01 Agosto 2019

“Uno spettro demoniaco e guardone spira attraverso l’oscurità di questo libro, beffandoci”: su “Pierre, o delle Ambiguità”, il romanzo che avrebbe potuto scrivere il capitano Achab e che sancì il disastro letterario di Herman Melville

Fettine di balena bianca per il signor Melville. Nel 1851 Herman Melville, il possente Mosè della letteratura americana, pubblica il suo capolavoro, Moby Dick. Sappiamo l’esito commerciale del “più bizzarro e meraviglioso libro al mondo” (D. H. Lawrence): 3200 copie vendute lungo l’arco, lunghissimo, della vita del suo autore (Melville se ne va nel 1891); tre edizioni negli Stati Uniti (l’ultima nel 1871), soltanto una in Inghilterra. Noto come scrittore di bizzosi e retorici reportage dalle terre del Sud, adornati da titoli strambi (Typee, Omoo, Mardi), a Melville fu perdonata la cavalcata sulla Balena Bianca. Tuttavia, la carne di capodoglio, servita in salsa shakespeariana e con contorno biblico, risultò indigesta ai lettori del tempo. La situazione psicofisica in cui si trovava il più grande scrittore americano di sempre – ma né lui né i suoi simili erano consapevoli di tale titanica grandezza – nel 1856 ce la descrive Nathaniel Hawthorne, l’amico fraterno, lo scrittore a cui è dedicata, capodoglio in bottiglia, la Balena Bianca, nelle pagine del diario. “Melville, come sempre fa, ha cominciato a discorrere della Provvidenza e dell’avvenire e di tutto ciò che trascende l’umana comprensione, informandomi d’essersi praticamente deciso a lasciarsi annichilire. Non pare tuttavia trovar pace in tale prospettiva, e, credo, non s’acqueterà mai finché non sarà in possesso d’una fede sicura. È strano come persista – e abbia persistito da che lo conosco, e probabilmente da molto prima, nel vagare su e giù per questi deserti, lugubri e monotoni quanto le alture sabbiose tra cui ce ne stavamo seduti. Non può credere né trovar quiete nella sua mancanza di fede, ed è troppo onesto e coraggioso per non tentare l’una o l’altra cosa”.

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Hawthorne fa riferimento a “disturbi nevralgici al capo e agli arti”, frutto “d’un impegno costante, perseguito di recente senza gran successo”. Hawthorne scrive da Liverpool, il 20 novembre, racconta l’incontro con l’amico, accaduto una settimana prima, in Consolato, “prima aveva fatto la traversata da New York a Glasgow a bordo d’un vapore a elica, e aveva già visitato Edimburgo e altre località interessanti”. Incontenibile vagabondo, figura errante, Mosè in esilio senza popolo né Dio, “se fosse religioso sarebbe uno degli uomini più sinceramente religiosi e pii; la sua è una natura assai nobile ed elevata, e merita l’immortalità più della maggior parte di noi”. Nel 1852, un anno dopo la Balena Bianca, Melville pubblicò quello che secondo Cesare Pavese è “il romanzo che avrebbe potuto scrivere il capitano Achab”. In estate, il 6 agosto, Harper & Brothers, lo stesso editore della Balena Bianca, edita Pierre, or, The Ambiguites. In novembre il libro sbarca in Inghilterra, distribuito e pubblicato da Sampson Low, Son & Co. Nel 1855 fu pubblicata una seconda edizione del romanzo, in 260 copie: ma soltanto perché un incendio aveva incenerito parte del magazzino dell’editore. Il romanzo fu un disastro, un falò delle assurdità. “Mardi, Moby Dick, Pierre, i tre lavori ai quali Melville pensava, più che agli altri, di affidare il suo nome per le loro qualità di rivelazione poetica, uno dopo l’altro caddero nella dimenticanza per l’immaturità d’un clima storico; e così Mardi fu considerato illeggibile, Moby Dick incomprensibile e in Pierre, creduto un libro largamente autobiografico, non si vide che inconsistenti fantasmi” (Luigi Berti).

