Voi che siete lì, sospesi nell’incertezza del vostro destino; voi che state precipitando, travolti da un’inarrestabile caduta nel ventre molle dell’inferno; e voi che siete già schiantati a terra, afflitti nel contrappasso della vostra dannazione eterna; tutti voi, sappiatelo e ditelo a chiunque vi si rivolga: che c’è stato chi vi ha compresi, prima e dopo il vostro nascere e morire. Di voi ha compreso la reazione scorata di fronte all’ineluttabile destino, la lacerazione delle carni, la perdita di coscienza, la speranza della fine e il ritorno all’inizio delle vostre indicibili sofferenze; ha compreso pure il desiderio, la brillante palpitazione, l’irrefrenabile leggerezza, il mistico contatto con l’infinito perpetuarsi delle stagioni.
Ha compreso ogni cosa che siete, che non siete stati e che avreste potuto essere, perché chi vuole disperatamente la vita crea anche ciò che non esiste.
Costui ha trasfigurato se stesso nella parola affinché un luogo o un personaggio ne rechino traccia a vostra memoria. Un rispettoso epitaffio non vi porterà mai gloria altrove se non nel mondo dei vivi, ma quelle parole scolpite nel cuore vi elargiranno un suono che sentirete nelle sottili pieghe che vi separano da lui, nello spazio e nel tempo.
Se vorrete un giorno spiegare a qualcuno in quale oltraggioso dramma e in quale estasi di ebbrezza si consumi la vita, citate lui ad esempio, che giammai si sarebbe opposto a questo; né mai a nulla si oppose.
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Da tempo mi interrogavo su quale fosse l’incipit ideale per parlare di Dostoevskij. Un senso di disequilibrio mi turbava in ogni frase che appuntavo: troppo razionale, troppo mistica, troppo metafisica; c’era sempre qualcosa che la rendeva inadeguata, ogni tentativo di descrizione pareva non omaggiarlo adeguatamente e ne sminuiva il profilo, restituendone un’immagine parziale e alterata. Dopo lunga riflessione ho concluso che non vi è altro modo per cominciare a parlare di lui – lo si voglia fare diffusamente o, come in questo caso, concisamente – che descrivendone l’impressione estratta dalla lettura, nella forma della stessa esperienza di puro spirito con cui nutre e distrugge i suoi personaggi; e noi, insieme a loro.
Sappiamo bene che in essi e nei loro tumulti, frammento per frammento, possiamo rivivere la lacerata esistenza di questo artista; ebbene, quell’impronta, che s’imprime irrevocabilmente, mi pare non possa essere comunicata in una prosa descrittiva, ma solo per mezzo di un’invocazione, una dedica, una sorta di epitaffio inciso sulla schiena.
Desidero quindi rivolgermi a tutti coloro che sono più predisposti a farsi condurre dove solo quella superiore letteratura può portare e mi preme farlo – prima di ogni altra considerazione critica – in quella forma.
Cercherò ora di accostarmi allo scrittore, ai suoi personaggi e alle sue storie con un proposito: definire la misura della sua eredità umana e artistica, ma soprattutto comprendere le conseguenze dell’incontro con lui attraverso le opere. È, dunque, prima di tutto, la sintesi di un’esperienza soggettiva.
Leggendo della vicenda umana di Fëdor Michajlovič Dostoevskij accade di chiedersi se sia possibile comprendere l’esistenza di un’altra persona senza averne indossato i panni e vissuto le carni. È pur vero che l’immedesimazione con il dolore ci appartiene, come esseri viventi, ma il grande racconto esistenziale che lo riguarda, come descritto da chi ne ha studiato il corso (e da lui stesso) fanno pensare che la sua esperienza sia intramata a quella vita vissuta, unica, irripetibile e ad essa soltanto; i dettagli, poi, non fanno che acuire il profondo senso di inettitudine che pervade nel prenderne atto.
Una grave forma di epilessia proietta frequentemente l’artista in uno stato di trance nel quale accoglie in sé visioni, percezioni che poi trasfonde nei personaggi: entità smaterializzate che ci appaiono come puro spirito, dotati della stessa “ipermetropia psichica” del loro ideatore. È sufficiente aver chiaro questo quadro per comprendere che siamo pressoché tutti in una condizione di difetto d’esperienza diretta, sforniti degli strumenti necessari per replicare quello stato, considerato che non può essere inteso come un comune dolersi del vivere, ma come un alternarsi costante di sofferenze fisiche, stati allucinati e spasmi che lo scrittore vive prima, dopo e durante l’atto della composizione.
