Stava lavorando all’adattamento di un romanzo di Vasco Pratolini, Lo scialo. L’ultimo lavoro. Quello che avrebbe chiuso il cerchio. Il primo lungometraggio, prodotto dalla Lux nel 1954, era tratto da un altro romanzo di Pratolini, Le ragazze di San Frediano. Novembre 1981: la rivista francese “Cinématographe” contatta Valerio Zurlini. Il grande regista detta un requiem del cinema italiano, reo “di essersi venduto” agli americani, di mettere in scena affari poco interessanti (“noi italiani parliamo una lingua che non interessa nessuno, anche le nostre problematiche sono poco interessanti… siamo conosciuti per i nostri difetti atavici e non per le nostre qualità”), di essere arzigogolato e noioso (“i film di Nanni Moretti… non riesco a capirli”), sorretto da una critica ideologica, sparuta, spazientita, bieca (il decantato Moravia? “Le sue critiche sono le valutazioni di uno scrittore, non di chi comprende davvero il cinema”). Sintesi: “gli italiani sono imbecilli”. Durante il fascismo, continua Zurlini, esteta del paradosso, andava meglio, “e sapete perché? Perché Giuseppe Bottai, il ministro fascista della cultura, era più intelligente di quelli che ci governano oggi. Anche Alessandro Pavolini, ministro della Cultura popolare, capo del fascismo repubblicano, che venne fucilato insieme a Mussolini, era un uomo di cultura raffinata e consentì a Luchino Visconti di girare Ossessione”.
A parlare è un regista roso dall’amarezza e dalla solitudine, “autore di un cinema ‘silenzioso’, attento alla psicologia dei personaggi… uno dei registi più importanti e meno noti della sua generazione” (Francesco Zippel), che morirà di lì a poco, il 26 ottobre del 1982, quarant’anni anni fa, e che ha firmato l’ultimo film importante nel 1976, Il deserto dei Tartari. A dire di Pier Vittorio Tondelli, Zurlini aveva perfino il talento sconvolto dello scrittore. Nella sua eccentrica, ambiziosa, donchisciottesca antologia di “immagini letterarie… della riviera adriatica” – raccolta nel 1990 in Ricordando Fascinosa Riccione, sorta di nuovo paradigma del ‘canone’ – PVT antologizza, tra Bassani e Comisso, Alberto Arbasino, Giovannino Guareschi e Cesare Zavattini, alcune pagine di Zurlini tratte da Gli anni delle pagine perdute (in particolare: La prima notte di quiete di un Lord Jim casalingo), “diario delizioso non meno che inquietante”.
Quarant’anni prima della livida intervista rilasciata a “Cinématographe”, nel 1951, Zurlini girava i primi corti e si dava al teatro. Scrittore già smaliziato, venticinquenne, Zurlini, spedisce al Premio Riccione un testo buttato giù insieme a Lucio Chiavarelli. Il Premio Riccione era noto per pagare bene e per beccare giovani talenti: alla sua prima edizione – varata per premiare il romanzo “sociale” –, nel 1947, aveva scoperto un allora ignoto Italo Calvino, che si era presentato con Il sentiero dei nidi di ragno. Zurlini griffa la pièce come Storia senza titolo. Il motto è più esplicito: I mostri. Il testo è un dramma da camera, ambientato nel “salotto borghese, dai colori morti” di una casa anonima, “in una cittadina sul mare, una di quelle piccole città di provincia che nel periodo estivo vivono un loro fugacissimo splendore ai giorni nostri”. Lì si consuma, con violenza esistenzialista, il disfacimento di una famiglia. Imostri cui si riferisce il titolo sono i figli, affetti da una deformità-disabilità inspiegata, di Ida e Giorgio, chiusi a chiave in una stanza di casa, invisibile. La mostruosità della prigionia familiare, degli affetti frustrati, il tabù dell’incesto, la sovversione della carne sono i temi che agitano nel sottosuolo il testo. A tutto ciò si ribella Barbara, la figlia sana, agita da un insano desiderio di fuga e di sesso, che vuole bruciare ogni cosa e che obbliga gli amanti a un rito perverso: se la vogliono, se vogliono godere di lei, prima devono aprire la stanza dove stanno i mostri e vincere l’orrore che si prova a vederli. Naturalmente, nessuno dei pretendenti sa superare l’atavico orrore prodotto dai mostri.
