18 Agosto 2023

Le scrittrici di successo (che il mondo ci invidia) e la teoria degli ABAC, gli Argomenti Buttati A Caso

“Questa estate le zanzare sono tornate a essere zanzare e basta, e quando le nostre gambe si sono riempite di bolle abbiamo detto: oh no, i pappataci. Come dicevamo da bambini. Siamo corsi dall’unico dermatologo aperto a ferragosto e lui ha detto che erano tarme da letto, o forse insetti che vivono a loro volta sui corpi delle tarme da letto, non ho capito bene. Comunque sono insetti predatori che vivono nascosti dentro i materassi e i cuscini dei dondoli, dove aspettano i culi sudati e salati degli umani che tornano su dalla spiaggia, ci sono sempre stati ma questa è l’estate in cui ci facciamo caso, perché facciamo caso a tutto e non sappiamo più cosa è sempre esistito e cosa invece no”.

Nadia Terranova, la Repubblica, 29 settembre 2022

Oggi torniamo a parlare del quotidiano la Repubblica, dopo la bufera in cui è finito nei giorni scorsi per la mancanza di rispetto verso i “decerebrati” e gli handicappati in generale, manifestata a lettere chiare – e anche di più – dalla “soave” Concita De Gregorio nella sua rubrica giornaliera. Le forti reazioni suscitate sulla stampa e nei social dal suo disprezzo per i minorati avranno comunque vita breve, perché con quel passo falso De Gregorio ha semplicemente rivelato di essere quello che è, una donna come molte altre, lontana dall’altare di soavità dorata che si è sempre dipinta addosso, sulla carta stampata, in radio o in televisione. Appurato questo, riteniamo che la ragione del contendere andrà a scemare. La fata che incarna la bellezza, la correttezza, la cultura, l’intelligenza, la giustizia e tutte le cose più sane e belle che un essere femminile può racchiudere in sé era una facciata, come sapevamo: a un certo punto il sentirsi superiore a ciò che le sta intorno le ha fatto abbassare la guardia e l’ha tradita. Prima o poi sarebbe accaduto, dunque si può chiudere la pratica per passare ad altro.

Andiamo piuttosto ad alcuni rilievi che sono stati fatti al nostro precedente intervento sulle Formule Ripetute A Vuoto nello stesso giornale da Michela Marzano. Fra questi, ci è stata imputata una sorta di “stagione della caccia” che “non si chiuderebbe mai”. Su questo punto rispondiamo innanzitutto che parlare di “stagione della caccia” è decisamente improprio, poiché non è immaginabile che si possa trattare senza filtri di persone del milieu culturale solo in certi mesi dell’anno – propriamente quelli autunno-invernali – mentre nelle altre stagioni no perché la caccia è chiusa. In secondo luogo, se davvero vogliamo parlare di “caccia”, è evidente che i cacciatori sono proprio i tromboni che impongono al dibattito pubblico i loro articoli senza riuscire più a misurare la realtà, e insistono a stare in cattedra senza aggiungere nulla al già noto, o addirittura travisandolo. Per non parlare dei NAR, i Novantenni Arzilli e Rimbambiti che continuano a imperversare senza stancarsi, una piaga che ci affligge da anni. Dunque sono costoro ad andare “a caccia” del lettore ogni giorno, per fargli acquistare il giornale e continuare a incassare proventi per attività pubblicistiche inutili.

Ora, tornando al tema, vediamo come nel campo “culturale” la Repubblica si stia cimentando da anni in iniziative pretestuose – se non ridicole –, andando a ingaggiare nomi più o meno in voga pescati nel vivaio delle patrie lettere. Come ha sempre fatto, del resto, il quotidiano concorrente: ricordate l’iniziativa del Corriere della Sera quando esplose il Covid? Era la primavera 2020 e l’inserto culturale “la Lettura” avviava la pubblicazione di un “Diario a staffetta” sui giorni del virus: otto puntate, otto narratori: «Comincia, come già due anni fa [per un romanzo a puntate a otto voci, ndr], Sandro Veronesi».

La scelta dello stesso scrittore apripista dimostrava anche quella volta chi era il capobranco e chi stava al seguito, e ciò confermava che il suo romanzo Il colibrì stava ipotecando il Premio Strega con tre mesi di anticipo. Su quel battesimo del “diario del virus” ci facemmo molte risate; rileggendolo oggi ne riviviamo la comicità involontaria:

«Cosa sta per succederti, figlio mio? Come passerai le prossime settimane? E tu Lucio, incastrato in quella che doveva essere la vacanza più bella della tua vita, in Australia con la tua ragazza, con il volo di ritorno per Londra che ti è già stato cancellato e un’infinità di domande che chiedono risposta. Soprattutto una: è meglio che trovi riparo laggiù, in Australia, e ci resti finché qui in Europa l’emergenza sarà passata, oppure è meglio comprare altri biglietti per tornare in Europa?».

