«Ma non mi sono ancora lavato! Come mai? E non ho fatto niente», mormorò. «Volevo scrivere il progetto, e non l’ho fatto, non ho scritto al capo della polizia, non ho scritto al governatore, ho cominciato una lettera per il padrone di casa e non l’ho finita, non ho controllato i conti e non li ho pagati… e la mattinata è volata via così!». Rifletté… «Che mi succede? Forse un altro avrebbe fatto tutto questo?», gli balenò nella mente. «Un altro, un altro… Ma che cosa è un altro?». Rifletté sul paragone fra se stesso e gli altri. Pensò e ripensò, e alla fine si formò dell’altro un concetto diametralmente opposto a quello che aveva illustrato a Zachar. Dovette riconoscere che un altro sarebbe riuscito a scrivere tutte le lettere senza che i vari nel quale e che, si urtassero nemmeno una volta, un altro si sarebbe trasferito in un nuovo appartamento, avrebbe buttato giù il progetto e sarebbe partito per il villaggio… «Eppure, anch’io potrei farlo», rifletté, «anch’io, mi pare, so scrivere; un tempo scriverò non solo lettere ma anche cose ben più difficili! Che fine ha fatto tutto questo? E traslocare, sai che roba! Basta volere! Un altro non se ne sta in vestaglia», aggiunse ai tratti salienti dell’altro; «un altro», e qui sbadigliò, «quasi non dorme… un altro si gode la vita, va dappertutto, vede tutto, s’interessa di tutto… Ma io! Io… non sono un altro!», concluse ormai rattristato, e si sprofondò ancora di più nei suoi pensieri».
No, il poco più che trentenne Il’ja Il’ič Oblomov non è come gli altri e forse saremmo lettori poco accorti se ci limitassimo a liquidare la sua esistenza come sola pigrizia, accidia. Vero è che un divano è stato per anni l’immobile testimone di un apolide della vita che non si è mai dimenato nelle ambasce di una domanda di senso che tanto agita, se pure è vero, lo stare al mondo di un altro qualsiasi. Non c’è nessun perché nel protagonista placido e quieto del capolavoro di Gončarov. “Che cos’è un altro?“, e di conseguenza: come si definisce lui (e noi con lui) rispetto ad un altro? Chi se ne frega, rispondiamo, non senza un motivo. Oblomov c’è e questo è quanto.
L’oblomovismo, che Stolz – antieroe del romanzo, l’amico “attivo” che vive, che affronta guai e dolori e sa gioire, come ricompensa del naturale alternarsi delle faccende umane – ha individuato come carattere alla fine della singolare storia del suo amico di infanzia, non è solo un atteggiamento passivo, è un lasciarsi attraversare dalla vita e qui dobbiamo decidere se lui lo faccia come un mero oggetto inanimato, appoggiato su un mobile in attesa che qualcuno, di tanto in tanto, lo spolveri o come un tenero fiore di campo, che non è un oggetto: ha la sua dignità di essere vivente, vive la sua vita al sole, al vento, alla pioggia e qualcuno si ferma ad osservarne l’esistere tra le cose del mondo, magari commovendosi. Può darsi che quella grazia, aggiungiamo noi misteriosa, di cui ci parla Gončarov nell’invincibile pigrizia di Oblomov sia quell’esserci – proprio come nel fiore di campo – che nulla deve al mondo e non semplicemente un segno esteriore della sua condizione di agiato.
Ogni mistico sa che le cose perfette non sono per qualche motivo, sono e basta. Nell’istante mistico, chi lo sa cogliere non si pone mai una domanda di senso perché finalmente lo vede e si dirada la nebbia in cui lo spirito si smarrisce quando perde la capacità di guardare. Nel suo piccolo, pure Il’ja Il’ič, che non tarderemmo a bollare come inutile, contribuisce a testimoniarci questo mistero. Non c’è in lui l’ombra di profondi turbamenti, segno di una vitalità spirituale, né, come accennato, l’ombra di affanni quotidiani, quelli che subisce uno non ricco come lui, per guadagnarsi il pane per sopravvivere o anche solo per conservare la sua ricchezza. Il nostro mite eroe non sopravvive, né vive, è.
Giorgio Manganelli scrive che chi gravita intorno a lui, cerca, disperatamente, di salvarlo. Ma “salvarlo da che? A quale scopo?”. Non va salvato Oblomov, e neppure giustificato. Riprendendo un’intuizione dello stesso Manganelli, è vero che il fascino di questa natura è teologico e aggiunge poi:
“Oblomov è la coscienza della necessaria imperfezione della creazione”.
Ma uno che si scopre imperfetto agisce, fa qualcosa per rimediare, a suo modo. O si illude di farlo e tutti gli affanni si riducono a cercare di nascondere queste mancanze, per la vergogna oppure per mendicare un qualche perdono. Uno chiunque certo, ma Oblomov, ribadiamo, no. Nel suo diario, Etty Hillesum scrive che se capissimo il tempo presente (lo scrive nel settembre del 1942) impareremmo a vivere come un giglio di campo. Mentre la sua realtà sprofonda nell’assurdità del male, la sua sensibilità enuncia questo pensiero. Poco prima, scrive che la cosa più difficile è sapersi perdonare per i propri difetti e per i propri errori. “Il che significa anzitutto saperli generosamente accettare”.
Ė, cioè, difficilissimo guardare l’essere umano come guardiamo un giglio di campo: il giglio non chiede senso, lo testimonia con il suo esserci. Oblomov forse anticipa questo pensiero, e fa quello che non oserebbe nessuno: vivere come un giglio di campo, generosamente accettando le sue mancanze, senza i vani tormenti di un presente ingombrante (in un dialogo con l’amico Stolz, che gli chiede perché non gli piace la vita pietroburghese, Oblomov risponde:
“Tutto: le continue corse, l’eterno gioco delle meschine passioni, soprattutto l’avidità, il bisogno di tagliarsi le gambe l’un l’altro, le chiacchiere, i pettegolezzi, il punzecchiarsi a vicenda, quello squadrarsi da capo a piedi; se ascolti le conversazioni, ti gira la testa, ti senti stordito. A prima vista, ti sembrano tutti intelligenti, ti par di leggere tanta dignità sui loro visi, ma appena li ascolti: ‘A questo hanno dato quello, questo ha ottenuto l’appalto’. ‘Per quale ragione, di grazia?’, grida qualcuno. ‘Quello ieri sera al club ha perso tutto al gioco: quell’altro ha guadagnato trecentomila rubli!’. Che noia, che noia, che noia! … Ma dov’è l’uomo? Dove si è nascosto? come fa a perdersi in queste futilità?”.
Oblomov non dorme più di tutti loro, solo nella testa non ha “fanti, re o regine” cioè quel vago “occuparsi di qualcosa” cui sarebbe tenuto per il solo fatto di essere venuto al mondo, per finire cadavere all’impiedi con giorni, ricordando Flaiano, che si accumulano tanto per fare volume.