Nel confronto con lui, la mancanza di familiarità con lo stato ipnotico rischia di trasformarsi anche in una insufficienza di mezzi intellettuali. Il vuoto che si crea tra le parole scritte e lo stato psico-fisico in cui sono state pensate e trasformate in letteratura è dunque immenso, incolmabile.
Ci aiuta Stefan Zweig a inquadrare il profilo umano e artistico dello scrittore, nell’opera a lui dedicata:
“Dostoevskij scrive nella febbre, come nella febbre pensa e nella febbre vive. Sotto la mano che fa scorrere le parole sulla carta in piccole file di perle (ha la scrittura rapida e i caratteri nervosi dei temperamenti ardenti) il polso martella con rapidità raddoppiata, i suoi nervi sussultano spasmodicamente. Creare è per lui estasi, tortura rapinante e annientamento, voluttà acuita fino al dolore, dolore acuito fino alla voluttà, l’eterno spasimo, la sempre ripetuta eruzione vulcanica della sua natura strapotente. «Piangendo» il ventitreenne scrive la sua prima opera, Povera gente, e da allora ogni lavoro è una crisi, una malattia. «Lavoro nervosamente, fra patimenti e preoccupazioni. Quando lavoro intensamente sono anche fisicamente malato». E davvero, l’epilessia, il suo male mistico, col suo ritmo febbrile, con le sue oscure e sorde crisi, penetra fin nelle più sottili vibrazioni della sua opera. Sempre, però, Dostoevskij crea con l’interezza della sua natura, in un furore isterico.”
(Stefan Zweig, Dostoevskij, Lit Edizioni – cui si riferiscono tutte le citazioni seguenti)
Le premesse su cui lo scrittore svolge la sua opera sono le peggiori possibili: povertà, malattia, sofferenza; brevi momenti di gloria, riconoscimento, fama ed esaltazione alternati a lunghi periodi sfortunati, vissuti nelle più drammatiche condizioni economiche, fisiche, esistenziali. Imprigionato, poi liberato; esaltato e poi emarginato. Il romanzo nasce – prima che nella penna – dalla sua stessa vita. L’empatia con i drammi, le follie e i patimenti dei suoi personaggi è di conseguenza assoluto. Non vi è soluzione di continuità tra la vita reale dell’uomo – Fedor e quella letteraria.
Bisogna lasciarsi sopraffare dalla sua potenza espressiva per assomigliargli e sentir fluire in noi la doppiezza intrinseca di ogni situazione vitale. Da profondo conoscitore degli stati estremi dell’esistenza, li esalta al punto da crearne di nuovi. Non sorprende, dunque, che “Il suo mondo (sia) nello stesso tempo verità manifesta e mistero, conoscenza chiaroveggente della realtà e insieme sapienza e magia […] Con inaudita forza i particolari visionario-reali inchiodano le sue figure alla realtà terrena, non ce n’è mai una che scivoli nell’indeterminato”.
La perfezione della sua analisi psicologica è totale, la descrizione dei profili umani altrettanto. Le sfaccettature dei personaggi brillano di mille riflessi, anche di quelli mai immaginati. Un abbacinante realismo che acceca, animato da un campionario tanto vasto di umanità da risultare dirompente anche per il più navigato uomo di mondo.
La sfida di Dostoevskij al lettore è sempre soggettiva. La individuale possibilità di comprendere i personaggi trova dunque un limite solo nell’esperienza che si possiede. Nel confronto con lui abbiamo una sola certezza: che in lui siamo contenuti. Non vi è scaltrezza, malizia o complessa macchinazione che possa investirci e che non sia stata già da lui prima pensata. Chi dubiti di questo può provare ad affrontare il “labirinto logico” dei Fratelli Karamazov: si scoprirà soverchiato dalla complessità dei personaggi.
