17 Gennaio 2023

“Io vivo solo per amare”. Le lettere sconvolgenti di Julie de Lespinasse

Non c’è troppa differenza tra il convento e il salotto: il punto d’equilibrio, come sempre, è tra le parole inibire e inebriare. Figlia illegittima della ricca contessa d’Albon, Julie de Lespinasse era destinata al convento – la destituirono da Dio perché serviva, in qualità di governante, alla sorella maggiore, Diane, presso il castello di Champrond, nei pressi di Roanne. Aveva sedici anni, conosceva l’italiano e l’inglese, preferiva Shakespeare a Racine, cioè le passioni estreme, frenate, tuttavia, dal sentore che i sentimenti, in fondo, sono un’insensatezza. La bellezza di Julie era articolata, l’intelligenza piena di labirinti e di malizie, di angeli-pupari: una visita al castello della lontana parente, Madame du Deffand, le impedì di marcire in provincia – o, peggio, tra le spire della clausura.

Protagonista di uno dei salotti più in voga di Parigi, Madame du Deffand fece di Julie la propria assistente, la propria confidente, il bocciolo da ostentare – sapeva essere crudele fino alla volgarità, consentì alla parente le prelibatezze del nubilato. Quando Madame si accorse che la piccola Julie tramava alle sue spalle, magnetizzando parte dei nobili, degli intellettuali e dei filosofi che frequentavano il suo salon, la cacciò di casa. Julie l’aveva assistita per dieci anni: nel piccolo appartamento in rue Saint-Dominique, che aveva ricevuto in eredità, fondò uno dei salotti più celebrati di Francia. Il genio era d’Alembert, gli astri erano Hélvétius, Rousseau, Voltaire, la divinità, l’incontrastata musa, era lei, Julie. Sapeva gestire il salotto con sovrannaturale grazia, alternando l’aforisma al pettegolezzo, il motto di spirito alle esigenze della spiritualità; spesso emendava gli scritti di d’Alembert; di norma, nel suo appartamento, un apprendistato alla vita verticale, si proclamavano le idee dominanti, si assegnavano i posti dell’Académie. La Lespinasse riceveva di martedì. In Le Rêve de D’Alembert, scritto nel 1769, Denis Diderot canonizza quel mondo, mettendo in scena un dialogo filosofico in cui la protagonista è proprio Julie.

Ciò che affascina in Julie, però, è che di quel mondo di salotti – autentico parlamento del tempo, un tempio – fu il cardine e il rogo, il cardinale e il discredito, la massima espressione e l’assoluta eresiarca; forse a causa della nascita illegittima, che l’ha legittimata a sverginare le pavida falsità degli intellettuali da salotto, la penuria sotto la coltre di parrucche, belletti, sofismi. Julie fu forgiata, per così dire, da due amori assoluti: il primo, conclamato, ne fece un’eroina disfatta; del secondo, semplicemente, morì. La passione per Gonçalve, marchese di Mora, giunto a Parigi al seguito del padre, ambasciatore di Spagna presso la corte di Luigi XV, era nota a tutti. Lui aveva 26 anni, lei 34; si amarono, come vuole il copione, tra mille impedimenti. Julie aveva fama di donna sofisticata e famelica, era malvista dall’altolocata famiglia del Mora; lui, spesso in Spagna, ne era sedotto, a unghiate. Naturalmente, è la morte, il sotterfugio, l’impossibilità a dare a una passione – come tale, passeggera – il nitore dell’amore da leggenda. Promosso generale di brigata a Valencia, il marchese di Mora muore nel maggio del 1774, sui Pirenei, mentre viaggia verso Bordeaux. “Stavo per tornare da te – mi coglie la morte. Che destino terribile! Ma è dolce morire per te”, le scrive il marchese. Alle mani, due anelli, che saranno spediti a Julie: uno contiene, nel retro dell’ovale, una ciocca di capelli della Lespinasse, l’altro reca incisa una frase: “Tutto passa, tranne l’amore”. La morte del marchese fulminò Julie, che pensò per un momento di uccidersi, con l’oppio – due anni prima aveva incontrato il conte de Guibert, più giovane di lei, pure lui, eroe della guerra dei Sette Anni, i cui manuali di strategia militare saranno apprezzati da Federico II di Prussia e messi a frutto dal generale Bonaparte. Jacques de Guibert fu la passione, spossante, assoluta della Lespinasse:

“Julie si abbandona fra le braccia di Guibert, e Mora muore: questa, almeno, è l’immagine evocata con rimpianto, e forse con esibizione, dalle lettere. Di qui ha inizio il rimorso e il martirio, continuamente conclamati, che daranno vita a un epistolario tra i documenti più vivi e tumultuosi dell’amore femminile”.

