“Tutta la mia anima è un grido”. Con Kazantzakis, alle Termopili dello spirito
Libri
Francesco Subiaco
Ha poco più di un anno, Georgij Efron, il figlio di Marina Cvetaeva, il 13 maggio 1926, quando irrompe nel carteggio fra lei e Rilke, amato per corrispondenza.
«Ti scrivo sulle dune, tra sottili fili d’erba. Mio figlio (un anno e tre mesi, si chiama Giorgio – in omaggio alla nostra armata bianca) si è seduto a cavalcioni su di me (quasi sulla testa!) e tenta di togliermi la penna».
Aspirante scrittore, poeta, traduttore, Georgij, detto “Mur” – dal gatto dei racconti di E.T.A. Hoffmann – riceve in dote la penna, dalla madre, come arma di sopravvivenza, destinato com’è a una vita evocata su carta, un’esistenza di scarni rapporti umani, ammantati di inesauribile quanto doverosa cautela. Figlio di un fato poco devoto, i cui tentativi di sfuggire alla sorte tracciata dal materno portamento affondano ripetutamente come sassi.
*
Gli echi della sua infanzia risuonano nelle parole che la madre rivolge parimenti all’amato Pasternak – a cui Georgij è inconsciamente consacrato –, che lo definisce affettuosamente “un piccolo Napoleone”. Così, Marina, il 21 giugno 1926, gli scrive di lui:
«Mur cammina ma – pensa! – solo lungo la spiaggia, tracciando cerchi, come un astro. In casa e in giardino non vuole: provo a metterlo in piedi e non cammina. Al mare, invece, mi scappa via dalle mani e gira in tondo senza posa (e cade)».
*
Sole dei giorni della madre Marina, è lei, creatura lunare, ad eclissarne irrimediabilmente i bagliori, il 31 agosto 1941, quando, ormai espropriata della sua esistenza poetica – impotente di fronte al nuovo ordine quotidiano di una Russia che l’ha abbandonata a se stessa – abdica anche da quella terrena.
«Sono moscovita, mio padre ha fondato il Museo delle Belle arti, sono poetessa e traduttrice, ho quarantasette anni e a Mosca non c’è posto per me».
Il tempo, cruciale, che ruota attorno a quelle fatali ore che cavalcano il finire dell’estate, è ripercorso da Mur nel suo diario di adolescente – di cui le edizioni Magog/Pangea pubblicano una selezione di brani, inediti in Italia, nel volume Grida dai tetti il suo amore per me – rivelando l’amara concretezza di dettagli inesplorati e deliranti percezioni.
*
Introdursi fra le pagine di un diario è come entrare in una stanza privata senza permesso, profanare il calore di un letto altrui, stanare un nascondiglio. A sedici anni, Mur scrive per fuggire da sé, dalle aspre contingenze, dal boato di una guerra che spacca i vetri delle finestre e dalla lotta interiore della pubertà, con i suoi primi, venerei ardori. Il diario diventa un alloggio segreto, una stanza nella stanza, una zona franca in cui a prendere forma è l’individuo, nell’epoca in cui l’interiorità non appartiene più al singolo.
Le sue annotazioni durano il guizzo d’un lampo, il linguaggio – a tratti esitante e smarrito in dedali di infantili ridondanze – contrasta con una poderosa consapevolezza da homme du monde, con il tono disinvolto, talora crudo, gergale, privo di censure morali, libero nell’espressione critica, politica, licenziosa, nell’attacco alla volgarità della morale piccolo-borghese, che rivela una precoce quanto brutale vis polemica.
«Ho letto l’ottimo libro di Montherlant, Aux fontaines du désir, un libro che soffre un po’ della malattia del secolo degli intellettuali europei, ovvero la mancanza di occupazioni tangibili. Il che significa che i problemi vitali che, ad esempio, in Russia predominano (cioè cosa mangiare e come pagare il gas), sono esclusi dai loro libri, cosa che per noi, che siamo a caccia di denaro, risulta un po’ irritante».
*
Scrive, Mur, anche per prendere le distanze dall’inconcludenza della madre Marina, di viscerale insofferenza, dalla sua eterna indecisione, dal lamento perenne che è cifra distintiva del suo essere. L’atmosfera suicida pervade l’intero diario.
«Mia madre ha perso la testa. Non ne posso più. Sto vivendo, effettivamente, in un’atmosfera terminale. […] Piange e parla di suicidio; la situazione è terribile».
Incipit di un epilogo, nel diario di Mur la fine è vaticinata sin dal principio, dalla prima pagina.
Inizia a redigerlo nel 1939, quando la Cvetaeva interrompe i suoi taccuini, appena giunti in Russia da Parigi – la città più amata, compagna d’infanzia, a cui dedica le giovani poesie (tradotte nell’ultima sezione del volume) – e, nei passaggi più informali, il francese prende il sopravvento sul russo. Aveva infatti speso i primi anni di vita in Francia, Mur, parlando russo con i genitori e francese a scuola e nel milieu parigino, dove la madre – che a Parigi aveva finito per vivere come un’esule – insegnava ai figli l’esercizio quotidiano della scrittura – diari, saggi, poesie – come modalità di istruzione. Ed è qui che Mur si cimenta con le prime traduzioni, a partire da quelle di Simenon. Nel diario, l’influenza della madre è titanica e tangibile, la sua presenza, sempre costante, ancor di più dopo il suicidio. L’assenza si fa palpabile.
