Quest’anno cade il cinquantenario della morte di Dino Buzzati, autore de Il deserto dei Tartari, di Un amore e di meravigliosi racconti e fiabe. Anniversario passato quasi del tutto sotto silenzio, come era già accaduto nel 2006 in occasione del centenario della nascita dello scrittore, bellunese di nascita e milanese di adozione. Nel 2006 il centenario aveva avuto invece una notevole eco in Francia, dove Buzzati è molto amato, come, tra parentesi, lo è anche Ignazio Silone, autore altrettanto trascurato in Italia. Buzzati, benché diventato milanese, incarnava quell’immaginario inquietante e visionario che accomuna gli scrittori del nostro “Nord Est” a quelli del mondo germanico e slavo (non per niente Buzzati è stato spesso accostato a Kafka, pretendendo addirittura che avesse voluto imitarlo): un immaginario legato anche alle montagne dolomitiche, ricche di leggende “celtiche” confluite in deliziose raccolte quali I monti pallidi e Il regno dei Fanes; montagne, per altro, sulle quali Buzzati amava arrampicarsi. Gli scrittori del Nord Est sono sempre apparsi un po’ estranei alla tradizione italiana classica che ha il suo asse portante tra Firenze e Roma, e poi anche, più a Sud, Napoli e la Sicilia, e come tali tenuti un po’ à l’écart, come direbbero i francesi, un po’ a distanza: basti pensare a Ippolito Nievo, il cui romanzo Le confessioni di un ottuagenario, non avendo trovato un editore, venne poi pubblicato postumo da Le Monnier, storica casa editrice fondata 27 anni prima a Firenze e oggi proprietà del Gruppo Mondadori. E qui mi scuso, ma non posso trattenermi dal fare una digressione curiosa: certo oggi ben pochi sanno che Nievo, perito a soli 30 anni in un misterioso naufragio nel 1861, aveva scritto poco prima, nel 1860, un breve romanzo di “fantascienza” intitolato Storia filosofica dei secoli futuri le cui “previsioni” si estendevano fino al 2222. Curioso è che, a partire dal 2066 (e fra un po’ ci siamo), avesse “previsto” una “creazione e moltiplicazione degli omuncoli”: profezia sorprendente data l’attuale direzione delle ricerche tecnologico-scientifiche che si ripromettono una sempre più massiccia sostituzione dei robot alle attività umane. Ippolito Nievo profeta del futuro come Giulio Verne? Bisognerebbe ritornarci sopra.

Ma, per continuare il nostro discorso, possiamo pensare anche a Svevo, esiliato per vent’anni dalla scena letteraria perché il suo italiano non era abbastanza buono, e anche a un grande poeta come Biagio Marin, lasciato in disparte anche quando è venuta di moda la “poesia in dialetto”.

Quindi, per tornare a Dino Buzzati, ho il sospetto che, molto amato da tanti lettori, la sua fama presso i letterati più “accademici” abbia risentito di quella sua certa estraneità al grande mainstream della letteratura nazionale e per tale motivo i suoi anniversari passino alquanto sotto silenzio. Ma non si tratta solo di questo. Ci sono altre ragioni che possono dar conto del fatto che questo scrittore, così amato dal pubblico, sia stato snobbato sul piano della critica. Penso che risultino chiaramente da questa intervista: condotta nella sua casa di Milano, in viale Vittorio Veneto, tre anni prima della morte, allora non certo prevedibile. Buzzati aveva 63 anni, si era sposato da tre, lavorava al Corriere e appariva in perfetta salute. Credo che oggi, ricordando la sua scomparsa, cinquant’anni fa, sia utile leggere, o rileggere, quelle sue risposte. E poi riprendere in mano le sue storie, così vive ancora oggi, quando tanti altri libri sono stati inghiottiti dal nulla, o quasi.

Donatella Bisutti   

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Capita qualche volta che il Padreterno, andando a controllare la catena di montaggio dove passano a una a una le anime destinate a essere inviate sulla terra, si accorga, che, per un inspiegabile errore, sono state fabbricate due anime per un corpo solo. E allora, che fare di questa anima in più? Non resta che ricorrere a una specie di collage e, per una volta, le due anime si adatteranno a una sistemazione di fortuna, andando entrambe ad abitare nello stesso corpo.