Ma fermiamoci qui, per non ricominciare a sbellicarci, e arriviamo al punto. Un anno fa Repubblica decide di copiare quel format e lancia l’iniziativa sul tema del momento: il cambiamento climatico. «Abbiamo chiesto a 13 scrittori italiani di raccontarci cosa sta davvero succedendo. “I Racconti del Cambiamento Climatico”, una serie che ha l’ambizione di arrivare là dove gli scienziati e i giornalisti si sono fermati». Avete letto bene: “là dove gli scienziati e i giornalisti si sono fermati”. Roba grossa, dunque. Gli scrittori, si sa, conoscono le cose più a fondo delle altre persone, quindi possono rivelarci cose che non sapevamo. Fra gli scrittori-scritturati per questa iniziativa c’erano Paolo Nori, Nicola Lagioia, Paolo Cognetti, Stefano Massini, e c’era anche Nadia Terranova, la new-entry sdoganata dalla famosa copertina di “D” di Repubblica dell’agosto 2019, con “le cinque scrittrici che il mondo ci invidia”, su cui torneremo.

La scrittrice Nadia Terranova, dunque, accetta di affrontare il tema del cambiamento climatico, ma anche lei lo fa senza saperne niente: quindi deve per forza inventarsi qualcosa. Non potendo usare le Formule Ripetute A Vuoto, perché non possiede formule e forse non ha la scaltrezza di una Michela Marzano, opta per la via più semplice: usa gli ABAC, ossia gli Argomenti Buttati A Caso, come farebbe qualsiasi persona che non sa come rispondere alle domande. Dunque, nella serie che ha l’ambizione di arrivare là dove gli scienziati e i giornalisti si sono fermati, Terranova si lancia così:

«Sono seduta di fronte a un mare che non è il mio, nella cappa di un cielo che tentenna ma non dà pioggia, e tutto quello che provo è una gelosia quieta, una forma anarchica di nostalgia per una vecchia estate che perde oggi la sua epicità. Ora che è settembre si può dire: quest’estate è davvero la più calda, spodesta quell’altra soffocante di cui mi tocca prendere le parti, e intanto il mare non mio non s’increspa e non si muove».

Dopo l’incipit, decide di prendere di petto l’argomento. «Vent’anni sono passati dal 2003 – quasi venti, ne manca uno, per farmi dispetto e negarmi la cifra tonda – e allora ero un’altra me con pantaloni chiari che tiravano sui fianchi, capelli gommosi di olio o gel, scarpe verdi, in testa gli articoli sull’invasione della zanzara-tigre e sul corpo i segni del suo passaggio. Era una zanzara gigantesca che pareva uscita dai fumetti, dentro un giornale di carta qualcuno l’aveva disegnata dentro un cerchio rosso accanto a una zanzara comune ormai banale e inoffensiva, oltre che minuscola. Era l’estate in cui le bolle che dai polpacci salivano sulle cosce venivano commentate con: “eh, la zanzare-tigre” e io, a mio agio dentro i miei vent’anni, liquidavo le bolle scoprendole sotto pantaloncini sempre più corti, sempre più stretti».

Molto interessante: mentre il clima del globo sta cambiando con effetti drammatici, potremmo scoprire – visto che la scrittrice deve arrivare dove scienziati e giornalisti non riescono – che tutto nasce dalle zanzare tigre. Terranova prosegue raccontando i prodromi del cambiamento climatico che ci sta mettendo in croce:

«la mia generazione era impegnata a lamentarsi dei lavori interinali e del precariato. Ci lamentavamo in estate, quando i pochi che avevano un contratto se lo vedevano sospendere perché nessun editore voleva pagare agosto e, fra i molti che volevano scrivere, i più fortunati venivano chiamati per le sostituzioni estive nelle redazioni che si riempivano dell’ansia performativa di mostrarsi indispensabili. Davamo per scontato che lavorare fosse un premio ai migliori, e io festeggiavo le mie piccole fortune stappando birre del supermercato sui balconi di case in affitto vicino alle stazioni della metropolitana oppure proiettavo i fallimenti sul biglietto di ritorno a casa, dove avrei rubato poche vacanze alla mia prima estate da adulta».

Fermiamoci un attimo. Ma di che sta parlando? Della sua esperienza di lavoratrice precaria nell’editoria? Qui sorge un sospetto: che Terranova abbia deciso di imitare il narcisismo irriducibile di Roberto Saviano, che nell’introduzione a Lo straniero di Albert Camus edito da Bompiani era partito parlando di sé e solo di sé:

«Albert Camus in questi anni mi è stato accanto mentre mangiavo, dormivo, scrivevo. Accanto mentre mi disperavo. Accanto mentre cercavo brandelli di felicità. Accanto a me mentre tenevo il punto contro l’idiozia estremista, in un’Italia che spesso fa dell’estremismo di maniera scudo, appartenenza, bandiera».

