“Esistono spiriti liberi e coraggiosi a cui piacerebbe non ammettere che hanno un’anima a pezzi, tracotante, incurabile. A volte, impazzire è un travestimento, per chi ha certezze troppo infelicemente sicure”.
“Onde ora avendo a traverso tagliato questo Pagan, lo fe’ sì destramente, che l’un pezzo in su l’altro suggellato rimase senza muoversi niente; e come avvien, quand’uno è riscaldato, che le ferite per allor non sente; così colui, del colpo non accorto, andava combattendo ed era morto”.
(Francesco Berni, Orlando Innamorato, LIII, 60)
Nel capitolo III di Note di un anatomopatologo di Francisco Gonzalez-Crussi, edito da Adelphi nel 1991, intitolato “Inquieto aldilà”, il simpatico professore di Patologia alla North-Western University commette l’ingenuità di attribuire gli ultimi due versi qui in esergo al “Boiardo poeta italiano”, immaginando addirittura che a essere tagliato in due (con un’ascia, per giunta) sia il paladino Orlando invece di Alibante di Toledo, troncato con un colpo da maestro proprio a opera della Durlindana. Ma a Gonzalez-Crussi siamo pronti a perdonare tutto, tanto avvolgenti sono l’arguzia e il velato umorismo della sua godibilissima prosa, da scienziato moderno col dono dell’ironia. In quel capitolo il patologo parte dalla vicenda autoptica di un enorme satanasso deceduto in Canada:
«era un indiano d’America mezzosangue, membro di non so quale tribù. In quattro – due studenti, un inserviente d’obitorio e io – durammo lunga e strenua fatica prima di giungere a issarne il corpo sul tavolo autoptico. Sistemato che fu, la sua struttura da orso grizzly strabordava dal tavolo, e le braccia pendevano come querce abbattute, più grosse delle cosce di una persona normale».
Il gigantesco tagliaboschi aveva sviluppato un collo taurino, «ampio alla base più del diametro bitemporale», aveva spalle enormi e – pare – un carattere difficile. Quando un boscaiolo lo aveva accusato di aver imbrogliato a braccio di ferro contro due avversari, con «una pronta zampata sulla faccia gli stritolò il naso in minuti frammenti», e quando il tapino, una volta ristabilitosi, era tornato con lo schioppo e l’aveva innaffiato di pallini, il nostro colosso
«ancora trovò la forza di indirizzare all’assalitore un austero ammonimento sui guasti provocati dallo spirito di vendetta; non so in quali termini argomentasse, ma dovette addurre motivazioni assai convincenti, poiché il potenziale assassino non si riebbe più dalla lezione impartitagli, e quanto al nostro, non morì in questa occasione, ma si assicurò parecchi anni di riposo custodito in premio dell’impareggiabile sermone».
Scontata la pena, il sacripante s’impiegò al porto di Halifax come scaricatore e, viste le sue doti, trovò presto un nostromo che lo arruolò su un mercantile. Da quel momento
«imperversò in tutte le risse di taverna da Antofagasta a Macao. Incrinò crani asiatici, svelse denti americani, fratturò costole africane. Si fece tatuare per tutto il corpo figure di serpenti alati, odalische, motivi floreali, nonché l’emblema canadese della foglia d’acero, sormontato da un nome di donna. Quando tendeva i muscoli lavorando alle drizze, una fauna e una flora intere prendevano vita sulla sua epidermide, e le odalische ancheggiavano provocanti al ritmo delle trazioni esercitate nell’issare un carico. La sua nudità rabescata causava sensazione in ogni postribolo dell’Oriente. A Hong Kong, dove era solito assoldare tre prostitute per notte, queste una volta si accapigliarono per il simbolismo da attribuire alle sue pittografie cutanee, essendo la mente degli orientali sensibile più d’ogni altra ai messaggi che si celano nelle figurazioni ornamentali».
Ebbene, quest’uomo enorme e apparentemente invincibile finì per essere fatto fuori da un verme lungo pochi millimetri: la tenia echinococco, che gli s’introdusse nei tessuti, nel fegato e nel cervello e fece il suo lavoro.