È quanto dev’essere accaduto per Dino Buzzati. “Stai attento, Dino”, deve avergli detto il Signore, “ti ho messo due anime invece di una. Mi dispiace, ma non posso farci niente. Vedi tu di cavartela, in qualche modo”. E a Dino Buzzati non rimase che accettare la situazione. Impresa non facile perché non solo si trattava di due anime diverse, ma addirittura opposte. La prima infatti era quella di un compìto galantuomo, di un figlio modello, del rampollo di una dinastia dalle tradizioni severe, amante della patria e della famiglia, pronto ad entusiasmarsi vedendo sfilare un esercito con le bandiere, a credere a cose in cui ben pochi credono ancora, come la lealtà, la bontà, la fede alla parola data, un timido e un sognatore capace di intendere la voce egli uccelli e del vento nel silenzio della montagna e di scrivere favole per bambini. L’altra invece era un’anima stravagante, in grado di trasformare un innocuo bruco in un terribile drago, intenta a cogliere nelle cose più tranquille l’aspetto mostruoso e inquietante e nella banalità quotidiana l’agguato dell’irreparabile; l’anima di un uomo che sarebbe stato disposto a infilarsi una calza rossa e una gialla e a uscire nelle sere buie con un cappelluccio nero da vampiro.

Buzzati si è arrangiato come ha potuto. Ha cercato di fare le cose con giustizia. Non ha dimostrato preferenze per un’anima o per l’altra, perché nessuna delle due si sentisse umiliata. Si è limitato a trattare ciascuna di esse in modo opposto a quello in cui l’avrebbe trattata un’altra persona qualunque. Ha incoraggiato la “normalità” e il “perbenismo” della sua prima anima, finché questa normalità, a forza di essere normale, è diventata stravaganza, e ha preso sottogamba la stravaganza dell’altra, fino a farla passare per qualcosa di assolutamente normale.

Dopo aver capovolto le cose a questo modo, Buzzati si è dichiarato soddisfatto e da allora riesce a vivere benissimo in condizioni in cui nessun altro forse ci sarebbe riuscito. E il capovolgimento non l’ha operato solo dentro di lui, che sarebbe il meno, ma è riuscito a realizzarlo anche nel mondo che gli sta attorno e questo bisogna tenerlo presente, se no si rischia di non capire affatto come stanno le cose.

Per questo, ad esempio, in casa sua, come nei suoi libri, sono le cose apparentemente più innocue ed offensive, le cose più bonarie a scoprire significati inquietanti, allucinanti e misteriosi, e le cose più assurde a sembrare inoffensive come giochi. Dopo essere stati a trovarlo, in quel soggiorno minuscolo dove si accozzano in straripante disordine le cose più disparate, quello che si ricorda con un brivido di inquietudine non sono i quadri di grandi bocche mostruose, le grottesche bambole dai lucidi occhi di vetro, le scatole piene di cappellini a sorpresa, gli zulù stralunati, i giaguari di pezza, i manifesti di Diabolik e i finti bassotti lunghi più di un metro o il pacco misterioso legato al centro di una cornice dorata, ma certe innocenti cose del buon tempo andato, il piccolo pianoforte in un angolo, il quadro di famiglia con il padre bambino fra i nonni e gli zii ancora giovani – abiti lunghi ombrellini e marsine –, quell’altro con le bambine in crinolina che si abbracciano nel parco di una villa, i bibelots, le donnine di biscuit, i vecchi oggettini d’argento, tutto un mondo passato, uno spento Ottocento capitato come per evocazione inquietante, imprevista, ingiustificata, nel soggiorno di un uomo che spesso si è divertito, nei suoi racconti, a giocare col tempo, passato e futuro.

Così, nella piccola anticamera, quello che importa non sono le vecchie stampe inglesi che riproducono la “casa del delitto” o i piccoli turchi in turbante che nel quadro lottano contro un gigantesco drago verde attorcigliato intorno a un albero ma, chissà perché, a mettere in apprensione è il portamantelli, da cui pendono diversi normalissimi cappotti scuri, ed è il basso soffitto rivestito in rosso, con le luci smorzate, ottimo esempio di arredamento moderno per una casa borghese, a far venire in mente, con un brivido, riverberi infernali. E la consolle? Ci sarà da fidarsi della consolle, che pure ha un’aria così innocente?

