno oltre. L’uomo sarà in fine conosciuto per un nodo di vite disparate e innumerevoli, in conflitto l’una con l’altra”.

Il protagonista, isolando le sue due nature contrapposte come sostanze di laboratorio, ha reso il conflitto tra loro radicale e innaturale, un’iperbole catastrofica delle loro reciproche inclinazioni contrapposte.

In Conrad v’è la consapevolezza che la “ragione” possa sfociare nel suo esatto contrario ed è anche posta a epitome di un senso vasto nell’epigrafe della sua più fortunata novella (Cuore di tenebra): “Il cuore della tenebra è in ognuno di noi”. Questa riflessione suggerisce che l’oscurità, lungi dall’essere un fenomeno esterno, è una realtà ineluttabile e insopprimibile che si compenetra a ogni zona di apparente sola luce: Marlow stesso, pur raccontando le atrocità imperialistiche, non è immune dal fascino della follia di Kurtz. La sua stessa visione del mondo è contaminata e adulterata dalla “tenebra” che egli ha incontrato, e la sua testimonianza è ormai inevitabilmente fratturata: “La verità è un’ombra”, dice Marlow, consapevole che ogni interpretazione è, in fondo, fallace e non pari al suo compito di  fare una luce che sia definitiva e perspicua, e sulla natura umana e sul corso, fatto di ascesa e caduta, delle civiltà. In questa dinamica, il “doppio” non si limita solo a un conflitto interiore, ma si estende anche a una visione dell’imperialismo come espressione di un doppio standard morale. L’Europa si presenta come il faro della civiltà, ma sotto questa maschera nasconde una brutalità che travolge le popolazioni indigene. Kurtz, per esempio, quando dice: “L’orrore! L’orrore!”, vicino a varcare la soglia estrema, non sta solo riflettendo sulla sua caduta personale, ma sta anche esprimendo il terrore che l’imperialismo stesso comporta: una violenza senza giustificazione, una lacerazione di valori che si ritenevano sacri. La civiltà occidentale, così raffinata nella sua retorica, è la stessa che ha imposto un dominio di sangue e sopraffazione. Qui il doppio emerge come la contraddizione tra l’idealismo dichiarato e la realtà cruda del colonialismo, che non si limita a essere una mera espressione di dominio politico.

Tale tema è anche legato alla fragilità della realtà stessa. La narrativa conradiana non è mai lineare, ma frammentata, fatta di testimonianze parziali e prospettive multiple, che suggeriscono che la verità sia sempre sfuggente e inafferrabile. La realtà non è mai pura, ma è sempre mescolata a illusioni, ombre e menzogne tentacolari.

In Dostoevskij, invece, con Il sosia, si assiste alla vicenda di un anonimo impiegato pietroburghese, Goljadkin, la cui vita è sconvolta dall’apparizione di un proprio doppelganger subdolo e sbeffeggiante: frutto avvelenato di una scissione dell’Io tra l’ideale e l’ombra, tra la brama di autostima e il fallimento. È come se il sosia incarnasse un desiderio latente di affrancamento da fili e legacci di convenzioni sociali e morali, ma anche un’identità detestabile e perniciosa, tale da minare, in Goljadkin, ogni sicurezza e fiducia in sé, ogni autostima… Spregiudicato e sicuro nell’ottenimento di ciò che vuole, è il tormento e l’annichilazione di un uomo mediocre che vive una vita non sua, spersonalizzata, piccolo ingranaggio di un meccanismo burocratico che annienta ogni declinazione individuale, schiavo di convenzioni e di rigore opprimenti, e che diviene oggetto di un dileggio spietato perpetrato da quella che altro non è se non una proiezione della sua psiche, una scheggia impazzita di essa. Il finale è agghiacciante, il protagonista si dissolve e diviene meno reale della propria proiezione:

“Come un fantasma, Goljadkin si sbiadiva, lasciando al suo posto un’ombra ridicola e patetica, l’ombra di un ombra, l’eco di un’esistenza che mai fu sua”.

In Calvino, il tema del doppio acquisisce una dimensione quasi epica e filosofica assieme e disegna l’allegoria di una frattura ontologica e un’incompletezza dolorosa con Il visconte dimezzato; con Il cavaliere inesistente, invece, quella di un’esistenza che è una “forma senza essenza”, scevra di ogni difetto e conflitto, ma anche spogliata di una vita interiore: identità artificiosa e sterile che non conosce né l’errore né la complessità e la profondità di una vita vera e propria, è solo una serie di azioni senza la regia di un Io, un riflesso delle aspettative sociali, il fantasma di un’idea fattosi armatura: doppio, senza sostanza, di un’idea astratta.

Ma per venire a un classico circa la natura del doppio, affrontiamo i Notturni di E.T.A. Hoffmann. Qui esso fa la sua comparsa come arcano, immagine allucinatoria e carica di angosce e conflitti che hanno ascendenze funeree e polisemiche. Hoffmann evoca la scissione dell’Io in una presenza spettrale e spaventevole, una figura arcaica e quasi demonica che si erge come simbolo delle oscure profondità della psiche. Nel racconto L’uomo della sabbia, l’ossessione di Nathanael per l’inquietante figura di Coppelius si palesa come un “anancastico” impulso, un desiderio cieco e implacabile di sprofondare nei recessi delle proprie paure più arcane.