Elena Aschieri, in: Julie de Lespinasse, “Lettere d’amore”, Sellerio, 1997, p.48

Perché l’amore sia tale, va da sé, dev’essere insensato, assecondare la sequela della crocefissione, del sacro abbandono, dell’estasi che si volta in tumulo. In questo caso, l’amore è dispari: Guibert sfrutta Julie ed è autenticamente incantato dalla sua intelligenza, dalla ferocia della sua sagacia – in fondo, obbedisce alla bellezza. Nel 1775 sposerà Alexandrine, nobile poco più che diciottenne; Julie, consapevole che si ama sempre per esserne sconfitti, resterà al fianco di Guibert, diventandone la non richiesta confidente. Morirà poco dopo, nel maggio del 1776, rotta dalla tisi. Da tempo, le alte discussioni intrattenuto nel suo salon le parevano vane, vaghe, la fantasticheria di un demente, e il mondo – che all’epoca coincideva con il salotto – un’orgia di esangui salottieri. “Amico mio, vi amo: questo è un calmante che intorpidisce il mio dolore. Tocca solo a voi tramutarlo in veleno e, fra tutti i veleni, sarà il più rapido e il più violento”, scrive, pochi giorni prima di morire, al suo perduto Guibert. Aveva il coraggio di amare – che significa: amare senza essere corrisposti, e dirne, amare perfino il rifiuto, come quell’altra, l’eroica (ma fittizia) monaca portoghese, Mariana Alcoforado. Ogni lettera è sempre inscenare l’amore, investire di sé la morte.

Certo, è stupefacente che proprio l’epoca dell’Encyclopédie – di cui Julie de Lespinasse fu il sole – assista al capriccio, consacrato, dell’amore irrisolto, privo di canone e di alfabeto, infine inutile. Con vizio enciclopedico, nelle sue lettere, un capolavoro di stile – perciò, privato, poiché ogni pubblico sarebbe una privazione del talento, per sua natura esclusivo, pronto soltanto al tu-per-tu – Julie disseziona l’irrazionale dell’amare. L’epoca dei lumi che s’inoltra nella notte oscura dell’amore, e ne esce sonnambula, irrisa: bava di luce nell’oscurità, non fa che sostituire ombra a ombra, a procreare dubbi. Per capire l’anima immane di Julie bisogna alternare la lettura di Diderot a quella di Giovanni della Croce, temperare Voltaire con Teresa d’Avila.

Non ha bisogno di seguaci chi intraprende la sequela d’amore.

Naturalmente, la corrispondenza tra Julie de Lespinasse e il conte de Guibert – di cui contano le lettere di lei, ricalcate in calce all’articolo – uscì postuma, nel 1809, per la cura della moglie di lui, ormai vedova. L’epistolario destò scandalo, perché dimostrava, soprattutto, che il salon è nulla rispetto all’alcova dell’anima, alla tiara-tara dell’amare. Che sia la moglie di Guibert ad aver scelto di pubblicare le lettere dell’autentica amante di lui, conferisce all’opera il valore di un segno, di un pegno.

Non si può amare, in effetti, se non scrivendo, per fiumane di lettere.

Julie de Lespinasse, svenevole e delinquente insieme, diventò la santa di chi ama l’amore, inscrivendosi in corrispondenze clamorose, audaci, totalizzanti, teatrali. Non è un caso che l’epistolario di Julie de Lespinasse fosse tra le letture predilette di Marina Cvetaeva – così ne scrive, il 9 settembre del 1928, ad Anna Teskova: “Avete mai letto, cara Anna Antonovna, le lettere di M.lle de Lespinasse (XVIII sec.)? Se non le avete lette, permettetemi di regalarvele. Che cosa sono io di fronte a questa Liebende! (Se non scrivessi poesie, sarei lei – e meglio!)”. Anche lei, la “stanca Julie de Lespinasse”, le era stata consegnata da Rainer Maria Rilke, che installa Julie, nei Quaderni di Malte Laurids Brigge, tra le somme “abbandonate”: Eloisa, la monaca portoghese, la contessa di Die, Louise Labé, mademoiselle Aïssé… dando all’abbandono carattere di annunciazione. Quelle stesse donne che Cristina Campo fa sue nel progettato “Libro delle Ottanta poetesse”, dove la prepotenza della mistica si fonde ai languori della lascivia, il corpo scritto è esibito, il mondano è il foyer dell’ultramondano, il pettegolezzo sfida per intensità l’apoftegma. Nel 1928 l’editore Formiggini aveva pubblicato una scelta dalle Lettere della Lespinasse, tradotte da Alceste Bisi e introdotte dalla scrittrice sarda Mercede Mundula (trasferitasi a Roma, in amicizia con Grazia Deledda).