*
Il journal di Mur risulta compiutamente antiletterario – non viene certo redatto per essere dato alle stampe – e la lettura diventa un gesto di ineducata invadenza. Va sfogliato in maniera misurata, rispettosa della duplice natura del suo autore, quella di ragazzo e di figlio della poetessa Cvetaeva. Si nutre del fiore della poesia russa del ventesimo secolo, ‘Mur’ Efron, frequenta casa Pasternak, nei momenti di difficoltà si rivolge ad Anna Achmatova, all’Unione degli scrittori russi, sorbisce tazze di tè nei salotti di Marietta Šaginjan, ma nonostante tutto vive come un orfano. Di sé stesso e degli altri. Latitante dal mondo. Padre e sorella – Sergej e Ariadna Efron – sono stati arrestati, la madre, Marina, la cui voce poetica è annientata dalla nuova realtà sovietica, ha deciso per l’amputazione di sé, mutilando al contempo ogni speranza, per suo figlio, di una vita simmetrica.
Unico testamento, una lettera d’addio:
«Mourrlyga! Perdonami. Ma se fossi andata avanti così sarebbe stato peggio. Sono gravemente malata, non sono più me stessa. Ti amo alla follia. Capiscimi, non potevo continuare a vivere».
*
Le nuvole in cui vaga Marina diventano il suolo su cui Mur posa i passi, cercando la vita dappertutto – nemesi di sua madre – inseguendola, senza sosta, nelle strade e nei libri, questi, vera eredità materna. Paul Valéry, Corneille, Racine, Esenin, Dos Passos, Achmatova, Gide, sono le uniche risorse concrete cui aggrapparsi, mentre tutto, dentro e fuori, è dilaniato. Nelle pagine del diario, una disperata lucidità si alterna a momenti di forzato ottimismo e l’accecante sensibilità di Mur si concede limitate sbavature, come i moti di rabbia nei confronti di sua madre Marina, freddamente insensibile agli scontri generazionali.
*
Quello di Mur Efron è un diario di confine. Con la potenza di un documento storico si fa spaccato di vita sovietica, delle burocratiche maglie da kafkiana organizzazione della vita pubblica, si affaccia alla frontiera della letteratura. Assiduo lettore della stampa internazionale, Mur analizza l’evoluzione della politica estera, si interroga sull’arresto dei suoi familiari, sulle attività di suo padre come agente segreto, sugli amici di famiglia incaricati di sorvegliarli. Predice il disastro senza profetiche velleità, ma annotandone minuziosamente tutti gli eventi precursori.
*
«Sospetto di essere un idealista vecchio stile, che si lamenta di non avere amici, che tutti considerano un uomo duro, riflessivo, freddo. In effetti, un ruolo del genere non mi si addice. Ho una tale morale, sono così indipendente, così risoluto, e improvvisamente mi lamento della mia solitudine! Dai, devi essere più forte di così, saperti “ritrovare in te stesso…”, ecc. Sono pensieri che vanno benissimo in linea teorica e raggiunta una certa età… Ma io sono giovane e mi sento come se stessi perdendo irrimediabilmente la mia età dell’oro, la mia giovinezza. Si può parlare così quando si è invecchiati, quando tutto è concluso, sono parole da intellettuale che ha vissuto, e che ha trovato la verità nella contemplazione di sé, dei valori spirituali, ecc., ecc.; come Huxley o Aldington (Tutti gli uomini sono nemici), ad esempio. Loro hanno vissuto! E io sono in procinto di marcire nel migliore dei modi. […] Ebbene, attorno a me c’è il vuoto. Invece di frequentare una società sana, allegra, una buona società, passo il mio tempo ad analizzare me stesso, a soffrire, a passeggiare da solo, a perdermi in ogni dove. E soprattutto, soffro di complessi di inferiorità. Per strada si incontrano persone che vanno in giro in gruppi di amici, ecc. E poi ci sei tu, solo, stupido come i tuoi piedi. Posso anche essere colto, ben curato, perfettamente abbigliato, mediamente benestante, ma sono SOLO. Attorno a me, il vuoto. Divertente, vero? Beh, per niente. E, naturalmente, questa situazione non si estinguerà a breve. Vita, dove ti celi? Ti scorgo, a volte, nel cielo azzurro, in uno sguardo di donna, in un albero, nel sole, nella frescura della casa, nei suoi chiaroscuri… Ma mi sfuggi… E devo accontentarmi di una vita surrogata, incolore, priva di emozioni ed entusiasmo. Nessuno mi crederà davvero: “Come, non un solo compagno, non un amico? – Non uno, assolutamente nessuno”. Esatto, un surrogato di vita. Nessuna intensità. Solo noia. Vivo di amenità. È perché la mia vita personale è miserabile e pietosa che sono interessato a ciò che sta accadendo nel mondo. Ciò nonostante, non sono affatto pessimista, sono convinto che un giorno tutta questa ottusa solitudine avrà fine».
*
Una madre è quindi una condanna, forse una salvezza, sicuramente un enigma. Atto che oscilla fra egoismo e amore. E quello di congedarsi dalla vita, in un giorno d’estate, l’urlo di una madre che grida dai tetti il suo amore. Prima di scegliere il vuoto.