Ci vuole capacità visionaria, cruenta quota di follia in grado di sottomettere la follia della Storia, il destino di chi sa scoscendere in sé a petto pieno, a piena gioia, per riconoscere nella prigionia il Getsemani, nella cella una culla, un cenobio.
“Sogna e la tua cella sarà inondata della luce iridescente che tu stessa avrai creato. Fa che nella tua cella non penetrino mai la paura e la buia angoscia che sono l’ambiente propizio per le larve del tormento e della morte. Spettri famelici, creati per te, per sortilegio”.
Nata nel 1893, cresciuta a San Pietroburgo, Julia de Beausobre subì il carcere durante la prima, grande rastrellata stalinista, all’esordio degli anni Trenta. Il marito, Nikolaj, diplomatico, antibolscevico, era stato arrestato prima di lei: sparì, nella marea invisibile dei nemici del popolo, per sempre. Al marito, Julia dedica alcune pagine irrevocabili, commosse:
“Il mondo bianco dell’uomo è grande, ma è più grande il mondo scuro del dolore. Tu dovresti saperlo! Perciò va e cammina, e cerca il modo di rischiarare l’oscurità”. “Vorrei, ma Nicola mi aspetta nelle nevi di Siberia. Quanto posso dare, dev’essere per lui solo”. Il sole è tramontato. Ho attinto quanto potevo da questo frantume di pace, Nikolaj è con me. Lo sento vicino come se camminasse al mio fianco.
Riscattata per un’occasione, un caso fortuito – o, si dirà, per perseveranza nel pregare –, dalla vecchia istitutrice inglese, Julia passa dal carcere ai lavori forzati, infine alla libertà. Naturalmente, per lei, segnata dallo stigma di ‘antibolscevica’, non c’è lavoro a Mosca. Julia non ha più casa, confiscata dal governo sovietico, né averi: l’indigenza, l’esistenza da paria in patria, sono condanna miliare. Ma l’umiliazione forgia questa donna che ha vissuto la prigionia – che paradosso – come un’ascesi spirituale. Julia lascia la Russia nel 1934, percorre un viaggio difficile, approda in l’Inghilterra:
“Non ho dubbi che partirò dalla Russia, ma devo mettere assieme tutta la mia forza di volontà per non perdere la ragione… Pace attorno agli immobili culmi degli alberi trepidanti in ascolto… Fiocchi di luce calda scendono morbidamente nel mio cuore aperto, vuoto. Ricordo i fiocchi di neve turbinanti attorno al capo dei forzati del campo penale. Ascolto come ascoltano gli alberi, odo il passo rintronante della vita… Il mondo, fiaccola gigantesca di gioia e di dolore, fluttua in un mare di color rosa vivo”.
In Inghilterra, Julia scrive la sua biografia dal carcere, The Woman Who Could Not Die: la prima testimonianza – articolata con perizia narrativa – degli orrori sovietici, scritta da una donna, cristiana. Non si può morire, come a dire – lo dirà Pasternak, un paio di decenni dopo – la morte non esiste, è cosa vecchia, non esitare a vivere. Il testo è potente perché si impone come un manuale di resistenza, è il racconto di una lotta compiuta contro una forza infinitamente superiore, schiacciante. Fin dall’incipit, la cronaca del dolore è alleata alla pietà, un punteruolo di sale nel niente, quando si è ostaggio della tenebra:
“Profondo è il silenzio attorno a me: un vero silenzio di morte. Io chiedo tuttavia se si possa parlare di morte quando sembra di avvertire il battito tumultuoso di cento cuori in agonia, oppressi da un peso mortale, cuori che urgono da ogni lato. Nella porta delle nostre celle v’è uno spioncino attraverso al quale due occhi torbidi e fissi scrutano sempre… Può quell’occhio, là dietro, scorgere le mie labbra convulse e il nodo che mi ostruisce la gola? Vedere forse no, ma il guardiano lo immagina, ne è sicuro. E invece non deve vedere e non vedrà! Bisogna che io vinca questo irrigidimento. Lo voglio”.
Soprattutto, il libro racconta la persecuzione comunista contro i cristiani, l’epos solitario, microscopico, di una donna delicata ma indocile; gli interrogatori, le minacce, le accuse di isteria, una specie di infibulazione dello spirito.
“La Rivoluzione del 1917 si è voltata proprio contro quelli che aveva preteso di difendere. Il trenta per cento dei detenuti sono ‘comuni’ e solo il dieci per cento persone della classe colta. Le donne di questa classe sono così rare che si conoscono tutte per nome”.
La testimonianza che Julia ricava da Madre Teodosia, stremata, a guida di un gruppo di monache recluse, è affascinante:
“Confortatevi, perché qui siamo affidate al Serafino dei Sacri Boschi, nostro intercessore. La nostra gioia è infinita, incompleta solo perché i fratelli lontani oltre il confine non si degnano di capire ciò che Dio vuole da noi e ciò che noi vogliamo da loro… Perché glorificano le spine che ci strappano la carne? Noi non chiediamo che ci assistano, che ci curino le ferite, ma solo che vedano la luce ch’è nel nostro carico di dolore. Dite che non pensino a noi in povero modo di compassione transitoria, ma tenendosi nella fede costante della bellezza e della verità”.