Questa sua capacità soprannaturale di eviscerazione psicologica dell’uomo gli attribuisce un primato di realismo? L’impatto con la poetica di Dostoevskij produce una reazione paradossalmente opposta: di fronte ai suoi personaggi e alle sue storie – monumenti letterari ineguagliati – si scompone in noi una visione quasi surreale, parallela, allucinata, in qualche modo estranea alla nostra vita. È possibile che una descrizione tanto profonda e autentica dell’uomo e dei suoi più reconditi anfratti esistenziali suoni alle nostre orecchie come una dimensione che ci è in parte estranea? Questo, presumibilmente, accade a causa dell’esasperazione cui andiamo incontro nella lettura. La poetica di Dostoevskij opera, infatti, su due livelli: da un lato svolge le azioni delle sue storie nei luoghi più sudici e degradati, dotando dei più profondi ed alti stati dell’essere i corpi laidi e usurati di contadini, banditi, prostitute e biscazzieri; dall’altro priva il lettore dei momenti di riposo interiore, inchiodandolo nei turbamenti dei suoi personaggi.
Contrasti e pressione psicologica. Il risultato è destabilizzante. L’unità di sentimento cui tutti naturalmente tendiamo e aspiriamo ne rimane prima alterata e poi spezzata: ci viene impedito di sviluppare un’emozione liberatoria univoca. Dalla lettura si può uscire solo agitati, esausti e svuotati. Tutti gli scrittori, prima di lui (anche i più grandi) lasciano scorrere, distribuendoli nelle loro storie, momenti di recupero interiore. Generalmente si incontrano quegli spazi nelle parti del racconto che guardano al di fuori dell’uomo, volti al trascendente, all’assoluto e al macrocosmo: il firmamento stellato della notte, un paesaggio ventoso, un momento conviviale nel giorno di festa. Queste proiezioni di armonia universale che viaggiano a fianco dell’uomo sono istanti di risanamento imprescindibili, in cui si riconosce l’alternarsi tra la durezza del vivere e il conforto – per quanto breve e momentaneo – che connota l’esperienza comune. Ai personaggi di quelle storie è concesso un momento di ristoro, tra una battaglia e l’altra, “il riposo dall’umanità, quella benefica rilassatezza dei nervi, la migliore per l’uomo quando distoglie lo sguardo da se stesso e dalle proprie pene per posarlo sull’insensibile e impassibile universo”.
La compostezza di una reazione contemplativa di fronte all’immenso ricompone lo spirito e mitiga ogni tragedia; ma queste fotografie di sacralità del cosmo e dalle sue proiezioni sono un balsamo che non viene mai disperso in Dostoevskij, anzi vengono completamente annullate. Trovano spazio solo l’affanno, la tensione, il dubbio e una lunga lista di altri moti dello spirito che appartengono all’uomo soltanto e si affastellano in lui fino ad esplodere. La capacità impareggiabile dello scrittore di creare un collegamento tra la narrazione, i personaggi e la lettura svuota e proietta in quello stato di panico egli stesso mentre scrive.
Ogni gentilezza è dunque sottratta e il senso di liberazione del sentimento che di tanto in tanto si va anelando tra un episodio di introspezione e l’altro è del tutto negata. La storia diventa una tenaglia in cui ci si trova serrati, dispensatrice di quegli spasmi da cui talvolta si cerca di divincolarsi. Non vi è nulla di sacrale in questo; è tutto assolutamente, irreversibilmente umano. Troppo umano. La reazione di respingimento, di stanchezza e di frustrazione verso le storie di Dostoevskij nasce lì. Leggerlo è un’esperienza di resistenza e privazione.
Anche i riferimenti materiali e corporei vengono eliminati. I personaggi non sono mai descritti nella loro apparenza fisica, non compiono gesti ordinari; dunque, non sono mai colti nell’atto di mangiare, dormire, camminare; lo sono soltanto nella riflessione, nel terrore, nel dubbio, nell’escogitare la trama di un machiavellico piano. Le loro sono soggettività soltanto interiori e in quel sembiante vacuo, senza peso, in cui sono annegati si avvertono mentre compiono le azioni e sviluppano l’intreccio. È così che Dostoevskij appende un cappio al collo del lettore. L’inconsistenza di quegli esseri senza volto, insospettabilmente, irrompe in lui con inaudita violenza, lo smaterializza e lo trasforma in ciò che egli stesso è: puro spirito.