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Feroce presa in giro

Ma è in se stesso che Buzzati ha raggiunto la perfezione. A cominciare dalla voce. Una voce così compita, così educata, così attenta a non manifestare troppo intense emozioni che potrebbero urtare la sensibilità altrui, che è diventata tanto rarefatta, astratta, gelida da far pensare a una voce dall’oltretomba. Una voce da persona timida, con lunghe pause e silenzi in cui ci si aspetta che accada qualcosa, capace di intimidire e paralizzare chiunque. Una compitezza così assoluta, così priva di ironia – né un guizzo sulle labbra né un balenio negli occhi – da diventare la più feroce delle prese in giro.

Con buona educazione, Buzzati rinfaccia da anni ai suoi simili la vigliaccheria, la cecità mentale, l’avidità, l’imbecillità più totale. Con buona educazione ha trasformato le donne in mostri e tranquilli paesaggi in angosciose fini del mondo. Con buona educazione dice le cose più assurde, è capace per esempio di rispondere a chi gli domanda un’intervista: “Stanotte alle quattro all’angolo di viale Coni Zugna” e quello che sgomenta è che non ha affatto l’aria di scherzare.

Così come a forza di vestirsi di grigio e di nero, con un impeccabile gilet e un’irreprensibile cravatta nera, il colletto della camicia piccolino e rotondo, fatto su misura per lui dalla famosa camiceria Truzzi, e copiato pari pari da un ritratto di Lord Chamberlain il vecchio (il tempo delle calze spaiate e di gilet rossi è stato fugace ed è ormai tramontato), a forza di vestirsi con la correttezza dei gentiluomini di Bond Street, ha preso un’aria mefistofelica molto più subdola che se, dal taschino della giacca, gli spuntasse un diabolico ciuffo di coda.

Del resto c’è anche chi, dopo aver letto i suoi libri, dai primissimi che sembrano favole, come Barnabo delle montagne e Il segreto del Bosco vecchio, al famosissimo Deserto dei Tartari, a Paura alla Scala, a tutti gli altri racconti, a incontrarlo, Buzzati, in carne e ossa, a prima vista rimane deluso. Si aspetta che dica cose terribili, e non le dice. Si aspetta che parli della vita e della morte, dell’al di là e della fine del mondo. E lui zitto. E magari nel suo angolo se ne sta lì a disegnare. Si aspetta almeno che dica cose profonde, che parli di letteratura. Invece lui di queste cose non parla, perché lo troverebbe spiacevole, fuori luogo, maleducato e allora dice gentilmente delle cose qualsiasi, così banali, a volte, così ingenue, che tanti arrivano a giudicarlo uno sprovveduto.

Anche gli amici a volte, che pure gli vogliono bene, non possono fare a meno di trovarlo un pochino infantile. Possibile che non veda certe cose? Che non le capisca? Possibile che certi ricordi, che dovrebbero essere comuni, per lui non esistano, come se a quell’epoca, in quel momento, in quella situazione, lui non ci fosse mai stato? C’è stato, ma semplicemente, quelle cose, non le ha viste, invece ne ha viste altre, che gli altri non hanno notato e per lui sono importantissime. Ha visto, per esempio, una goccia che saliva le scale – e nessun altro se ne è accorto –, ma non sa niente della battaglia di Guadalajara, anzi forse non sa neppure che c’è stata una battaglia di Guadalajara. Però, se gli dite che c’è stata, sarà troppo educato per smentirvi.

Spesso non ascolta, o sembra che non ascolti. Quando lo si loda, visibilmente si compiace e ringrazia, come un bambino cui venga offerta una caramella, e questo gli viene rinfacciato come un’ennesima prova di ingenuità. Ma a forza di essere così distratto e cortese, così squisitamente ingenuo, certe volte vien fuori con delle battute capaci di scandalizzare chiunque. A forza di essere compito e sincero, è spesso più irritante degli anticonformisti.

D’altra parte, da uno che ha due anime, ci si può aspettare di tutto.