Dove tutto è Golgota, tutto è redento, corpo lavacro, sangue sbandierato, a cauterizzare la cautela della carità. Julia è tentata dalla vita del ‘folle in Cristo’ (“Non vedrò nessuno… andrò vagando per i paesi e i boschi della Siberia… sempre in cerca del mio Nikolaj”), ma il suo destino sarà percorrere la via a Occidente. Con illuminata ostinazione, dall’Inghilterra, Julia ritorna alla tradizione ortodossa: scrive un libro sulla vita di San Serafino di Sarov, sotto la cui egida ha agito (Flame in the Snow, 1945); traduce le lettere spirituali di San Macario di Optina (Russian letters of direction, 1944); Creative Suffering (1940) è una specie di breviario che riconduce l’atrocità all’ordine interiore, insegna a sgominare lo sgomento, un evangelo nella neve:
“È fondamentale che tu sappia e senta oltre ogni possibile dubbio che nonostante gli espedienti orditi dagli aguzzini, c’è e rimarrà sempre dentro di te qualcosa di costruito sulla roccia, il fulcro della tua personalità, un tutt’uno con la roccia su cui è edificata. Essendo tuo e della roccia, non fondato su qualcosa di esterno a te, questo qualcosa non può essere sradicato. Essendo eterno, più è messo a nudo, più splende”.
“Diverso è il tono della forza mostrata dai torturati quando si mostrano poveri, valorosi, solitari e disperati, da quelli che si ritengono membra del corpo mistico di Cristo. Soltanto questi ultimi possono sopravvivere senza soccombere all’odio”.
“Ho cercato di amare i miei aguzzini, perché se li avessi amati non mi sarei sommata al male del mondo, e loro, facendomi precipitare nell’odio, non sarebbero riusciti a sommarmi al male del mondo. Se fossi riuscita ad amarli, mi dicevo, forse questo amore avrebbe avuto un effetto su di loro, sarebbe stato addirittura in grado di ridurre il male nel mondo. Semplicemente, la via dell’amore in Cristo, della fiducia e del perdono mi sembra l’unica”.
In forma meno aulica, Iosif Brodskij scrive parole simili ricordando la propria esperienza carceraria: “Mi ricordo però che non sono mai riuscito a odiare i miei carcerieri perché di ognuno pensavo, ha una famiglia, è un poveraccio, un idiota, è fatto così, e questa è già di per sé una punizione”.
Nei mondi anglofoni, Julia diventò una specie di santa. Si sposò, nel 1947, con Lewis Bernstein Namier, storico di alto pregio, accademico alla University of Manchester, restando vedova, dal 1960: al marito dedicò una biografia – Lewis Namier. A Biography, 1971; per altro premiata con il “James Tate Award”: nella sezione narrativa, quell’anno, lo vinse Nadine Gordimer – aggraziata e piena di gratitudine. Morì nel 1977, non fece mai più ritorno in patria: nel 1983 Constance Babington Smith le dedica uno studio dal titolo sommario, Julia de Beausobre, a Russian Christian in the West. L’anno scorso la Chiesa di Scozia la ha onorata con un convegno, Julia de Beausobre and the gift of forgiveness.
La sua biografia dal carcere – un testo antipolitico e, paradossalmente, dalla speranza vertiginosa – fu tradotta, immediatamente, ovunque: in Francia, nel 1940, dalle Éditions Stock come La femme qui ne pouvait pas mourir; in Spagna, dal 1947, come La mujer que no podía morir; in Germania come Das Licht leuchtet in der Finsternis (1941). In Italia il libro fu stampato da Bompiani nel dicembre del 1941, con un titolo leggermente diverso – Non poter morire – nella traduzione di Giulio Peluso e Lila Jahn: nella stessa collana, in quel periodo, uscivano John Steinbeck, Frederic Prokosch, Erskine Caldwell. Per paradosso, il libro della De Beausobre è presentato in accoppiata con il romanzo del ‘sovietico’ Michele Sciolokov (sic) Il placido Don (eventualmente da richiedere alla casa editrice, all’epoca in Corso di Porta Nuova 18, Milano, tramite cartolina precompilata).
Il libro sarà editorialmente spazzato via da altre, più drammatiche, testimonianze dall’erebo dei Gulag e dal gorgo stalinista (i lavori di Aleksandr Solženicyn, di Varlam Šalamov, di Nadežda Mandel’štam…). A essere scaltri, si suppone che le memorie di una cristiana valgano meno di altre; ci siamo impediti, così, il passo angelico di chi in ogni cosa vede un segno, nel disastro una mano, un monito:
“Altri circoli sono al di sotto del mio, uno parallelo all’altro. Sono le vite dei miei compagni di prigionia, degli amici. È armoniosa e bella questa disposizione di circoli. Però non v’è punto dove possano incontrarsi. Il loro movimento è parallelo per tutta la vita. Ma vi sono altre vite, quelle ostili dei nemici. Il loro corso è perpendicolare al mio, cosicché d’un tratto posso sentirmi colpita come da un’asta uscita dritta dalle profondità del cielo. L’asta precipita, mi colpisce, precipita oltre. Ma nel punto del dolore si è formato come un nodo che rimarrà finché non trovi il suo scioglimento. Perciò è così facile amare i propri nemici, benedire quelli che vi odiano e pregare per quelli che vi disprezzano e perseguitano. Sono così vicini al vostro essere, anzi legati assieme con esso, in un nodo”.
Ma queste, capisco, sono parole che non vogliamo ascoltare né capire.
*L’opera di Julia de Beausobre sarà prossimamente pubblicata per le edizioni Pangea / Magog