Come si sa, il vero capolavoro della Campo sono le lettere – cioè, mettersi nelle mani degli altri, scoscendere tra estranei. Esiste dedizione più rabbiosa, dissipazione più grande? È l’altro – sempre in difetto – garanzia della tua sopravvivenza, o della tua fine. Le lettere sono immortali proprio per la facilità con cui ce ne possiamo disfare.  

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Julie de Lespinasse, Lettere d’amore

22 agosto 1773

Vi parlo forse per l’ultima volta. Vi rendete conto della situazione di terrore in cui mi trovo? Non oso permettermi né progetti, né speranze. Ah! avevo sofferto molto per l’ingiustizia e la malvagità degli uomini; mi avevano ridotta alla disperazione; ma bisogna ammetterlo, non esiste sventura paragonabile a quella di una passione profonda e sfortunata: essa ha cancellato dieci anni di supplizio. Mi sembra di vivere solo da quando amo: tutto quello che mi addolorava, tutto quello che mi aveva reso infelice fino a quel momento si è annullato; e tuttavia, agli occhi delle persone posate e ragionevoli, dovrei essere infelice solo per ciò che non provo più; esse chiamano le passioni sventure fittizie.

Ahimè! Il fatto è che non amano nulla, non vivono se non di vanità e ambizione; e io vivo solo per amare. Non so più adattarmi al modo di vita né agli interessi della società; di più, non sarei capace di portare a termine nessun compito. Non ho nessuna virtù, ma fortunatamente sono libera, sono indipendente, e, abbandonandomi interamente al mio stato d’animo, non provo nessun rimorso perché non faccio torto a nessuno.

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Lunedì 6 settembre 1773

Oh, vi odio perché mi fate conoscere la speranza, il timore, la pena, il piacere; non avevo bisogno di questa emozione: perché non mi lasciate in pace? Il mio animo non aveva bisogno di amare: era colmo di un sentimento tenero, profondo, condiviso, ricambiato, ma tuttavia doloroso, ed è questa emozione che mi ha avvicinato a voi; dovevate solo piacermi, e invece mi avete commossa: consolandomi mi avete legata a voi; ma la cosa più sorprendente è che il bene che mi avete fatto, e che ho ricevuto senza dare il mio assenso, lungi dal rendermi docile e duttile come le persone che ricevono delle gentilezze, sembra invece avermi procurato il diritto di aspettare e forse di esigere qualcosa dalla vostra amicizia. Voi che vedete le cose con distacco e vedete nel profondo, spiegatemi se questo è il meccanismo di un animo ingrato, o forse troppo sensibile; quel che mi direte lo crederò…

Vivo, esisto così intensamente, che ci sono momenti in cui mi sorprendo ad amare follemente perfino la mia infelicità! Considerate se effettivamente non devo tenere ad essa, se non deve essermi cara; per causa sua io vi conosco, vi amo, forse avrò un amico in più, poiché voi stesso me lo dite: se fossi stata calma, ragionevole, fredda, nulla di tutto ciò sarebbe capitato. Vegeterei come tutte le donne che agitano il ventaglio conversando dell’ingresso della contessa di Provenza a Parigi. Sì, lo ripeto, preferisco la mia infelicità a tutto ciò che la gente di mondo chiama felicità o piacere; ne morirò forse, ma questo è meglio che non aver mai vissuto.

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Venerdì 23 settembre 1774

Amico mio, siete la mia vittima: vi scrivo fino a sfinirvi. È la sola occupazione che mi faccia credere che sono ancora in vita e, nonostante io creda che essere davvero morta sia lo stato migliore, tuttavia, quando soffro, provo dolcezza nel rivolgermi ancora a voi. Se non mi capite, almeno mi ascolterete e mi risponderete; poiché è molto triste non avere vostre lettere. Ecco persi due corrieri postali: lunedì e mercoledì; e me lo sono provocato io questo male, perché voi, pur senza amarmi, avreste continuato puntualmente a scrivermi. Ah, buon Dio, a quali eccessi sono stata indotta! Vi ho amato e odiato con furore: era sicuramente l’ultimo slancio di un sentimento sul punto di scomparire per sempre; poiché, sul mio onore, non ne ho più sentito parlare, non so che cosa sia divenuto…

Amico mio, cercate di immaginarvelo se potete, ma bisogna che vi dica che non è una felicità, non è un piacere, non è nemmeno una consolazione l’essere amati – e molto amati – da qualcuno che ha poca, pochissima finezza di spirito. Oh, quanto mi odio per il fatto di poter amare solo ciò che eccelle! Come sono diventata difficile!