“Nathanael scrutava Coppelius come il sinistro emblema di un’angustia intima e di un desiderio innominato che lo corrodeva, in quanto l’altro non era altro che un riflesso distorto del suo stesso Io alienato”.

L’inquietante figura di Olimpia, automa che Nathanael ama con devozione quasi ieratica, rappresenta un’emanazione fallace e perturbante della psiche del protagonista, che in lei vede una sorta di controfigura algida, impersonale, spogliata di ogni autentica vitalità. Hoffmann scrive che Nathanael, perduto nello sguardo inespressivo di Olimpia, intravede

“una scintilla artificiale, un alito quasi trascendente e insieme meccanico, come se ella appartenesse a una dimensione ultramondana, ma priva di un’anima tangibile”.

Olimpia è dunque l’immagine deformata, quasi parodica, di un desiderio inappagato, un simulacro di amore irraggiungibile che lo trascina in una spirale di follia e alienazione. Questo passaggio evoca una verità tutta neoterica, che è l’onnipresenza di ciò che è artificiale e un desiderio affiorante per esso, basti pensare, in questo ambito, ad alcune pagine critiche del Nietzsche più ispirato o alla poetica di Baudelaire che dell’artificiale si fa ampio carico e congegna una sua espressione poetica quasi idolatra.

Se nell’interpretazione di Freud, la perdita degli occhi corrisponde alla paura segreta dell’evirazione, nel racconto di Hoffmann, essi sono un’interessante chiave di lettura: prima amplificati dal cannocchiale fino a confondere finzione e realtà, fino a far coincidere l’oggetto del desiderio con un oggetto in senso fisico del termine e a delineare una forma (artificiale essa stessa) di presenza voyeuristica e proiettiva di vita, romanticamente divinizzante; e poi tali da cogliere una verità inoppugnabile almeno quanto terribile: Olimpia appare, infine, con orrore di Nathanael, come un pupazzo privo degli occhi. È il leitmotiv del racconto quello dell’occhio e della vista, tanto che Nathanael nei propri incubi è accusato da Clara, amata prima di Olimpia, di non guardarla, e quando volge lei lo sguardo vede la morte fissarlo con le amorevoli sembianze della ragazza. Mentre gli occhi di Olimpia (già il nome in tedesco evoca una forma di distacco) appaiono spenti, inespressivi, il suo gesto di suonare il piano perfetto tecnicamente ma privo di trasporto, e gli amici di Nathanael lo mettono in guardia rispetto a questa sua strana natura, ma Nathanael è un perfetto e autistico personaggio romantico che vede nel pupazzo una forma di perfezione che se anche priva apparentemente d’anima sarà lui a animare di vita attraverso un desiderio folle e cieco, testimone stregato di una realtà solo apparente e che è lui stesso a nutrire nella forma di un autoinganno.

Il doppio, nei Notturni, appare non solo come un’alterità paurosa e perturbante, ma come l’elemento che frantuma l’Io e lo precipita in una dimensione di smarrimento ontologico e metafisico. La presenza di esso rappresenta un’immanenza perturbata che destabilizza ogni certezza, dissolvendo l’individuo in un contesto caotico e inafferrabile. Questo aspetto emerge particolarmente in Il maggiorasco, in cui Hoffmann dipinge una scena iperbolicamente spettrale: il protagonista è soggiogato da un “altro sé” che si manifesta come un’apparizione gelida, un simulacro etereo e ambiguo, che sembra incarnare la sua stessa essenza priva di volontà. Hoffmann descrive così questa esperienza terrificante:

“Sentivo che in quell’altro me stesso viveva una fredda e arcigna essenza, scevra di vita, uno spettro ghiacciato che mi toglieva il fiato, pur imponendosi con una tangibilità così soffocante e ferale”.

Questo sdoppiamento rammenta la concezione del “perturbante” delineata da Freud, in cui il familiare si trasforma in qualcosa di estraneo e pauroso. Hoffmann, tuttavia, arricchisce tale fenomeno con una valenza lirico-esistenziale: la presenza del doppio simboleggia l’impossibilità dell’uomo di possedere una vera unità ontologica.

“È come se l’essere umano, perennemente scisso, fosse condannato a un’esistenza errabonda, alla ricerca di una totalità irraggiungibile e inarrivabile”.

Uno degli elementi più distintivi e seminali almeno quanto paradigmatici della narrativa hoffmanniana è la rappresentazione del doppio come una sorta di “rivolta dell’inconscio”, un’emersione degli impulsi più oscuri e inarticolati che sfuggono al controllo della coscienza. Nel racconto Il magnetizzatore, l’attrazione e la dipendenza del protagonista dal magnetizzatore – una figura cupa e quasi numinosa, capace di soggiogare la volontà altrui – rivelano la vulnerabilità dell’Io dinanzi alle pulsioni irrazionali che esso non è in grado di dominare. Hoffmann raffigura il magnetizzatore come una presenza nefanda, sinistra e imperscrutabile:

“Era il magnetizzatore come un nume oscuro, una figura ieratica e terribilmente ambigua che, con un solo sguardo, pareva capace di destare e inabissare fantasmi profondi e torvi, risvegliando i desideri più contorti e innominabili”.