Il classico narcisismo esiziale, che fa solo danni. A questo punto dobbiamo proseguire, sperando che l’argomento del Clima entri finalmente in scena, visto che l’autrice è stata incaricata di scriverne.

«Oggi parlo da sola davanti a un altro mare non mio che non sa niente, fermo nel suo grigiore estraneo e sciupato; provo un certo disagio a pensare che quella di vent’anni fa ero proprio io, stesso corpo, stessa pelle. Se ogni sette anni si rinnovano le cellule allora le mie sono cambiate già tre volte, il nome sulla carta d’identità sarà lo stesso, ma io non ho più la carta d’identità. Mi arrendo, questa estate è stata più calda, più lunga, più insopportabile di quella del 2003. È iniziata prima, è finita dopo. Anzi: non finisce».

Niente da fare, la sindrome Roberto Saviano l’ha colpita. Narcisismo ed egoriferimento, che pretendono di guardare il mondo con gli occhi su sé e basta. Poi, però, la scrittrice accenna al cambiamento climatico, segnalando che ci sono state alluvioni (be’, lo sapevamo), smottamenti e pezzi di isole crollati e perduti (purtroppo sapevamo anche questo), che ha piovuto dove e quando non doveva, e il sole stava sempre lì senza pause di buio (cioè?). Ma subito dopo torna a ego-centrarsi:

«Seduta davanti a questo mare non mio sono una pellegrina in una stanza vuota. Penso che nessuno nei mesi trascorsi ha detto: zanzara-tigre. Questa estate le zanzare sono tornate a essere zanzare e basta, e quando le nostre gambe si sono riempite di bolle abbiamo detto: oh no, i pappataci. Come dicevamo da bambini. Siamo corsi dall’unico dermatologo aperto a ferragosto e lui ha detto che erano tarme da letto, o forse insetti che vivono a loro volta sui corpi delle tarme da letto, non ho capito bene. Comunque sono insetti predatori che vivono nascosti dentro i materassi e i cuscini dei dondoli, dove aspettano i culi sudati e salati degli umani che tornano su dalla spiaggia, ci sono sempre stati ma questa è l’estate in cui ci facciamo caso, perché facciamo caso a tutto e non sappiamo più cosa è sempre esistito e cosa invece no, cosa è colpa del cambiamento di un pianeta cui non sappiamo dare un nome».

Bene, finalmente si arriva là dove gli scienziati e i giornalisti si sono fermati: così scopriamo che gli acari e i loro ospiti vivono nascosti nei materassi e nei cuscini dei dondoli nelle località di mare, e aspettano le cosce e i culi sudati che tornano dalla spiaggia per nutrirsene! Una rivelazione notevole, in termini climatici, che magari potrebbe preludere a qualcosa d’interessante; ma immediatamente si ripiomba nel sé ombelicale:

«Mentre il mare non mio si intristisce e mi raggela, la cosa più difficile dentro questo caldo estivo è farne racconto senza mettergli addosso vestiti distopici o tardivamente allarmisti, senza forzarlo nelle scarpe del futuro e combattendo movimenti retrogradi».

E qui che avrà voluto dire? Poi, dall’astrusità involuta si ritorna al tema:

«Ho pensato a quando nell’estate 2003 svuotavo i piatti sotto i vasi in balcone perché le zanzare-tigre depositano le loro uova nell’acqua, e le piccole pozzanghere sotto le piante sono il male. Ho pensato agli odori dell’estate, l’odore di vongole e frutti di mare, la spazzatura per strada con la sua puzza di abbandono, il profumo che si appiccica al sudore».

Bene, chiudiamola qui. Non sappiamo che altro dire, se non che questa è la dimostrazione di come veniamo presi per il culo, in questo caso, da una scrittrice-copertina apparsa quattro anni fa sulla citata “D” di Repubblica insieme a Teresa Ciabatti, Rosella Postorino, Veronica Raimo, Claudia Durastanti. Fu lì che si sdoganò il povero glamour omogeneizzato, la parata di bellocce con lo slogan falso e insensato “Star System Italia, le scrittrici che il mondo ci invidia”. Ma il mondo quale? E invidia per che cosa? Una copertina avvilente, dal look buono per ipotetiche imprenditrici o presentatrici o attrici che guardano con espressione serio-strafottente, testimoni di un’inconsapevolezza culturale che richiama un berlusconismo di ritorno, l’assurdo contrappasso per un giornale che l’ha combattuto per decenni. La retorica delle donne di successo, avvenenti, alla moda, quelle che ce l’hanno fatta, diventa la rendita che permette molte cose, anche di usare argomenti a casaccio quando si viene incaricati di scrivere su un argomento cruciale e fondamentale come quello della crisi climatica. Perché se si è scrittrici-copertina tutto è concesso. E non sappiamo quanto siano autentiche le ultime righe dell’articolo:

«Un po’ mi vergogno e mentre mi vergogno, finalmente, il mare si increspa e forse dal cielo comincia a piovere».

Paolo Ferrucci

Gruppo MAGOG