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Compiere una rapida carrellata tra le recensioni dell’epoca rende misura del massacro. “Pierre è forse il romanzo più folle mai scritto. Ci sono scene di una forza incontenibile. I personaggi, incisi con penna incandescente, congiunti alla mole di concetti, svelano un intelletto, di cui è impossibile dubitare dell’energia e della profondità. Ma la quantità di imperfezioni è pressoché infinita. Comprare questo libro basandosi sulla reputazione di Melville, sarà uno spreco di denaro; e pensiamo che nessun uomo abbia sufficiente costanza per leggerlo” (Boston Post); “Ambiguità ce ne sono parecchie nella nuova opera di questo autore popolare; ma non c’è alcun dubbio sull’opinione che se ne farà il pubblico. Questo romanzo è un fallimento, che non ammette virtù né nell’architettura narrativa né nell’esecuzione stilistica” (York Albion); “Dobbiamo leggere questo libro come un vizio eccentrico della fantasia. La morale immorale della storia sembra essere l’impraticabilità della virtù: uno spettro demoniaco e guardone spira attraverso l’oscurità di questo libro, beffandoci con tale triste menzogna” (New York Literary World); “Melville ha deviato dalla legalità estetica cui deve attenersi un romanziere. Ma se giudichiamo male questo romanzo in quanto opera d’arte, la pensiamo infinitamente peggio riguardo alla sua proposta morale” (Richmond Southern Literary Messenger); “Un libro orrido! Affettato nella lingua, innaturale nella concezione, ripugnante nella trama, antiestetico nella costruzione. Questo è l’ultimo – e il peggiore – tra i lavori di Melville” (New York American Whig Review). Ce n’è da stroncare un capodoglio. In effetti, Pierre è il romanzo che sancisce la morte di un romanziere. Da allora Melville, che non ha perso affatto il genio della scrittura (di lì a poco scriverà alcuni limpidi capolavori come Benito Cerano, Bartleby lo scrivano, Le isole incantate), non tenterà più la traversata oceanica del romanzo.

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Ormai, tutti santificano Melville. Il Mosè della letteratura americana ha spalancato le acque mostrando le vie inaudite della narrativa. Alcuni lo ritengono il profeta del postmoderno; di certo le sue opere sono la terra promessa per chiunque cominci a baloccare con il vocabolario. Tuttavia, Melville è ancora oggetto di una clamorosa mistificazione. Di Moby Dick, ad esempio, abbiamo fatto una ciotola di tonno per poppanti delle scuole medie e gattini in crescita. Basta eliminare Melville, e Moby Dick diventa un pio racconto di avventure in mezzo all’oceano, un documentario di National Geographic, un film di cassetta. Per dire, nessuno ha avuto il coraggio di pubblicare come si deve Pierre, “la tragedia d’un Amleto americano; tragedia compiuta attraverso sforzi di personalità oscure, oscillanti fra un complicato e sigillato linguaggio e l’intima essenza del succo d’un’infanzia troppo spremuta e inebriata” (Berti). Edito – sulla scia della Balena Bianca arpionata da Pavese – da Einaudi nel 1942, nella straordinaria collana “Narratori stranieri tradotti”, per la cura di Luigi Berti (1904-1964), notevole intellettuale e poeta, tra l’altro apprezzato da Salvatore Quasimodo, fu poi stivato nel “Meridiano” Mondadori delle Opere scelte (1983), di fatto sparendo, sepolto nel disinteresse editoriale italico.

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Melville è eccessivo, ancora, sempre, accettabile finché parla di salsedine e pescioni e tropici. Il resto resta oggi ciò che era quel dì, bistecche di capodoglio indigeste. La bellezza di Pierre, eppure, è proprio, direbbe Rimbaud, nell’“enormità che diventa norma”, nell’estremismo come pratica quotidiana, domestica. Melville intende la letteratura come testo sacro, un non reticente commento alla Bibbia, che ostenti languori oscuri, astuzie, asperità. Se Moby Dick è esplorazione amniotica in Dio, rigoroso ingresso nei suoi orrori – quasi che sul corpo del Leviatano sia istoriato l’intero Testo – Pierre è indagine nell’uomo, non diversamente mostruosa, anzi, triplice bestia. “In Pierre la più audace filosofia dialettica è esposta: Cristo per noi è un rapinoso entusiasmo, annienta ogni altra legge, ma questo comporta una rivoluzione terribile, sconvolge il mondo quotidiano”, scrive Elémire Zolla introducendo, però, Clarel, il possente poema della vecchiaia che è, in fondo, l’altro emisfero di Pierre, la pia conclusione, da Manhattan a Gerusalemme. Se la Balena Bianca è esodo senza esito, Pierre tasta il tremendo tabù, l’incesto, in un tentativo di scalata all’Eden, di retrodatazione della purezza. Fino a che punto, infine, la purezza è possibile scandendo la colpa?