I motivi capitali sono quelli del corpo privato e del corpo ‘sociale’, del corpo defraudato, del corpo impaniato di deformità. Barbara è aliena all’egida rivoltante – a suo dire – della maternità, ai vieti riti del matrimonio borghese – “Non so, non saprò mai essere la madre dei figli che desideri e che continuamente fai apparire nella nostra vita futura. Ne ho terrore. Ho sempre rifiutato di sposarmi per questo motivo”, dice a uno spasimante – perché ritiene la propria nascita un abominio: “La mia nascita è stata un vostro errore, me ne rendo conto, oggi”, urla alla madre.
“Al mio posto poteva anche nascere un altro mostro! Come quelli, come quelli! Come puoi pretendere che ti voglia bene? Io non posso chiamarti mamma; mi hai dato un destino troppo crudele…”.
Il testo, dal fascino plumbeo e plebeo, violento, è molto più bello ora di quanto apparve allora. È vero: in Francia c’erano già stati Camus – La peste esce nel 1947 – e Drieu, la ‘Medusa’ Mondadori pubblicava, con agio, in quegli anni, i libri di Sartre e di Julien Green, con atmosfere ascrivibili al ‘pezzo’ di Zurlini: Hollywood, però, premiava i classiconi – l’Amleto di Laurence Olivier – e i film ‘politici’ – Tutti gli uomini del re di Robert Rossen – mentre lo Strega onorava il plumbeo apollineo Pavese, con La bella estate. Il testo di Zurlini, pur prolisso, del tutto narrativo, è dotato di un’inquietudine allora inedita, inaccettabile:
“Il passato non lo abbiamo costruito noi. Noi non lo abbiamo voluto. Eppure pesa su questo presente. Spesso si nasce con la propria sorte già segnata. Ma se questo male ci ha perseguitati e noi non abbiamo fatto nulla per meritarlo, ci si può condannare? Ci si può togliere la possibilità di vivere? Non si deve invece venirci incontro, sollevarci, aiutarci a dimenticare? Non può non essere così… Il passato ci segue come una condanna, non ci abbandona mai”.
Sergio Pugliese, già segretario del Partito Nazionale Fascista di Ivrea, poi brillante dirigente in Rai, giudicò I mostri “abbastanza interessante”, ma la giuria del Premio Riccione, in cui figuravano, tra gli altri, Lorenzo Ruggi, Raul Radice, Vito Pandolfi, lo scartò. Quella edizione del Premio baciò Tullio Pinelli, già noto autore per Pietro Germi e Federico Fellini, con Gorgonio; tra i segnalati spicca il nome di Enzo Biagi, che tentò la via della drammaturgia prima di diventare giornalista. Il testo di Zurlini, così, fu trapiantato nell’oblio, dove giace ancora oggi, inedito. Il regista, tuttavia, continuò a frequentare Riccione e Rimini, le città di provincia dalle folgoranti effimere, innamorato della torbida malinconia del mare d’inverno – la leggenda racconta che si giocasse tanto, troppo in epiche partite a carte –, dove ambientò i film più celebri, Estate violenta (1959), La ragazza con la valigia (1961), La prima notte di quiete (1972). Quanto a Lucio Chiavarelli, fu regista teatrale – nel 1956 al Gobetti di Torino debutta con Una donna senza importanza di Wilde – e scrittore per il cinema, curò opere di Ibsen, Balzac, Jules Verne, Laclos e Wilde, appunto.
Imostri, piuttosto, opera primaria, allucinata, mostrano che lo scrittore deve sondare sempre la tenebra di ogni creatura, snidare il nodo irrisolto, e sporgersi là dove nessuno vuole, fissare l’inguardabile, il gorgo inguaribile. L’abietto è l’autentico eletto, sembra dirci Zurlini, la vita, senza sconti, va scontata, come dice Ida alla figlia:
“Tutto quello che v’è di più nauseante tocca a me. Nutrire, pulire, osservare questo segreto che non deve essere violato. Mi sono abituata a loro, mi sono resa conto che nulla, mai, avrebbe potuto modificare quello che la natura ha voluto. Scontiamo”.