Scaraventati nella storia, persi irrimediabilmente i riferimenti di contesto, smarriti in un etere fatto di sensazioni, lo scrittore ci trascina in una condizione di piena risonanza con i personaggi. In cambio offre (anche) il dono di avere una percezione precisa e rotonda delle proprie potenzialità interiori, che divengono rapidamente euforia. Come esprimere diversamente l’ebbrezza che si prova nel momento in cui il nervosismo di Aleksej Ivanovic ci agita e ci pervade, sul finire del romanzo Il giocatore, quando seguiamo con trepidazione i tentativi dello sventurato di tenersi lontano dal tavolo della roulette? Sferza e stende – anche il più solido degli uomini – la sequenza di “vinse” e “perse” che il destino fa cascare uno dietro l’altro senza ordine nei passaggi finali del romanzo. L’inquietudine si trasforma in terrore quando all’atteso epilogo il protagonista, completamente posseduto, si consegna infine al vizio senza più opporre resistenza. È così vinto, in ogni sua fibra, che anche le reazioni si fanno smorzate, piatte e il senso del rischio svanisce, esso stesso inghiottito dalle puntate. Gli eventi assumono una volontà propria, al di fuori del personaggio, come giganti invincibili. Il gioco non è più qualcosa di separato dall’uomo: è ormai divenuto un habitus, uno stato della mente, una parte di lui. Le vittorie e le sconfitte al tavolo della roulette, che arrivano come pugni in sequenza nel nostro stomaco, non hanno più nessun effetto su Aleksej. Nemmeno lo sfiorano.
Osservare lo stato del protagonista, la sua sintesi al termine del libro, è guardare giù giù in se stessi, negli abissi di ciò che si potrebbe essere. Quel terrore ci appartiene, è già in noi. Dostoevskij ce lo indica e ce lo consegna intero, così come è. In quell’attimo di piena comprensione si resta attoniti, consapevoli che si è Aleksej Ivanovic; e verso di lui si animano subito sentimenti che solo verso noi stessi possiamo sviluppare, di massimo apprezzamento e di massima disapprovazione: di lui odiamo e temiamo la spregiudicatezza, la totale assenza di buon senso; di lui amiamo e invidiamo (letteralmente) la capacità di non temere nulla, di impossessarsi del destino.
Tutt’intorno, ogni orpello è annullato, ogni dettaglio fisico è irrilevante, la natura carnale dell’uomo perde la sua funzione e questo viene esaltato soltanto nella sua interiorità. Le descrizioni degli ambienti circostanti (le sale da gioco, le facce dei croupier) vengono ugualmente polverizzate, degradate a (finto) palcoscenico. Dostoevskij – così facendo – non ci offre che la piena conoscenza di ciò che l’uomo è nella sua interiorità, eliminando tutto il resto. In questa sintesi finale emerge la maestria ineguagliata dello scrittore nello sfruttare i contrasti come occasione generativa. Dunque, dove “l’anima crede di non scorgere altro che contorni vaghi, che torbida realtà, guardando più profondamente riconosce, con grande gioia, la vera luce: il sacro splendore che, come corona di martiri, sta sulle ultime cose della vita”.
Il momento in cui Aleksej si consegna al vizio in una lurida sala da gioco è dunque tragico e straordinario nello stesso tempo, poiché mostra il doppio volto di un profondo cambiamento interiore: quando un lato oscuro abita l’uomo e si fissa stabilmente in lui, questi perde la capacità di discernimento, ma acquisisce anche la bellezza unica (sacra)“dell’anima che è tratta nella nudità dell’essere”. Una scena del libro e le stesse pagine di carta che lo compongono diventano così un luogo della nostra mente. L’istante è eterno, gli attori sono fissi, immobili nella loro essenza; non hanno un volto né altre caratteristiche che ce li rendano famigliari; li riconosciamo soltanto dai loro pensieri e dalle loro scelte. Intuizioni, premonizioni, timori, sospetti hanno più consistenza dei corpi, modificano gli eventi, tirano le fila della storia. In ogni istante abbiamo una chiara premonizione del seguito.
Nello scrivere opere totalmente umane, Dostoevskij giunge a noi fantastico e visionario perché ci priva del contorno – quello scenario in cui le azioni umane si collocano e si articolano, cui siamo abituati e assuefatti. Si resta invece soli di fronte a Dostoevskij. Soli con se stessi. L’assoluta pienezza esistenziale di cui inonda la sua opera pare splendere di una luce infinita ed eterna. In questa grandezza possiamo individuare un difetto, un limite, un vuoto? Se esiste, è qualcosa che non sottrae alcunché alle vette raggiunte, ma è utile per comprendere ancor meglio dove si colloca e quale sia la reale dimensione della sua eredità artistica. Considerata l’enormità di ciò che ci consegna la sua letteratura, conviene dire di ciò che in lui è assente. Mancano la fisicità dell’uomo e tutte le azioni di confronto tra essa e le cose materiali con cui viene a contatto; mancano la musica, la pittura, l’architettura e più in generale l’intera arte come manifestazione superiore dello spirito, veicolo di scambio tra artista e osservatore, ascoltatore, lettore; manca il cosmo, l’universo come dimensione assoluta e infinita della natura che ingloba e sovrasta gli esseri viventi.