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I nomi parlano. In Moby Dick i riferimenti sinistri di questa stupefacente interpretazione dell’Esodo – come se il Mar Rosso, però, si fosse richiuso sopra la tribù di Mosè, il quale, lì per lì, abbia imparato l’arte marinara – sono chiari: Ismaele è il figlio che Abramo ha avuto dalla schiava Agar, il figlio sacrificato al deserto; Achab è il re infedele che si ribella alla parola del profeta Elia, è il sovrano marchiato da infamia e bestemmia. Riguardo a Pierre, una artefatta ricapitolazione del Genesi, passata al vaglio di Dante e di Shakespeare (“Dante l’aveva reso furioso, e Amleto aveva insinuato che non c’era nessuno da colpire”) sotto la supervisione di Goethe, i riferimenti sono meno immediati. Lucy è Lucia, la santa simboleggiata dagli occhi sul piatto, la veggente che estrae vittoria dal male; Isabel, invece, nei recessi biblici, è Izebel, nome ambiguo, dall’etimologia duplice (può essere “casta” oppure “amante di Baal”, cioè la donna delle divinità avverse), che nel Libro dei Re fa fine orrenda (“I cani divoreranno Izebel; nessuno la seppellirà”, 2 Re 9,10), sussurra al marito parole che lo seducono agli dèi stranieri, ostili al Dio dei Giudei: è la moglie di Achab. In questo modo, violentemente, Melville salda Moby Dick a Pierre: entrambi sono la storia – l’una primordiale, l’altra “culturale” – di una disfatta, redigono la vigorosa ricerca di un dio che si scopre straniero, ostile, sbagliato, infero. Resta, sbigottito, Pierre, una specie di Pietro dandy e decadente: un Pietro che è, per sua natura evangelica, l’ambiguo. Il discepolo prediletto, che esibisce il triplice tradimento. Quale chiesa può fondarsi sulle ambiguità di Pierre? Come Moby Dick è il referto di un esodo disastroso; così Pierre è l’implosione della cattedrale, l’ipotesi di una chiesa abortita. L’Eden, infine, voltato in Ade.

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Cos’era Herman Melville poco prima di pubblicare Moby Dick e Pierre lo scopriamo dal buco della serratura, da una lettera di Sophia Hawthorne, scritta alla mamma il 4 settembre del 1850, in cui racconta una visita dello scrittore al marito. “Il suo naso è dritto e piuttosto bello, la bocca esprime sensibilità ed emozione. È alto e dritto, con un’aria libera, coraggiosa e virile. Quando parla è ricco di gesti e forza e si perde nell’argomento. Il suo è uno sguardo strano, pigro, ma con una forza abbastanza unica. Non sembra attraversarti, ma prenderti dentro di sé”. Quarant’anni dopo, il vecchio Melville sembra interpretare Achab. “Per quanto fosse un parlatore affascinante quando era in vena, era anormale, come la maggior parte dei geni, e andava trattato con cautela”, ricorda il pittore Peter Toft, che stanò lo scrittore a New York. Melville, lo scrittore sognava Paradisi tropicali. “Mio caro Hawthorne, nell’eternità a venire tu ed io ci sederemo da soli in un cantuccio ombroso del Paradiso; e se saremo capaci in qualche modo di contrabbandarvi un cesto di champagne (io non voglio credere ad un Cielo della Temperanza), e se allora incroceremo le gambe celesti sull’erba celeste che è sempre tropicale, e incoccheremo bicchieri e teste, finché tutt’e due non risuonino musicalmente all’unisono – oh, allora, mio fratello mortale, converseremo piacevolmente delle infinite cose che ora ci angustiano – quando tutta la terra sarà un semplice ricordo, e apparirà lontanissima la sua dissoluzione finale”. Era il 1851, era di Leviatani e di ambiguità. Reduce dalle baleniere, clamorosamente incompreso, senzadio, Melville sogna la quiete dell’amicizia.