La relazione con il magnetizzatore riflette la latebrosa pulsione dell’individuo verso l’autodistruzione e l’abbandono alla propria ombra interiore, come se il doppio fosse emanazione di una brama cieca e irrefrenabile di dissoluzione. In questo sdoppiamento, Hoffmann suggerisce che esso rappresenti una sorta di “ritorno del rimosso”, un simbolo delle forze inconsce che il soggetto tenta invano di reprimere, ma che emergono sotto forma di visioni e figure inquietanti.

“Ogni volta che ci confrontiamo con il nostro doppio”, scrive Hoffmann, “scopriamo in lui l’indizio di un’abissale lacerazione, il segno di un’ineffabile dissidenza dell’Io, una tensione che ci spinge ad affrontare i recessi più inesplorati della nostra anima”.

Proprio nei Notturni, il doppelganger diviene simbolo oscuro e profondo, emblema dell’instabilità ontologica, della sua fluttuazione e dell’atomizzazione inestricabile che affligge l’individualità. Hoffmann non si limita a rappresentarlo come un espediente narrativo, ma lo utilizza come mezzo per indagare la natura ambigua e lacerata dell’essere umano. L’identità appare così come un’entità composita e incapace di attingere a una compiuta integrità e il doppio una presenza arcana e liminare,

“un arcano fardello, un indizio enigmatico che ci conduce verso l’ignoto, sospeso tra l’abisso dell’immaginario e le fosche certezze del reale”.

L’autore ci offre una visione dell’uomo come essere disgregato, eternamente in bilico tra verità e inganno, chiarezza e obnubilazione. Nei suoi racconti, l’individuo appare come un esule, un eremita dell’anima che vaga in cerca di una verità che rimane perennemente inafferrabile.

“L’essere umano”, sembra suggerire Hoffmann, “è destinato a rincorrere il proprio doppio, come in un eterno duello, sempre più in fondo nell’abisso della sua psiche, dove l’Io si sgretola in infinite ombre e rifrazioni, diventando un’entità sospesa tra l’incubo e il sogno, tra l’illusione e la desolante concretezza”.

Vale la pena di soffermarsi anche su una lirica di Baudelaire contenuta ne I fiori del male: I sette vecchi, in cui il tema del doppio è pennellato con rara intensità, evocando una processione di figure grottesche e spettrali che si ripetono come un’eco deformata della stessa angoscia. La rappresentazione dei vecchi non è mera moltiplicazione di sembianze, ma si delinea come una sorta di incubo senza riparo, un’allegoria della degenerazione e del naufragio dell’anima. Il doppio diviene simbolo di alienazione, espressione della conflittualità tra corpo e spirito, ideale e corrotto, e del pendolo incessante tra vita e morte descritto dal precipitare del tempo in ogni smarrimento straniante e perdita d’identità.

“Quei sette mostri / duplicavano il mio orrore…” Questa moltiplicazione mostruosa dell’orrore non solo inerisce l’aspetto ripugnante dei vecchi, ma amplifica l’angoscia che ingenerano: individui distinti, ma emanazioni della stessa essenza corrotta, proiettati come ombre su una città che è al contempo specchio e carcere. In questa ossessiva duplicazione, Baudelaire sottolinea la condanna dell’uomo a confrontarsi con la reiterazione delle proprie bassezze, una perpetua risacca di colpe che, come in un gioco di specchi, si amplificano all’infinito. Essi paiono camminare in eterno senza mai raggiungere né un fine né una redenzione.

Il poeta, dunque, evoca la dimensione del doppio come condanna eterna, un destino ciclico che irretisce l’uomo nella ripetizione dei propri errori, come se fosse intrappolato in un movimento incessante e senza scopo, entro una sorta di eterno ritorno del suo corrompimento e della sua disfatta. I vecchi non sono più soltanto figure tangibili, ma cenciose e corrotte proiezioni di un’anima in rovina, incarnazioni della disperazione di un’umanità che non può né avanzare né riscattarsi. Inoltre l’immagine di essi, la loro apparizione, è la ripetizione di un identico e quindi tale da destare sconcerto e paura detronizzando l’assioma degli assiomi del pensiero occidentale, ovvero Il principio di identità. Esso diviene qui revocato assieme alla sua rassicurante verità designata a distinguere: atto principe di ogni espressione cognitiva e di pensiero.

Abbiamo visto che il ripetersi dell’identico ingenera scandalo e terrore e il doppio simboleggia un confine violato e una zona d’ombra che ridestare assume i caratteri della minaccia; e questo lato così poco familiare e rassicurante è espressione di smarrimento di una terra patria dell’anima e, in fondo, del grembo materno. L’origine manca di statuto e non consola più là dove a ridestarsi è il trauma, il celato.

Massimo Triolo e Giusy Capone

*In copertina: Odilon Redon, Perversité, 1891

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