“Io non sono M.M.”: Marilyn Monroe, poeta
Poesia
Elisa Gonzalez
Cesare Pavese aveva i polmoni in due luoghi tra loro opposti: da una parte respirava l’aria immensa e pionieristica delle pianure statunitensi, dall’altra la bava di vento secca, essenziale della Grecia arcaica. Zone del tempo e del mondo in apparenza inconciliabili. Pavese credeva che gli States, con le loro «sensibilità nude e primordiali», fossero un avamposto di quella perduta grecità. Walt Whitman è un novello Omero, Herman Melville un folgorante, complessissimo Esiodo, Emily Dickinson è Saffo, Hart Crane è il Pindaro dell’età meccanica, William Faulkner è il primo dei tragici, Eschilo, ed Ernest Hemingway Euripide: con una capriola da circo il gioco è fatto. Per confermare il refrain da scimmie ballerine che Pavese è stato il grande sdoganatore della letteratura a stelle e strisce si leggano i suoi articoli americani radunati in Saggi letterari (Einaudi, Torino 1951, 1977). Per carità, nulla di travolgente ma se contiamo che quei nomi li conosceva grosso modo solo lui, lì sta il lavoro del cercatore d’oro con il setaccio. Con quell’articolo, dal titolo indicativo Middle West e Piemonte (era il 1931), dedicato all’opera di Sherwood Anderson, che è un po’ la cassa degli attrezzi del Pavese artista. Loro come i greci, noi come loro: eccomi, un Erodoto che ha fatto un master a Chicago.
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Che poi non le azzecchi proprio tutte ci sta. Di Herman Melville, ad esempio, Pavese non sopporta le sofisticherie, e tende a guardarlo come lo scrittore di quell’unico immane capolavoro, Moby Dick, che lui peraltro tradusse graziosamente nel 1932, salvando poco altro. Non gli garbano i congeniti difetti – troppo allegorismo in tridimensione postmoderna – di Mardi e ancor meno Pierre: «lo stile si fa convulso, l’ispirazione epilettica, frammentaria, il senso delle proporzioni viene meno e, su qualche pagina ancor tagliata all’antica, si stende una palude di paroloni, di stonature e di sottigliezze, che non solo è noiosa, ma dopo tutto anche ingenua. Davvero il libro sembra scritto da Achab». Ecco, noi dopo consimile descrizione lo cercheremmo per terra e per mare, quel romanzo sconsiderato, Pavese lo getta alle acque. Sia chiaro, Melville rimane sull’albero maestro («Un greco veramente è Melville»), ma non influisce per nulla sulla scrittura del piemontese. Peggio per lui.
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Non è che con William Faulkner vada molto meglio. Ossia: Pavese ne riconosce la grandezza assoluta, ma non la comprende per intero. Eppure ci regala una definizione sua che è quasi un colpo di tacco: «Non è un uomo che scrive, è un angelo; un angelo, s’intende, senza cura d’anime». Le tagliole da superare, probabilmente, sono quelle del “modernismo”, che Pavese non ama proprio. Joyce può far correre brividi sulla schiena dei pionieri fessi, noi europei abbiamo Boccaccio e Rabelais; Gertrude Stein è semplicemente «insopportabile a noi». Gli Stati Uniti sono un antidoto reale, “terrestre”, al vizio letterario, al naso all’insù europeo.
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Già, ma il vizio suo d’origine, il peccato originale di Pavese è quello di non aver saputo scrivere il grande romanzo. Così vanno le cose, e così, un poco subdolamente, ricamava Calvino, quando, annunciando nel 1951 proprio la cisterna di saggi del piemontese, scrisse che «in verità non si può separare l’opera creativa di Pavese da quella battaglia culturale», che è come dire che l’opera da sola non si regge, ha necessità di quelle lodevoli stampelle, quando tutti sanno che l’opera se è tale resiste a ogni partito, a ogni “battaglia culturale”, al suo creatore. No, Pavese non fu un grande scrittore, fu uno scrittore enormemente “gradevole”. Avrebbe voluto essere greco o statunitense – a proposito, leggete Erskine Caldwell e l’epica facile come una sorsata di sidro di John Steinbeck e scoprirete due altri cugini suoi – ma non fu né carne né pesce. Cioè: né goliardamente pionieristico, né severamente cinico. Eppure, e fu il primo furto serio, da goderne per tutta l’estate, rubai in giovinezza un volume che coglieva tutti i suoi romanzi. Prima restandone sedotto, poi fortemente deluso (a guardare un poco a lato sullo scaffale mi sarei intascato Conrad o Tommaso Landolfi). Non c’è niente da fare, Pavese è uno scrittore di esperienze, ed è per questo che non c’è uno che ne possa uscire pulito, per dire, dalla lettura del Mestiere di vivere, perché sembra sempre che egli si rivolga a te, alla tua intimità, alla tua disumana umanità. Ma questo non basta a farne un grande scrittore. Che Pavese, vista anche la tragedia della fine, sia il nostro Albert Camus con grammi di aggressività e ferocia in meno, è cosa su cui trastullarsi.