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Cosa ci dice ancora Melville? Che ogni atto di scrittura – poesia, prosa, lettera, racconto, romanzo, poema, per Herman non esistono più generi, tutto congiura creando una sola, immane, mefistofelica opera – è definitivo. Che ogni libro è il primo e l’ultimo. Un sacrificio totale, che non ammette perdono né lettura pia. Un esordio perpetuo. In fondo, un fallimento. Perché la morte è necessaria per ridonare atto alla vita. Melville è il primo scrittore che, sulla propria pelle, teorizza il romanzo definitivo, sepolcrale e assoluto. Dopo di lui verranno i Faulkner, i Joyce, i Kafka, gli Hermann Broch, i Céline. Scrittori per cui la scrittura è martirio e ossessione, voragine. Melville, rivoltoso, rivoltante Mosè, riscrive la Bibbia, ridà in mano a Dio le Leggi sconvolte e disumanizzate. La sua Gerusalemme non può che essere sconforto e solitudine. Deserto.

Davide Brullo

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Si riproduce il primo capitolo di “Pierre, o delle ambiguità”, secondo la versione di Luigi Berti (Einaudi, 1942), riprodotta da Guaraldi nel 2015

In campagna ci sono strani mattini d’estate, nei quali il forestiere, che dalla città viene per i campi, resta come in estasi davanti all’aspetto del mondo verde e dorato. Non un fiore si muove; gli alberi dimenticano di dondolarsi; l’erba stessa sembra aver cessato di crescere; e tutta la natura, come se fosse divenuta cosciente del suo profondo mistero, e non avesse trovato altro rifugio oltre il silenzio, s’immerge in questo riposo meraviglioso e indicibile. Così era quel mattino di giugno in cui Pierre, rinfrescato dalla rugiada e spiritualizzato dal sonno, uscì dall’antica dimora dei suoi avi, dagli alti frontoni nascosti nei boschetti che la circondavano, e allegramente s’inoltrò sotto la volta degli orni che fiancheggiavano la lunga e larga strada del villaggio, e si diresse quasi inconsapevolmente verso un cottage che si scorgeva in fondo al viale. Commosso e come stregato dalla magia di questo silenzio, Pierre si avvicinò al cottage, alzò gli occhi e si fermò bruscamente, con lo sguardo fisso in alto, su una finestra aperta. Perché quella sosta giovanile e appassionata? Perché quella fiamma nello sguardo e sul volto? Sul davanzale della finestra giaceva un guanciale d’un candore di neve e d’un colore cangiante, sul quale un arbusto che penzolava deponeva un grosso fiore cremisi. “Puoi ben cercare quel guanciale, fiore odoroso;” pensò Pierre “non è un’ora che la sua guancia ci s’è posata”. «Lucy!». «Pierre!».

Come un cuore risuona in un cuore, così risuonarono per un istante quelle voci, nella radiosa tranquillità del mattino, e i due si guardarono in silenzio, ma ardentemente, contemplando l’uno nell’altro il riflesso di un’ammirazione e d’un amore senza limiti. «Non altri che Pierre» disse il giovane sorridendo. «Hai dimenticato di darmi il buon giorno». «Sarebbe poco un buon giorno solo. Buoni mattini, buone sere, buoni giorni, e settimane, e mesi, e anni a te, Pierre; magnifico Pierre!». “Veramente,” pensò il giovane, con un calmo sguardo d’inesprimibile tenerezza “veramente i cieli s’aprono e quest’angelo invocante guarda verso la terra”. «Ti ricambierò i tuoi buon giorni, Lucy, ma sarebbe lo stesso pretendere che tu emergessi dalla notte, mi sia invece testimonio il cielo che tu appartieni agli spazi d’un giorno infinito!». «Vergogna, Pierre! Perché voi uomini avete sempre da invocare il cielo quando volete bene a qualcuno?». «Perché in noi l’amore è profano, ed è col nostro involucro mortale che ci protendiamo verso il cielo che è in voi!». «Ecco che ancora divaghi, Pierre, e così riesci sempre a circuirmi. Perché voialtri uomini avete sempre tanta dolce abilità, nel trasformare ogni nostra inezia in vostri trofei?». «Non so perché, ma è stato sempre così». E scotendo il ramo della ginestra, fece cadere il fiore che si appuntò con ostentazione sul petto. «Ora me ne vado, Lucy; vedi! Marcerò sotto i tuoi colori!». «Bravissimo! Oh, mia sola recluta!».

Herman Melville

Gruppo MAGOG