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Domenica, le dieci di sera, 13 novembre 1774

Amico mio, mi fate male, e il sentimento che mi pervade è una grande maledizione per voi e per me. Avevate ragione a dirmi che non avevate bisogno di essere amato come io so amare; no, non è questa la vostra misura: voi siete un oggetto d’amore così perfetto che dovete essere o diventare il primo interesse di tutte quelle donne che esibiscono tutto ciò che si portano dentro e che sono così amabili da amar se stesse più di ogni altra cosa. Sarete il diletto, soddisferete la vanità di quasi tutte le donne. Per quale fatalità mai mi avete trattenuta in vita, e mi fate morire d’inquietudine e di dolore? Amico mio, non mi lamento affatto, ma soffro perché non date alcun peso alla mia pace; questo pensiero ora raggela ora strazia il mio cuore.

Come si fa ad avere un momento di tranquillità con un uomo che ha la testa che cambia direzione come la sua carrozza, che non dà nessuna importanza ai pericoli, che non prevede mai nulla, che è incapace di attenzioni, di puntualità, e al quale non capita mai di fare ciò che ha progettato? In breve, con un uomo che vive seguendo il caso, trascinato da tutto, un uomo che nulla può fermare né rendere stabile? Dio mio, è per la vostra collera, per l’eccesso della vostra vendetta che mi avete condannata ad amare, ad adorare ciò che doveva essere il tormento e la disperazione del mio animo!

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Martedì, undici di sera, marzo 1775

Ho rifiutato di passare la serata con due persone che si amano per parlare con colui che amo, per occuparmi di lui con più tranquillità e piacere di quanto non ne avrei avuto in compagnia di altri: costoro non avrebbero avuto il potere di distrarmi del tutto, ma è un male essere distolti da ciò che piace e interessa. Amico mio, la solitudine ha un grande fascino per un animo occupato. Dio mio, quanto si vive intensamente quando si è morti per tutto tranne che per quello scopo che per voi è l’universo intero, e che si impossessa talmente di tutte le vostre facoltà da rendere impossibile vivere in situazioni diverse da quelle in cui si è!

Ah!, come potete pretendere che io vi dica se vi amerò fra tre mesi? Come potrei col pensiero distrarmi dal mio sentimento? Vorreste che quando vi vedo, quando la vostra presenza affascina i miei sensi e il mio animo, io potessi rendervi conto dell’impressione che riceverò dal vostro matrimonio? Amico mio, non ne so nulla, ma proprio nulla. Se questo mi guarisse, ve lo direi, e voi siete abbastanza corretto per non biasimarmi; se invece dovesse portare la disperazione nel mio animo, non mi lamenterei affatto, e soffrirei per poco tempo, e allora voi sareste abbastanza sensibile e abbastanza onesto per approvare una soluzione che vi costerebbe solo rimpianti passeggeri e dalla quale la vostra nuova situazione vi distrarrebbe molto presto. E vi assicuro che questo pensiero è consolante per me; mi sento più libera.

Non domandatemi più, dunque, che cosa farò quando avrete legato la vostra vita a un’altra; se avessi solo vanità e amor proprio sarei molto più illuminata su quello che proverò allora; non ci sono equivoci nei calcoli dell’amor proprio, esso prevede con sufficiente esattezza. La passione non ha assolutamente avvenire; così, dicendovi “vi amo”, vi dico tutto ciò che so e tutto ciò che sento. Non do nessun valore a quella costanza imposta dalla ragione, e più spesso ancora da piccoli interessi di società e di vanità che io disprezzo con tutti il mio animo. Né stimo di più quella piatta energia interiore che fa soffrire quando si può evitarlo, e che fa impegnare la ragione e la forza a tramutare un sentimento vivo in una fredda abitudine. Tutti questi sotterfugi con se stessi, tutte queste regole di comportamento con quelli che amiamo, mi sembrano l’esercizio della falsità e della simulazioni, le risorse della vanità e i bisogni della debolezza.

Julie de Lespinasse

Traduzione di Elena Aschieri, in: Julie de Lespinasse, “Lettere d’amore”, Sellerio, 1997

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