Buzzati è un uomo d’ordine, un borghese che si vanta di essere tale in un’epoca in cui essere borghese e diventato assai poco di moda. Lui non rinnega nulla. Non rinnega la famiglia dignitosa e severa – un po’ col monté, dicono i maligni – in cui è nato, gli fa piacere di essere stato educato rigidamente ai buoni principi e alle buone maniere. Ogni anno, d’estate, torna per qualche tempo nella vecchia casa di San Pellegrino, vicino a Belluno che, da quando la madre è morta, è rimasta ai quattro figli (Dino, Adriano il biologo, Augusto l’industriale e Nina, l’unica sorella, sposata con il conte Ramazzotti), Là è nato e ha trascorso le vacanze della sua infanzia (le scuole, invece, le ha fatte a Milano). Una bella casa fotografata di recente per un libro d’arte sulle ville venete. Ha affreschi sulla facciata, una cappella e montagne intorno, un po’ tristi.

Buzzati non rinnega gli insegnamenti ricevuti da ragazzo: ama ancora la patria, gli piacciono le bandiere, le divise. Però i suoi eserciti sono spesso eserciti di fantasmi e la sua fede nelle divise è in realtà la fede di uno scettico. “Sono militarista perché la vita militare dà una grande libertà. Cosa c’è di più bello, di più rassicurante di una vita in cui si sa esattamente che cosa si deve fare e non c’è l’angoscia di prendere decisioni?”.

Così, essendo uomo d’ordine, e contrario alle rivoluzioni, che tutte gli appaiono una “scorrettezza imperdonabile”, una deprecabile forma di maleducazione, gli basta poco, uno scherzetto da nulla, che so, un cataclisma improvviso, una bomba di cui si sente parlare ma non si sa se e quando scoppierà, per rivoluzionare nelle poche pagine di un racconto un intero equilibrio sociale. Dicono di lui che è fuori dal mondo perché non si interessa di politica, non è iscritto a nessun partito, non si ispira né a Marx né a Adam Smith, né a nessun’altra dottrina. Si affida solo a quella cosa superatissima che è il buon senso ed è la dimostrazione vivente di come il buon senso possa provocare terribili sconquassi.

Non è nemmeno considerato un intellettuale, un vero e proprio uomo di cultura. Non appartiene né ha mai appartenuto a correnti, a gruppi, a consorterie letterarie. Non vive più o meno in confraternita con i colleghi di mestiere. È impossibile chiedergli di teorizzare sulla letteratura, assurdo addirittura domandargli di esporre una tecnica del romanzo. È ben lontano dall’aver letto tutto quello che si deve aver letto. Quello che legge lo legge solo per gusto personale. Non parla di Joyce, o di Proust, o di Musil, ma dei racconti del terrore di Poe, dei libri di mare di Conrad, della “Montagna incantata” di Thomas Mann e dei fumetti di Diabolik.

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Bellissimi incubi

Il fatto è che, se la realtà vera non è quella che appare, ma qualcosa al di là di essa, più difficile da percepire, lui, per percepirla, ha uno speciale “filo diretto”. I suoi libri, infatti, i suoi racconti, spesso nascono dai sogni. “Faccio moltissimi sogni, sogni terribili, meravigliosi. Degli incubi bellissimi”, dichiara con quel suo sorriso freddo, assorto e dolce. E ricorda, con particolare piacere, tre incubi che ebbe da bambino. “Il primo era uno spicchio di luna, solo uno spicchio, però, perfettamente orizzontale, chissà perché mi svegliai urlando. Il secondo una testa di donna posata su un piatto, ma niente affatto macabra, con una collana di perle attorno alla fronte, che girava lentamente. Anni dopo, inspiegabilmente, ritrovai questa immagine in un libro. Il terzo fu alla vigilia di un’operazione. Sognai che mentre mi portavano in sala operatoria, una specie di diavolo mi diceva: ‘tu credi che ti operino, eh? Invece non esisti’. Voleva dire che ero già morto.” (Da questo incubo è nato poi il racconto di Un caso clinico).

Insomma, dove gli altri scrittori si armano di microscopio o di cannocchiale per osservare meglio la realtà, studiando società e costumi, storia, caratteri e ambienti, e a capire come stanno le cose ce la fanno spesso soltanto a metà, Buzzati non ha bisogno di nulla, per via di quel suo filo diretto con l’invisibile. Intimo, familiare, perfino rassicurante. Gli basta rifarsi ai suoi sogni di bambino.

