Il lavoro più difficile è questo. Capire che il proprio bene è scorgere il bene che si annida negli altri. Questa non è una solfa religiosa, un teologico sofà – a meno che non diate un valore religioso alla letteratura.
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Diana Athill è morta a 101 anni, è stata l’ultimo jedi dell’editoria britannica, l’ultimo dei Mohicani di un modo di fare l’editor. La sua morte è la morte di un drago, ha la delicatezza del cigno. “Diana è stata uno dei più grandi editor del secolo scorso”, ha scritto Margaret Atwood, dando al ‘coccodrillo’ virtù di unicorno, su Granta.
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Diana è nata a Kensington, ma suo padre non era un Peter Pan, bensì un ufficiale dell’esercito. Stava bene. Ha vissuto, come ha scritto, così: “In casa si leggeva, all’aperto si andava a cavallo”. L’incontro con l’ungherese in esilio André Deutsch, nel 1943, le ha cambiato la vita. Deutsch era un genio nel vendere libri – e, a quanto malignano, nel fregare soldi agli autori. Tra le sue grinfie sono passati, tra gli altri, Jack Kerouac, John Updike, Norman Mailer, Wole Soyinka. “André era un uomo piccolo, seduto in una stanza troppo grande, dietro una scrivania enorme, e Diana, imponente, maestosa, stava in una specie di ufficio piccolo come un armadio per scope. Come ha scritto, candidamente, all’epoca una donna si riteneva fortunata anche soltanto a lavorare nel mondo dell’editoria”, ha ricordato la Atwood.
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In realtà, lo schema era chiaro. “André faceva affari… Diana lavorava ai libri, addolciva i rapporti tra André e i loro autori, cercava di rammendare i suoi danni” (ancora la Atwood). In assoluto. Si deve a questa donna carismatica e devota, con una grazia sublime nello scrivere – i suoi libri sono editi in Italia da Rizzoli, l’ultimo tradotto, Viva! Diario fiorentino è stato stampato da Bompiani nel 2017 – il successo più formidabile di Jean Rhys, Il grande mare dei Sargassi (“mai vista una persona tanto incompetente a vivere, ma forte come l’acciaio come artista”, ha detto); è stata al fianco di Philip Roth, ha corretto e commissionato i libri di VS Naipaul, ha dato anima – e stile – al successo di un autore anomalo come Mordecai Richler e a quello di una scrittrice “strana” – “mi trovava strana, io sono strana, ma non me lo disse mai” – come la Atwood.
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La sua arte, appunto, era quella di trarre il bene dagli scrittori. Di imbrigliarne il talento, se esso è sfuggente. Di farlo fuggire, se è tiepido. Costruire un libro è una lotta – è l’istituzione di un rapporto. E il lavoro dell’editor è quello di capire qual è la domanda che vuole sentirsi porre il proprio autore – qual è l’accusa che vorrebbe affrontare. “Era gentile. Sapeva come incoraggiarti. Era elegante ma non aveva pretesa. Ci ha insegnato l’arte di invecchiare. Sono stata molto fortunata ad averla nella mia vita”, scrive ancora la Atwood.
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Non è morta l’ultima degli editor leggendari: con la Athill è morto un modo di fare editoria. Dove, più che a pubblicare un libro di successo si pensava a pubblicare un buon libro certi che avrebbe avuto successo; più che sintonizzarsi su effimere ‘tendenze di mercato’ si cercava, con abilità da sismografo, di capire l’anima dello scrittore, di toccarlo con verbi adatti, capaci di distillare miele, di evocare l’urlo.