Le meraviglie del corpo morto, ovvero: sul genio letterario di un anatomopatologo
Libri
Paolo Ferrucci
La scrittura è un orpello ‘da camera’, un gioiello, sofisticato, per il salotto. Se al posto di una casa hai una tenda, la grafia del mondo ti basta e ti stordisce – le storie, estratte dallo sfinimento del mondo, sono rifinite a voce, barometro di labbra. Di solito, si scrive quando si è perso qualcosa – una civiltà, se stessi – o si è troppo presi dal mondo per perderlo. Così, la scrittura, eco di ghiaccio, ha sempre una traccia di disperazione, la tratta di un tramonto.
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Uno dei libri più inconsueti e cari che abbia letto s’intitola Vita del lappone (in riferimento all’etnia sami), lo ha tradotto Adelphi nel 1991, è stato pubblicato, in lingua sami e danese, nel 1910. Lo scrittore – chiamiamolo così –, Johan Turi, si dichiara subito, “Sono un lappone, ho fatto tutti i mestieri dei lapponi e conosco ogni aspetto del mio popolo”. A Turi è chiaro che i governi svedesi e finlandesi, quelli che vivono nei palazzi, non sanno nulla della vita lappone: gliela vuole spiegare, la vuole proteggere. Così, spiegando al proprio popolo le sue tradizioni. Tra i suoi, il libro funzionò poco: scrivere, cioè rivelare, è sempre un atto sacrilego. In una fotografia, Turi ha il viso bronzeo e rugoso di chi vive all’aria, gli occhi hanno qualcosa di rassegnato e invincibile, incivile. “Il lappone non riesce a dire come stanno le cose veramente… quando sta dentro una stanza chiusa, quando il vento non gli soffia nel naso. Se ci sono pareti ed è chiuso sopra la testa, i suoi pensieri non riescono a scorrere… ma quando è in alta montagna, allora sì che il suo cervello è davvero limpido”, scrive Turi. Questo, in effetti, è un libro pieno di vento, di bestie.
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Sembra scritto da Erodoto, questo libro, da chi ha coscienza di essere il primo, pioniere di un mondo che si sgretola. Al posto delle ‘previsioni del tempo’ – qualcosa che ha dell’astrologico, che offende la vitalità dell’imprevisto – Turi osserva i segni del mondo. “La pernice bianca è magica. Quando ride al crepuscolo ci sarà bufera, quando gorgoglia verrà solo la neve, senza vento”; “Quando la renna strofina i palchi contro gli alberi, allora ci sarà il disgelo”; “Se al mattino si sente il piviere prima di aver mangiato qualcosa, allora ci sarà sventura, e l’anno sarà molto infelice per quella persona”. Il tempo scandisce l’ossatura del fato, l’animale è un grumo di segni. “Se la gazza o la cornacchia si mettono a seguire sempre la sida [la tenda] del lappone, è perché sanno che in quella sida morirà qualcuno”.
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Nel buio del bosco, dove la torcia è una lacrima, non ci sentiamo più a casa: quella pece – l’oscurità densa, lacustre del bosco – non dà pace, ci intimorisce. Ci espelle, ci spella. Chi sa trovare la “pietra del serpente”, quella che le serpi “gettano qua e là quando si accoppiano”? Il suo potere – a patto che i serpenti non ci scoprano – è portentoso: “chi la trova non sarà mai vinto dalla legge”.
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Lo so, io leggo Turi con occhi ingenui, come leggo di Mowgli, di Atreiu, come valuto le scorribande corsare di Jim Hawkins, quelle inquiete e amazzoniche di Maqroll… Qualcosa di fanciullesco – quando credevamo che sugli alberi troneggiasse un giaguaro, che i fiumi parlassero e che le rocce, argomentate dal muschio, fossero divinità – feconda questo libro. “Nella notte di mezza estate si fanno molte cose. Quando una ragazza vuole sapere chi è destinato a diventare suo marito, allora nella notte di mezza estate deve andare su una pietra che affiora dall’acqua, una di quelle che sono sempre circondate dall’acqua e sempre asciutte – una grande pietra in un torrente. E deve sedercisi sopra finché il giovane va dalla ragazza o la ragazza dal giovane. E se lui le offre qualcosa, lei non deve prenderla… Dicono che nella notte di mezza estate si veda il fuoco verde sui tesori sepolti”.
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Tutto è pratico, è pratica, è cosa che si tocca nel mondo magico, fitto di spettri, di Turi. Alcuni disegni di Turi costellano il narrare: stilizzate, le scene di caccia perdono parte della loro ferocia. Turi è un nomade, guida una mandria di renne; il rapporto con il lupo, con l’orso, è quasi quotidiano. Con sé ha un fucile e qualche cane, con cui condivide il bivacco, i pensieri, la sorte. In un disegno, Turi rappresenta il cielo dei Lapponi: la Via Lattea si chiama “Scala degli uccelli”, ciò che per noi è Cassiopea per lui è “Alce”, due stelle isolate sono chiamate “Sciatori”, le Pleiadi sono “Branco di cani”. Il mondo lassù riassume, in forme stupefacenti, la lotta che accade quaggiù. “Quando le costellazioni sono tante, allora arriva la neve”: come se la neve fosse una lucentezza sorella a quella delle stelle. Nei suoi disegni gli spazi bianchi sono molti: Turi ama il silenzio, ciò che dell’uomo resta silvestre; sa che il pregio è indicibile.
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Johan Turi espone anche una teologia frugale. Nel suo mondo, l’uomo è una luminosa minoranza, in mezzo alle altre bestie; i vivi sono assediati dai morti. “Quando gli spettri si spostano volano nell’aria come uccelli, a volte più in alto, a volte più in basso. E quando passano si sente un sibilo che rimbomba come la tempesta più violenta, e gli spiriti sibilano ancora più forte”. La descrizione di questi fantasmi è accurata: “Gli spettri non hanno testa e volano uno sopra l’altro, la maggior parte ha solo il corpo dalle spalle in giù, e qualcuno solo dalla vita, solo la parte inferiore. Gli spettri nascono dalle anime metà peccatrici e metà cristiane, e non finiscono né all’inferno è in cielo. Rimangono nell’aria e vogliono trovare qualcosa da fare”. Il noiade, lo sciamano lappone, usa “il tamburo magico” per soggiogare gli spettri, per farli diventare “i propri aiutanti”. Oppure, per liberare il pastore che ne è posseduto. “Il segno che in qualcuno ci sono gli spettri: comincia a sentire e a vedere tante cose che gli altri non vedono”. Tra malattia e magia i confini sono minimi. Per liberare un uomo dallo spettro che gli lavora dentro, occorrono incantesimi per parola, “in una lingua sconosciuta”. Quale? La parola è importante e pericolosa: serve per contattare gli dèi, per ordire sortilegi. I noiade del tempo antico – ormai perso nelle nevi, nella divagazione evangelica – “fischiavano, qualcuno andava in chiesa con la slitta trainata da un lupo”. Poi il lupo scompariva. Tornava, docile, per riportare, finita la funzione, lo sciamano nello sciame di enigmi da cui sorge, ogni volta. (d.b.)