La grande cicatrice attestava
«che nessun colpo vibrato da mano umana avrebbe potuto spezzare quel cranio, entro il quale avemmo accesso soltanto dopo un lungo e arduo lavoro di sega elettrica. Mi rammento, inoltre, che procedendo nella dissezione ci imbattemmo a più riprese in pallini da caccia racchiusi entro i tessuti; ve n’erano nei muscoli pettorali, nella pleura, nei polmoni, nel pericardio, perfino nel muscolo cardiaco, ovunque inglobati da una capsula di tessuto fibroso, mediante la quale l’organismo aveva efficacemente isolato i corpi estranei dal delicato ambiente circostante. (…) Quell’uomo aveva peregrinato e solcato i mari e fatto a pugni e fornicato per vent’anni, portandosi dentro quasi mezzo chilo di piombo».
Più avanti, andando indietro nei secoli, Gonzalez-Crussi risale al quinto libro della Historia Danica di Sassone Grammatico, dove i capi Assueit e Asmund si erano giurati fedeltà al punto da vincolarsi in un patto di ferro: se uno fosse caduto in battaglia, l’altro si sarebbe fatto seppellire con lui. Questo avvenne il giorno in cui Assueit fu ucciso, e trascorsi cent’anni, quando una banda di guerrieri svedesi decise di profanare il sepolcro per saccheggiarne il corredo, all’apertura dei macigni si udirono urla di battaglia e cozzar di spade. Dopo che uno dei profanatori s’era calato nell’avello per vederci chiaro, alla risalita della fune emerse il grande Asmund, che raccontò in versi drammatici il secolare combattimento col compagno d’arme, per poi crollare definitivamente. La sotterranea inazione dei due guerrieri era risultata tanto insopportabile che il defunto aveva ripreso le armi per sfogarsi a oltranza contro l’amico, «sino a quando Asmund pervenne a ricondurre l’esuberante compagno a una più consona immobilità, conficcandogli un bastone appuntito nel petto [il paletto di frassino dei vampiri? ndr]. Poi, quasi a voler scongiurare il ripetersi di un misfatto che aveva sfidato l’inumazione, il corpo di Assueit venne arso e le ceneri disperse».
Interessante è il capitolo V, dove si racconta di un giovane che, proveniente dalla media agiatezza della borghesia nordamericana, si era ridotto a dormire sotto i ponti o sui tetti, cibandosi di ciò che trovava nei bidoni dell’immondizia o rubacchiando nei supermercati, fino a sbronzarsi creando inciampo nelle strade cittadine e venendo raccolto da pubblici ufficiali che lo condussero al pronto soccorso più vicino. «L’esame della cute rivelava scabbia, malnutrizione, pigmentazioni locali, indicative di pellagra, e processi infettivi». Ma la cosa che creò raccapriccio fu la scoperta, in piccole cavità negli arti inferiori, di «minuscoli corpi ovoidali e biancastri, che si contorcevano con spontanei movimenti serpeggianti. La biopsia mostrò che i parassiti non erano altro che forme larvali della comune, onnipresente Musca domestica».
Sommo orrore, agitazione, rammarico fra il personale ospedaliero, per un simile stato di miserevolezza e abiezione. Ma l’autore ci avverte:
«Una tale umiliazione inflitta a un uomo dalla mosca è un fatto in apparenza poco comune, ma certamente non degradante. Capitava questa volta di assistere al conflitto tra un sovrano biologico e il suo vassallo naturale; ma chi interpreta il sire e chi ha la parte del vassallo?».
Tralasciando la genealogia mitologica, la difesa da parte di Sant’Agostino e le maledizioni di Lutero, che nel dittero vedeva il sibilo sinistro del Maligno, veniamo edotti sul fatto che la mosca, con i suoi occhi composti da migliaia di elementi esagonali, «raccolgono raggi di luce incidenti da una infinità di angoli e percepiscono non sappiamo quali indescrivibili iridescenze». La potenza dei nostri organi sensoriali, se messa a confronto con quella di molti insetti, risulta di gran lunga inferiore, tanto che la mosca vede nella banda ultravioletta dello spettro, dove l’uomo è cieco, ed è pure capace di vedere in luce polarizzata. Per non parlare della maggiore sensibilità alla pulsazione luminosa, dunque della migliore risoluzione visiva. I suoi occhi composti possono raccogliere un mosaico di migliaia di immagini e costruire una visione del mondo di cui noi non saremmo capaci, se non tentando la strada degli allucinogeni per potercene fare un’idea. È vero che l’uomo può creare sistemi filosofici e di pensiero, ma quando il terreno diventa quello di assicurare la sopravvivenza, la grande superiorità dei sensi della mosca chiude il discorso.