È assente pure l’equivoco, l’incomprensione: quel meccanismo che genera il conflitto perenne in cui gli uomini vivono immersi. I personaggi di Dostoevskij sono pura interiorità, si muovono come spettri nel mondo e come tali li tratteggiamo nella mente nella forma di azioni, pensieri, stati d’animo. Essi non sono mai individui comuni, “sono tutti chiaroveggenti, tutti soggetti a telepatia, tutti allucinati, tutti visionari e fin nelle ultime profondità della loro natura tutti saturi di scienza psicologica”.
Si intendono senza parlarsi, intuiscono il futuro andandogli incontro e si muovono all’unisono sul grande palcoscenico costruito dallo scrittore per giungere all’epilogo in perfetto tempismo. Come ci ricorda Stefan Zweig
“nella vita comune, nella vita banale […] quasi tutti gli uomini stanno in conflitto fra di loro e col destino perché non si comprendono, perché non hanno un cervello terreno. Shakespeare, l’altro grande psicologo dell’umanità, costruisce la metà delle sue tragedie su questa ignoranza innata, su questo fondamento di buio che sta tra uomo e uomo come una fatalità, come un incentivo all’urto”.
L’uomo dostoevskiano, diversamente, è smaterializzato, dotato di conoscenza profetica e quella conoscenza è contemporaneamente in lui e fuori di lui, condivisa con gli altri attori della scena.
Questa precondizione è il terzo elemento della sua poetica che agisce violentemente sul lettore (insieme ai contrasti e all’assenza di riposo psicologico) generando, in ultimo, il senso del fantastico. Conoscenza, intuito e superiorità intellettuale travasate nei modelli di umanità più infimi, tensione psicologica senza tregua, intendimento assoluto e assenza di equivoci tra i personaggi disegnano un mondo che il lettore considera dissimile dal proprio. L’intelletto tende a respingere ciò che non riconosce e le realtà che si incontrano in quei libri non corrispondono alle variegate tipologie di esistenze che gli uomini vivono.
Forse non è così in senso assoluto.
Potremmo dire che la possibilità di intendere Dostoevskij e sentirlo reale o fantastico dipende essenzialmente dal destino che la natura distribuisce in sorte a ciascuno; ma bisogna concordare con Zweig – e solo nella misura che si preciserà meglio alla fine – quando afferma che pur essendo egli il massimo conoscitore dell’anima “nel contempo, questo suo iper-realismo psicologico lo disconnette dalla realtà universale. Sebbene egli conosca l’uomo più profondamente di chiunque altro prima di lui, Shakespeare lo supera come conoscitore dell’umanità. Ha riconosciuto la varietà dell’esistenza, ha posto la cosa comune e indifferente accanto a quella grandiosa, mentre invece Dostoevskij accresce ogni singolo individuo all’infinito. Shakespeare ha riconosciuto il mondo nella carne, Dostoevskij nello spirito. Il suo mondo è forse la più perfetta allucinazione del mondo, un profondo e profetico sogno dell’anima, un sogno che sorpassa la stessa realtà: ma è realismo che sorpassando se stesso entra nel fantastico. Il super-realista Dostoevskij, colui che trasgredisce tutti i limiti, non ha descritto la realtà: l’ha accresciuta al di là di se stessa”.
Il critico ci offre un raffronto ancor più suggestivo quando individua in Rembrandt il “fratello artistico” (in pittura) di Dostoevskij. Con il primo lo scrittore condivide le premesse esistenziali, il destino e la visione del mondo.