In casa di Buzzati siamo andati di pomeriggio. Un pomeriggio d’inverno con le strade buie e gli alberi stillanti di neve fradicia. La casa è un grande palazzo stile Novecento, non troppo lontano dalla sede del Corriere, dove Buzzati, che è da quarant’anni redattore, si reca regolarmente ogni mattina, verso le undici e mezzo, fino all’ora di colazione. La chiamano “la casa della fontana” per via di una grande fontana che c’è nel cortile. Dieci piani. Un vecchio ascensore a grata. Buzzati è al quinto. Sulla porta c’è il suo nome in grandi lettere tracciate a matita, una “z” più alta dell’altra, la “b” più alta di tutte. Un po’ sbilenche.

In questa casa abita quasi l’intero clan Buzzati: un fratello, la sorella sposata, una nipote pure sposata, una cugina. Tutti hanno vivissimo il senso della grande famiglia. L’appartamento di Buzzati è piccolo, poco più di un pied-à-terre. Ci è venuto ad abitare dopo che aveva perso la madre, prima viveva già solo ma la sua vera casa era ancora quella di lei, e vi si recava a mangiare almeno una volta al giorno, e spesso a dormire. Quando si è sposato, due anni fa, ha mantenuto questo suo appartamentino di scapolo.

Pochi sanno del suo matrimonio. Anche in questa occasione lui ha fatto finta di niente. Si è sposato una mattina presto nella chiesetta di San Gottardo e per un po’ non l’ha detto a nessuno. Lei è una ragazza di ventisette anni, che ha un nome da commedia goldoniana, Almerina, è di Conegliano, ha un bel viso rotondo, una treccia nera legata stretta. Lui afferma che è una donna meravigliosa. Gli amici la definiscono “un uccellino”. È stata in collegio dalle suore francesi, per Natale regala ai cognati tovaglie ricamate da lei, è brava a fare quelle minestre di riso e verdure che sono dette “alla veneta”. Prima di sposarlo non aveva nemmeno letto un libro di Buzzati. Li ha letti dopo, ma non tutti. Non dà peso ai suoi incubi e ai suoi mostri.

Buzzati con le donne è sempre stato timido, forse perché in casa sua, da ragazzo, ne vedeva poche e le domestiche che assumeva sua madre, per prudenza erano tutte vecchie e brutte. Perciò probabilmente nei suoi racconti per tanto tempo non c’è mai stata una donna, i suoi fratelli non si sono mai sposati e lui stesso ha deciso di farlo solo a sessant’anni. Da questa timidezza Almerina sembra averlo guarito. Ha imparato a sciare, anche se non è sportiva, per fargli compagnia. È capace di guidare la macchina per ore. Gli fa in po’ da segretaria. Lo accompagna quando parte per un “servizio” perché lui odia viaggiare da solo. Ma non strafà. Non si atteggia a moglie del celebre scrittore. E, in verità, ha tutta l’aria di prenderlo un po’ sottogamba. Il che non gli dispiace.

La casa è rimasta piccola, dunque, e in essa, il diligente, metodico, zelante Buzzati vive nel disordine e nel rumore. Le luci smorzate degli abat-jour e della grande lampada da tavolo pieghevole gettano lunghe ombre sulle pile di libri che sembrano dover franare da un momento all’altro sui fantocci e le scatole di cartone, le bambole e gli orsi, mentre i quadri con le montagne simili a torrioni nelle cui viscere si aprono allucinanti e rotondi tramonti e i grandi uomini robot stanno per piombare da un momento all’altro dal soffitto.

In questa quieta pazzia degli oggetti vibrano altissime le note della filodiffusione. Bisogna parlare forte per farsi sentire. A Buzzati, questo amante dei grandi silenzi delle montagne (montagne che però poi crollano come fortezze abbandonate o si liquefanno, o diventano lisce e inaccessibili come quell’altro suo grande incubo verticale, i grattacieli di New York), un sottofondo di continuo rumore è indispensabile. Un uomo con due anime spesso soffre la solitudine più di un uomo con un’anima sola.

Fino a poco tempo fa, per scrivere gli erano indispensabili dischi di musica sud americana, soprattutto ballate che parlavano di morti amori rivoluzioni. Adesso si affida a quello che offre il programma.

Abituato com’è ad essere immerso in questa confusione di suoni tutto il giorno, probabilmente per lui ormai il fragore equivale al silenzio, quindi il trillo del telefono lo infastidisce. La redazione del giornale ha ordini severissimi di non rivelarne il numero a nessuno. Quando il dannato apparecchio squilla, Buzzati ha un gesto di fastidio che, in una persona meno compita di lui, diventerebbe una parolaccia.