«Essa esiste dai tempi preistorici, molto prima dell’uomo, come risulta da testimonianze fossili che danno conto di ogni cosa, dalla strozzatura dell’addome alle venature delle ali, e ci sarà ancora molto dopo che l’umanità avrà cessato di esistere. Invero, coloro che dipingono la biblica Armageddon come una montagna di cadaveri, lasciati da guerra nucleare, carestie e pestilenze, dimenticano un particolare: a guardar meglio si accorgerebbero che l’ammasso di carcasse pullula di larve delle future mosche».
Nella sezione “Su alcune appendici del corpo” si osserva che Nikolaj Gogol’ si compiaceva di riuscire a toccarsi la punta del naso con il labbro inferiore, sfruttandone la forma a becco d’uccello; a quel punto l’autore ci ricorda che della “olfattività” di Gogol’ aveva scritto Vladimir Nabokov sulla rivista newyorchese New Directions nel 1944, spiegando come l’ossessione per il naso sia una prerogativa dei russi, dove l’appendice è menzionata «nei proverbi, nei detti e nell’umorismo: se sono depressi lo abbassano, se sono euforici lo levano in alto; se hanno poca memoria vi incidono un segno per aiutarsi a ricordare». Inevitabile il successivo riferimento a Cyrano di Bergerac, «l’Omero dell’olfattività», seguito da una rassegna delle altre appendici più o meno importanti o visibili del corpo umano. Giunti alla regione sacrococcigea, ossia al fondoschiena, si passa dal Marchese de Sade – unico vero cantore letterario di questa parte del corpo – ai volgari espedienti degli spettacoli comici, fino alle doverose valutazioni da biologo che inquadrano correttamente le proprietà di «questa remota provincia dell’organismo», che
«è di fatto un crocevia della vita cellulare, un centro cosmopolita dell’economia corporea, un caleidoscopico nucleo di crescita e di energia latente. Tale sua potenzialità viene in luce solamente in presenza di uno stato morboso; ma, quando l’infermità si manifesta, quali fantastiche patologie da incubo! In confronto, il cervello e il cuore appaiono ridicolmente limitati».
Si arriva dunque al platonismo che vedeva l’essenza dell’uomo nella mente e nell’intelletto, in funzione dei quali il corpo intero era asservito, con la distribuzione della carne studiata secondo un piano che favorisce il processo pensante. Da qui alla pittura di El Greco il passo è breve: le sue figure umane sembrano distendersi in una duplice tensione, quella gravitazionale e quella dell’elevazione celeste, con esseri allungati e ali d’angelo giganti che vengono contestate dagli inquisitori del Sant’Uffizio – «non molto versati in aeronautica» – perché contrarie ai canoni prescritti. Ancor più breve è il passo per arrivare al principe Siddharta che divenne Buddha e a san Giovanni Damasceno che riscrisse in greco la sua leggenda, col titolo Barlaam e Iosafat. Si arriva poi a Simone de Beauvoir che parla della malattia terminale della madre («Per la prima volta, scorgevo in lei un cadavere in sospeso»), e alle visioni mistiche del corpo che rifuggono ogni mondana cura, dove la zavorra che impaccia gli sforzi di ascendere va combattuta, ignorata o mortificata. «Si stabilisce così un barbaro confronto: il corpo reclama cibo e il mistico controbatte digiunando; il corpo chiede gratificazione e il mistico infligge mortificazione». Aldous Huxley, attualizzando questa mistica al ventesimo secolo, cercò di allargare le “porte della percezione” a suon di mescalina e allucinogeni, col rischio di mandare la mente in pezzi senza riuscire ad avvicinarsi minimamente alla visione ommatidiale della mosca-dominatrice di cui si è parlato prima. Naturalmente, non può mancare un riferimento a Honoré de Balzac dei Bei discorsi delle religiose di Poissy dove, su consiglio del confessore, suor Petronilla offre ogni sua mortificazione a Dio.