“Entrambi vengono da una vita di fatica, di privazioni, di disprezzo, relegati da ogni bene terreno, sferzati dai carnefici del denaro, cacciati giù nelle più nere profondità dell’esistenza umana. Entrambi conoscono il senso creativo dei contrasti, l’eterna lotta fra ombra e luce […]; tutti e due trovano nelle infime forme della vita qualche misteriosa bellezza nuova, tutti e due trovano il loro Cristo nella feccia della popolazione. Tutti e due conoscono l’eterno gioco delle potenze terrene, luce e ombra che con eguale padronanza comandano nel corpo e nell’anima; e in tutti e due tutta la luce è presa dall’ultima oscurità della vita. Più si guardano le tele di Rembrandt, più ci si addentra nei libri di Dostoevskij, più si vede scaturire l’ultimo segreto delle forme materiali e spirituali: la più profonda umanità”.
Preso atto di ciò che è e di ciò che non è in lui, di ciò che gli somiglia e di ciò che da lui si distingue, bisogna infine chiedersi se quella dimensione (apparentemente) fantastica in cui ci sprofonda non si trasformi invece in qualcosa di maledettamente reale quando ci raggiunge personalmente.
Il suo messaggio è chiaro: solo gli ultimi e i reietti possono contenere in sé la conoscenza del mondo. Chiunque – assistito da miglior sorte – non sia spogliato in qualche modo della sua fortuna, per destino o per scelta, sarà sempre escluso da quella conoscenza. A questa impostazione filosofica di Dostoevskij è sottesa la parabola di vita (senza i suoi risvolti religiosi) di San Francesco. La figura del frate, icona del ricco che si libera dei vincoli materiali per avvicinarsi all’assoluto, è di immediata e diretta comprensione. Questa premessa delinea una visione del mondo esattamente invertita rispetto a quella comunemente diffusa, che attribuisce il primato della riuscita – nella vita – all’uomo che completa un progetto. La dimensione dostoevskiana svuota di contenuto le azioni svolte per uno specifico obiettivo, assegnando importanza alla sola “nudità dell’essere”.
Dunque, dopo aver letto e respirato Dostoevskij, possiamo considerare ancora la sua realtà come qualcosa di fantastico e completamente alieno a noi, non corrispondente alla nostra visione del mondo? Ritengo che aver posto un occhio su qualcosa che non si conosceva (o non si vedeva?) di sé e degli altri forse può infastidire e risultare inizialmente estraneo, ma in un modo o nell’altro resta incollata all’uomo in qualche sua parte. È qualcosa che non si può più ignorare.
Scendere nei meandri di quegli scenari inospitali, opprimenti, saturi di contrasti ci rende partecipi e attori di quelle storie. Per gradi si scopre che la chiaroveggenza ha la stessa sostanza dell’acutezza, del puntiglio nell’osservazione. L’emulazione e la ricerca di quelle corrispondenze nel mondo di ciascuno sono conseguenze che si verificano anche contro il proprio volere. Leggere Dostoevskij significa – in una certa misura – veicolare attraverso sé parti più o meno corpose dei suoi personaggi nella vita reale. Egli giunge dunque all’uomo indipendentemente dalla dimensione del fantastico che questo gli attribuisce e in lui si instilla, trasformandosi poi in sguardo e gesto.
Sicuramente sapere che “ciascuno di noi è colpevole di tutto e per tutti sulla Terra, questo è indubbio, non solo a causa della colpa comune originaria, ma ciascuno individualmente per tutti gli uomini e per ogni uomo sulla Terra” (da I fratelli Karamazov), fa sentire tutto il peso della responsabilità che abbiamo in ogni cosa che accade; e in ogni cosa che accade possiamo vedere noi stessi.
Entrato in noi quell’occhio chiaroveggente e caricato sulle nostre spalle il fardello del peccato originale si può ancora dire che quella sia una dimensione fantastica del mondo? La predisposizione ad entrare nelle carni e nei pensieri del giocatore Aleksej Ivanovic, del giovane Dmitrij Karamazov, dell’umile copista Makar Devuškin, della bella Nastàs’ja Filìppovna o della arrampicatrice sociale Mademoiselle Blanche dipenderà in larga misura dalla predisposizione e dal temperamento di ciascuno, ma anche il meno dotato degli individui, di lì in avanti, notando la smorfia sulla bocca di un tizio che ha appena perso al tavolo da gioco si chiederà se dietro quel gesto si celi l’uomo pronto ad uccidere per riscattare il proprio debito.
Riccardo Peratoner
*Le immagini nell’articolo e in copertina sono di Alexandre Alexeïeff (1901-1982)