È seduto sulla scrivania e disegna. “Io devo disegnare, le dispiace?”, chiede con quella sua voce nasale, strascicata, mentre dalla filodiffusione vengono le note tempestose di un boogie.

Da alcuni anni Buzzati si è scoperto pittore. A dir la verità ha sempre disegnato. Ha incominciato a dipingere e a disegnare ancora prima che a scrivere, da bambino. Era un modo di difendersi dalle sue molte paure (la paura del buio, ad esempio, e ancor oggi dorme con la luce accesa, non dovesse mai svegliarsi di colpo durante uno dei suoi incubi “bellissimi” e scoprire che proprio là, ai piedi del letto, c’è, tutto verde e squamoso, un marziano. O un rospo. O un rospo camuffato da marziano). Era un modo di difendersi da quelle montagne grige su cui poi, forse per sfatare il sogno, si è più volte arrampicato fino a un paio di anni fa (terzo grado capocordata, quinto grado secondo di cordata). O da tutti quegli antenati così seri, così severi, professori, come il padre, che insegnava diritto internazionale e morì quando lui aveva solo quattordici anni, o ispettori, come lo zio, o magistrati. O della rigida fraulein che gli insegnava il tedesco (che ora, dice, ha dimenticato. “Non ho memoria”, gli piace infatti affermare, e invece certi particolari, anche a distanza di trent’anni, poi li ricorda benissimo).

*

“Sono un grande pittore”

A scrivere invece cominciò a quattordici anni, con un poema su Anubis, il dio sciacallo degli egizi. Allora era appassionato di egittologia. Un poema che purtroppo è andato perduto. Ma solo da qualche anno si è messo a dipingere sul serio. E anche qui ha fatto del suo meglio per capovolgere le cose. Presentando un catalogo delle sue opere, recentemente ha scritto: “Il fatto è questo: io mi trovo vittima di un crudele equivoco. Sono un pittore il quale, per hobby, ha fatto anche lo scrittore e il giornalista”. Perciò si lamenta che pochi lo prendano sul serio, che i più insistano, scioccamente, a considerarlo uno scrittore che ha l’hobby di dipingere.

Lui invece non ha dubbi. Quando dice col suo solito tono compito e banale: “io sono un grande pittore”, è da escludere che si tratti di un falso orgoglio e stia facendo dell’ironia.

I suoi quadri, del resto, sono la trasposizione visiva delle sue storie, e viceversa. Il mondo di Buzzati, che scriva o che dipinga, è sempre lo stesso mondo. Un mondo dove i pianeti si scontrano in una sera qualsiasi, e la gente si sveglia di soprassalto sentendo abbaiare un cane.

Dei suoi quadri, alle pareti – o meglio appoggiati sopra gli scaffali della libreria – ce ne sono soltanto tre: una enorme bocca di donna con una matita infilata fra i denti, una bambola vestita delle sole calze di rete su uno sfondo idilliaco di montagne, e il Duomo di Milano trasformato in guglie dolomitiche di un cereo biancore, con un bel Prato verde davanti e questa è forse la sua opera più famosa. Gli altri quadri li ha in consegna il suo mercante d’arte, Cortina. Una quotazione precisa Buzzati pittore non l’ha, però c’è già chi, in Italia, li ha pagati fino a 600.000 lire. All’estero è andato più su. Ultimamente uno l’ha acquistato Gunther Sachs, per 2.500 dollari. “E questo vorrei che lo scrivesse.”

Chi viene dunque a intervistare Buzzati scrittore, si accorge di aver sbagliato porta. In realtà è venuto a intervistare un pittore. Solo su questo punto, lui, così anticonformista a forza di essere conformista, diventa bassamente avido di lodi. “Le piace? È bello, no?”, chiede allontanando il foglio e guardandolo a occhi socchiusi, la testa reclinata all’indietro. E solo su questo argomento è disposto a fare lunghi discorsi.

Così, mentre parliamo, lui continua a disegnare. Meticoloso, diligente e preciso come quando scrive le sue storie sui grandi quaderni da scuola elementare con una calligrafia infantile, ordinata, minutissima, spesso in colonnine che sembrano poesie. Ogni tanto raschia via una sbavatura con una lametta da barba, traccia una linea con la riga, cancella con una grande gomma verde. Poi ripassa il segno a matita con la stilografica d’oro. Adopera, per i suoi disegni, strumenti da ragioniere.