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Sulla poesia, poi, come a dire, altro giro, altra corsa. Pavese ha sempre messo nella lista dei suoi libri migliori Lavorare stanca, la prima raccolta di versi del 1936. I romanzi, giudizio che più sommario non si può, sono una variante lunga di quelle vicende e di quelle atmosfere. Che più che di Walt Whitman, su cui il piemontese scrisse una tesi di laurea, risentono di una profonda escursione in Edgar Lee Master e in Charles Baudelaire, con stoccatine crepuscolari. La critica col lauro, come è noto, non la pensava così. Il silenzio fu tambureggiante all’epoca della pubblicazione del libro, e i giudizi a tagliola dopo. «Short stories chiuse e tetre di personaggi tipizzati, che oscillano tra referto realistico e proiezione dell’autore stesso», la faceva breve Pier Vincenzo Mengaldo, con fiocinata da lancillotto: «la poesia pavesiana ha ricevuto attenzioni anche superiori ai suoi meriti». Sul trotto lungo, però, Pavese l’ha vinta. Oggi parecchi ragazzotti scrivono come lui settant’anni fa, con quello zoccolare narrativo e malinconico assieme, da sfigati che guardano altre la siepe un infinito scialbo. Eppure ha ragione Pavese, quello è il suo libro più “patetico” e bello, in cui si compone la grande sbandata per la grecità. Liriche come Mito e i diversi “notturni” preparano la radicalità delle Poesie del disamore. Dove un’antichità digerita con stomaco da leone si fa cristallina, aerea, astratta, lancinante. Non gli perdoneranno neppure quegli ultimi “scherzi”, neppure i versi postumi, etichettati da Mengaldo come una «droga di intere generazioni di liceali».
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Ma prima, è il 1947, c’era stato il libro più amato e più discusso, i Dialoghi con Leucò (in una intervista radiofonica del 1950 il piemontese, ridimensionando la portata dei suoi romanzi, disse con chiarezza: «Pavese ritiene i Dialoghi con Leucò il suo libro più significativo, e subito dopo vengono le poesie di Lavorare stanca»). Libro misterico e inattuale, esso rilegge la grecità vissuta dall’autore, per negativi e scarti, per domande prime. È come se Omero fosse stato messo in scena da Beckett, e il biancore è in ogni cosa, abbacina. «Un libro come i Dialoghi seguita a vivere con l’autore, perché è gremito di futuro e d’inespresso», scrisse Emilio Cecchi su Paragone, nel 1950. Un libro che chi ne ascolta il suono non avrebbe dubbi, se lo porterebbe nell’ipotetica isola deserta. Il balzo nella grecità era allenato da tempo. Da un romanzo “etnografico” come La luna e i falò, ad esempio, in cui già Calvino aveva letto il rapporto centrale con Il ramo d’oro di Frazer, da un libro composito come Feria d’agosto, in cui ha luogo nucleare il bel brano Del mito, del simbolo e d’altro. «Il mito è insomma una norma, lo schema di un fatto avvenuto una volta per tutte, e trae il suo valore da questa unicità assoluta che lo solleva fuori dal tempo e lo consacra rivelazione», ecco la formula geometrica di un discorso mitologico “fisso”, arido, perpetuo e che precede la letteratura, quella formula prima che Pavese è andato ricercando con pena attiva nei suoi Dialoghi. Semmai da comparare al mito “in divenire”, mosso e inquieto scandagliato per tutta la sua opera da Pier Paolo Pasolini.
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In serie, tutta una teoria di vigorosi passi verso Omero e compari, dall’amore per Ernesto de Martino e la messa in mare, assieme a lui, della “Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici”, la celebre “collana viola” ardentemente voluta da Pavese; la passione a fegato aperto per Raffaele Pettazzoni e la inesausta messe dei Miti e leggende di tutto il mondo edita dagli “avversari” della Utet; l’impresa di Rosa Calzecchi Onesti, la traduzione di Iliade e Odissea seguita palmo a palmo, con estro (colto da furore eroico, Pavese cominciò una versione mai conclusa della Teogonia di Esiodo). E in mezzo, a fare da ponticello di quattro assi e due corde tra le isole greche e le epiche rout degli States, i precocissimi esercizi di stile, condotti tra il 1923 e il 1928, dentro il Prometeo slegato di Percy Bysshe Shelley (ora Einaudi, Torino 1997), cioè classicità messa in brillantina moderna, e la catabasi costante in Leopardi, superbo lettore dei classici e truce fustigatore dei “moderni”. La strada da qui a lì, da Smirne a New York, Pavese se l’era lastricata bene. Poi, è questione di armare la barca, affrontare gli oceani, e avere braccia robuste. (d.b.)