Cingere il mostro nelle segrete dell’inganno. Vivere da violati, volitivi nel giuramento. L’agnizione è perfino ovvia: gli unici mostri sono quelli che animano il cuore dei normali, dei normati:
“Ora ho trovato i mostri che vivono in noi, in ogni nostro calcolo, in ogni gesto, in ogni pensiero…”.
Formidabili figure di perduti, nei meandri della sfinge, al di là dello zuccherificio odierno che a vende, un po’ a tutti, una inqualificabile, sconfitta, patente per essere ‘speciali’. Piuttosto, si sboccia morendo a se stessi.
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Si ricalcano alcuni brani da “Storia senza titolo”, ovvero, “I mostri”, testo finora inedito di Valerio Zurlini e Lucio Chiavarelli.
“Sempre, sempre sono stata ossessionata dal pensiero dei fratelli, dalla responsabilità che la loro presenza in questo mondo mi imponeva, mi impone. Perché io non saprò mai separarmi da loro… Ho compiuto mille piccole azioni inutili per stancarmi, per poter arrivare a casa e gettarmi sul letto con la certezza che il sonno sarebbe venuto presto. Sono stata al fiume, sono scesa verso l’argine laggiù dalle parti della stazione vecchia; i rami degli alberi sembravano tante bianche matite ghiacciate con le nebbie della sera; disegnavano una tela di ragno contro quell’azzurro cupo… Vedi? Mi diverto a costruirmele da sola queste blande immagini di poesia a buon mercato… Ho pensato ad una Barbara ricca di quel diritto che la giovinezza concede anche ai diseredati, il diritto di illudersi, di conservare tutte le illusioni, le speranze”.
“Tutto quello che v’è di più nauseante tocca a me. Nutrire, pulire, osservare questo segreto che non deve essere violato. Mi sono abituata a loro, mi sono resa conto che nulla, mai, avrebbe potuto modificare quello che la natura ha voluto. Scontiamo”.
“La mia nascita è stata un vostro errore, me ne rendo conto, oggi. Al mio posto poteva anche nascere un altro mostro! Come quelli, come quelli! Come puoi pretendere che ti voglia bene? Io non posso chiamarti mamma; mi hai dato un destino troppo crudele… Odio quella che diventerò e che vedo riflessa in te: nei tuoi occhi, nel tuo modo triste di parlare, nella piega delle tue labbra”.
“Il passato non lo abbiamo costruito noi. Noi non lo abbiamo voluto. Eppure pesa su questo presente. Spesso si nasce con la propria sorte già segnata. Ma se questo male ci ha perseguitati e noi non abbiamo fatto nulla per meritarlo, ci si può condannare? Ci si può togliere la possibilità di vivere? Non si deve invece venirci incontro, sollevarci, aiutarci a dimenticare? Non può non essere così… Il passato ci segue come una condanna, non ci abbandona mai”.
“Non so, non saprò mai essere la madre dei figli che desideri e che continuamente fai apparire nella nostra vita futura. Ne ho terrore. Ho sempre rifiutato di sposarmi per questo motivo. Ora sai tutto di me”.
“Sapevo che saresti nata femmina. Quando si aspetta un figlio, ci si illude. E tutto quello che doveva essere in seguito il tuo destino, scomparve, per lasciar posto solo a promesse. Ti volevo felice. Capisci ora tanta parte del mio egoismo. Si è egoisti quando si ama, perché anche la persona amata è una parte di noi stessi. E tu avevi raccolto tutto l’amore che non avevo potuto dare ai tuoi fratelli… La vita non è finita. Tutti i colpi che essa può dare, anche i più duri, servono in questa tormentosa ricerca di noi stessi… Hai ancora in te tutto un mondo pieno di cari e vuoti inganni”.
“No mamma. I mostri sono morti. Ma qualcosa di peggio è sopravvenuto. Una aridità che presentivo e che mi terrorizzava. Ora ho trovato i mostri che vivono in noi, in ogni nostro calcolo, in ogni gesto, in ogni pensiero…”.