Come scrittore, non usa la scrivania: scrive, a mano o a macchina, seduto sul divanetto verde nell’angolo della finestra. Perciò, a forza di tenere la macchina sulle ginocchia, ha sempre i pantaloni lucidi, anche se qualche volta si ricorda di metterci sopra, per protezione, un cuscinetto di lana rossa. Come pittore, invece, non usa il cavalletto, si siede alla scrivania. Si è anche fatto fare, per dipingere a olio, una specie di supporto con un manico di scopa, così può appoggiare il polso senza imbrattare la tela.

Dipingere, che è il suo vero “mestiere”, lo diverte. Lo può fare in qualunque momento, in casa, o nell’appartamento che ha affittato poco distante come studio. Scrivere, invece, che è il suo hobby, lo affatica. Non sa se riuscirà a farlo anche domani. Forse potrà succedergli qualcosa, un clic misterioso che incepperà l’apparecchio e le sue storie non ne usciranno più. La pagina bianca gli dà sempre un attimo di terrore. L’ispirazione è una parola ridicola, però se l’idea non viene non c’è niente da fare. Bisogna semplicemente aspettare che venga. Ci sono periodi in cui nemmeno i sogni bastano. Allora lo aiuta passeggiare. E il dondolio del treno, il rumore dell’automobile. Per evocare i fantasmi, gli ci vogliono le ore della sera o della notte. Per dipingere, gli vanno bene quelle del pomeriggio.

Oggi Buzzati è raffreddato, e questo lo rende scontroso e patetico. È appena tornato dalla montagna (Cortina d’Ampezzo, dove va sempre a sciare e ha un appartamentino ancora più minuscolo di questo) e si è messo sopra il gilet da gentleman un golf nero col collo risvoltato, una lampo davanti, e sottili strisce bianche e blu sulle maniche.

Ha scarpe scure, alte, con la suola di gomma. La cravatta nera e il colletto della camicia fermato da una spilla d’oro. Gli occhi sono chiari, di quel chiaro indefinibile che non è azzurro, ma quasi, e che è spesso il colore degli occhi della gente di montagna. Ha guance rosee e lisce. Mani lunghe, sottili, le mani di un ragazzo di buona famiglia che ha studiato pianoforte e violino. Il bravo ragazzo che, insieme ai fratelli, una zia dedita alle opere pie conduceva, durante la Grande Guerra, a suonare negli ospedali militari, lui al violino, un fratello al piano, l’altro fratello al violoncello.

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Il signorino in cronaca

La sua è una faccia astratta, asciutta, con le grandi orecchie piatte, il lungo naso, una faccia a tagli secchi, spigolosi. Se si pensasse a un uccello verrebbe in mente un picchio. E se no un chierico, un monaco cantore, o un eremita. Ogni tanto, mentre disegna, appoggia la punta delle dita sulle labbra, o sulla tempia. Sono gesti misurati, adatti a uno che con zelo gratta con la lametta i contorni dei suoi mostri dalla faccia lattiginosa e dai capelli ritti. Con la stessa pignoleria, ogni mattina, appena alzato, Buzzati fa per quindici minuti dei piegamenti sulle ginocchia per tenersi in forma e per quando andrà a sciare (a questo proposito ha un solo rimpianto: quello di aver imparato “alla vecchia maniera” e di non saper fare lo “scodinzolo”).

Con la stessa diligenza e lo stesso zelo ha sempre fatto il giornalista. Entrò al Corriere in cronaca, nel ’28, e ci rimase per un pezzo. Furono anni duri. Che Buzzati avesse due anime ancora non l’aveva capito nessuno. Ai più, quel timido, elegante e distinto giovane di buona famiglia (aveva, allora, ventidue anni e si era appena laureato in legge), che stonava terribilmente in mezzo ai colleghi esuberanti e smaliziati, sembrò un fallito in partenza. Lo soprannominarono “il signorino”, o “la signorina” a seconda dell’umore. Gli fu affidata dapprima la vicecritica musicale, ma venne revocato poco dopo dal terribile direttore di allora perché, facendo il resoconto di un “passo d’addio”, aveva messo in seconda fila due ballerine di terza. Ancora oggi con quieta mitezza rifiuta quell’affronto lontano. “Non ritengo di aver potuto sbagliare. Non ho memoria, ma sono molto preciso, segno sempre tutto. Quindi, se ho scritto che la tale e la tal’altra erano in seconda fila, certamente era perché ne avevo preso nota.” A lui, che crede massimamente nella lealtà e nell’onestà, quella mancanza di fiducia brucia ancora.