«I continui digiuni le hanno reso macilento il fisico e quanto mai concentrata la deiezione, “secca e dura, tanto che l’avreste detta il prodotto di una cerva in amore”. Un pomeriggio, dopo molti mesi, essa deve alleviare la parte animale del corpo dalle sostanze in eccesso. La debolezza fisica e la durezza degli escrementi la sottopongono agli “orrori sfinterici” più tormentosi. All’apice del supplizio, al pensiero dei meriti provenienti dal novello sacrificio, ella esclama: “Dio, Dio, ve lo offro!”, e contemporaneamente il bolo solidificato abbandona la sua santa persona e cade nella latrina con un suono di ciottolo che rimbalza».
Da Balzac si arriva a Paul Valéry, con la sua teoria dei quattro corpi che albergano in ognuno di noi. Il primo è quello dell’attività meccanico-vitale, dell’interazione con l’ambiente svolta con tutti gli strumenti fisici di cui disponiamo; il secondo è dato dalla coscienza dei nostri meccanismi interni, coscienza che rifulge quando il corpo è sottoposto a rigori estremi come quelli dei mistici; il terzo è quello oggetto dell’indagine scientifica, con tutti i suoi feticismi, mentre il quarto è «il corpo-come-componente-dell’ambiente e da questo indistinguibile, così come il piccolo vortice che si forma in un bicchier d’acqua continua a far parte del liquido eppure se ne differenzia». In definitiva, tiene a precisare Gonzalez-Crussi, il lavoro del patologo non è quello che da taluni è stato definito «scarafaggio nel Sacco di farina della medicina»: innanzitutto perché il patologo è tra i pochi che nutrono interesse per il defunto in quanto tale, come soggetto concreto, in modo diretto e privo di ambiguità. Tutti coloro che si accostano ai defunti ne operano la spersonalizzazione, dai religiosi ai mistici agli scienziati ai poeti, distanziandosi dalla materialità del corpo per poterlo contemplare dal punto di vista ideale; il patologo invece si assume la responsabilità di oggettivarne ogni aspetto, anfratto, espressione, causalità. Egli è l’unico, in effetti, a «spiegare» l’essere vivente nella sua integrità corporea, prima che vada a disgregarsi nella terra e a liquefarsi nei succhi assorbiti dalle radici delle piante. E in questo è solo:
«i parenti sono chiusi nel proprio dolore, i ministri della Chiesa sono all’opera per alleviarglielo; quanto a scienziati e poeti, non appena serrata la porta dell’obitorio se la sono svignata dall’uscita di servizio dell’astrazione. Ma il patologo non ha scampo. Il suo compito è di affrontare faccia a faccia il morto e, violandone la più riposta individualità, acquisire informazioni dalle quali si possano ricostruire astrazioni veritiere e verificabili».
E al poveretto tocca di immergersi nel sangue, nelle secrezioni, nelle viste ripugnanti e negli odori che ne escono. Ai tempi d’oro in cui la patologia era in piena evoluzione, fior di eroici scienziati arrivavano ad assaggiare le secrezioni degli organi per meglio conoscerne la natura, mentre i discendenti attuali possono avvantaggiarsi del progresso scientifico che tutto sterilizza in analisi chimiche. Ma, secondo l’autore, la principale preoccupazione del medico legale che abbia una sensibilità è lo studio del formalismo della morte: la positura, le circostanze esterne e ciò che resta dei gesti umani al momento del trapasso. Grandi personaggi del passato si velarono il capo nell’istante supremo, come Socrate, Giulio Cesare, Pompeo. Altri, come Carlo V di Spagna, si preoccuparono di fare le prove delle esequie con largo anticipo, affinché tutto andasse secondo convenienza. Di certo, l’individualità imprime un marchio in ogni organo del corpo, rendendolo diverso da qualsiasi altro, e lo stesso vale per le diramazioni vascolari, sempre uniche. Ma l’individualità dell’“unico e irripetibile” finisce per cedere all’astrazione, mentre la concretezza della dissezione sul tavolo autoptico rivela l’ineludibile uguaglianza degli esseri umani, tutti parificati nella loro fragilità.
Paolo Ferrucci
*In copertina: John Lizars, A System of Anatomical Plates of the Human Body, 1857