Fu messo in cronaca. In cronaca, al Corriere, ci passava tutta la notte. Lunghe notti in cui aspettava che succedesse qualcosa, che arrivasse il grosso colpo che finalmente l’avrebbe fatto entrare nella vita. Che cosa poteva succedere, chi poteva arrivare in quelle notti in cui di veramente importante non succedeva nulla? Forse, finì per pensare, sarebbero arrivati i Tartari. Il grande stanzone nudo della cronaca divenne così per lui una fortezza assediata. I Tartari erano il pericolo, ma anche la gloria.

Quando uscì Il deserto dei Tartari, nel ’40 (l’avevano preceduto Barnabo delle montagne e Il segreto del bosco vecchio, un successo di stima, non di più) i colleghi si accorsero che non era uno sciocco. Anzi, era più in gamba di loro. Dino Buzzati divenne inviato speciale. Lo mandarono in Africa, poi fu corrispondente di guerra sugli incrociatori Fiume e Trieste, rischiò l’affondamento a Capo Matapan. Gli diedero una decorazione per il suo coraggio. Ma ormai non era più un giornalista, era uno scrittore.

Non sarebbe stato da lui, a questo punto, mettersi a disprezzare il giornalismo. Modesto e zelante, uomo d’ordine per eccellenza, Buzzati in tutti questi anni ha continuato ad occuparsene così bene da diventare uno dei migliori tecnici del mestiere che ci siano in Italia. Fino a poco tempo fa è stato caporedattore della Domenica del Corriere, un giornale in cui spesso la cronaca si è rivestita dei colori del racconto e della favola, così come a lui piace narrare le sue favole nello stile spoglio e secco di una cronaca. Adesso, per il Corriere, è anche critico d’arte e ogni sera, prima di cena, si fa il giro delle gallerie.

Ha finito di ripassare a penna il suo disegno. Dopo Un amore, l’unico romanzo in cui si sia allontanato dai suoi temi preferiti, adesso sta tentando una via nuova. A forza di tenersi lontano dalle discussioni letterarie e dalle teorie dell’antiromanzo, ha trovato l’antiromanzo più straordinario di tutti: un romanzo a fumetti, una tavola per foglio e poche battute scritte in margine o messe in bocca ai personaggi. Protagonista, una specie di Gianni Morandi. Ma è un lavoro lungo, difficile. L’ha cominciato già da due anni e non è ancora arrivato a metà.

Adesso Buzzati dice un’altra volta, con la sua voce strascicata, quel suo “prego” senza interrogativo in fondo, dà un’ultima occhiata al disegno che è finito (e dietro la donna stesa sulla tavola operatoria si leva alto un bisturi come un coltello) e chiama forte e querulo “Almerinaaa!”. Come ogni sera, escono a cena, loro due soli. Lei qualche volta ha una mantella lunga fino ai piedi. Lui porta sempre, appena calcato in avanti, quel suo cappellino da vampiro.

Niente di strano in fondo. È solo un ragionevole signore di mezza età che due volte la settimana va a Monza a giocare a golf, un tipo un po’ dandy che amava girare in una Mercedes coupé verde foderata di cuoio rosso, ma adesso l’ha venduta e ha ripiegato su una 124 che gli beve meno benzina. Un distinto signore che ha molti hobby, amori, passioni che poi d’un tratto finiscono nel nulla. Come quella per i cani (la famosa dinastia di boxer, di cui il più noto fu Napoleone III, del quale esiste anche un ritratto in ceramica a grandezza naturale). Adesso non ha più cani, ma un immenso gatto bianco appeso alla parete su uno sfondo blu. E ha rinunciato anche ai pappagallini. E alla collezione di bastoni da montagna. E a raccogliere le stampe piene di diavoli di Callot. In compenso gli piacerebbe avere una raccolta di soldatini di piombo. Ma è tardi per incominciare.

Un ragionevole signore. Pochi sanno la faccenda delle due anime. Eppure, quella basterebbe a spiegare tutto.

Donatella Bisutti

Gruppo MAGOG