Di Dante Arfelli si è detto molto. Cesenate, classe 1921, a Rimini conosce Federico Fellini a scuola. Dopo l’Università a Bologna e la guerra in Montenegro, torna in patria e fonda una scuola media dove è contemporaneamente docente e preside. Frequenta il grande Marino Moretti e nel 1949 esce con I superflui, una storia di emarginati e sconfitti, vincendo il premio Venezia (l’attuale Campiello). Il libro è un grande successo in America alla stregua dei grandi scrittori d’oltremanica. Vende 800mila copie ed è pubblicato dallo stesso editore di Hemingway. Nel 1951 bissa con La quinta generazione, una saga famigliare ambientata a Cesenatico, che non farà il botto come il precedente.
Frequenta l’amico Fellini ancora agli esordi, diventando nel frattempo docente all’istituto industriale di Forlì e dopo qualche anno viene spostato a Cesena.
Arfelli soffre di nervi, si chiude in un torpore personale. Scrive, continua a farlo, ma decide di non pubblicare più nulla e di fatto esce dal mondo dell’editoria, dalla folle marea degli intellettuali dell’epoca per ritirarsi e diventare uno dei personaggi del suo romanzo d’esordio. Un superflo.
Vent’anni di oblio, di silenzio. Su di lui cala il sipario e non si hanno più notizie. Nel 1975 esce quasi in sordina, Quando c’era la pineta, raccolta di brevi racconti scritti da Arfelli tra il 1949 e il 1954 (in pieno periodo letterario) e tra l’altro già editi su giornali e riviste. Ma la depressione lo coglie in fallo, complice anche la morte dell’amata moglie. Nel 1985 ormai pensionato si sposta a casa della figlia a Ravenna e di lì a poco si trasferirà in una casa di riposo sita a Marina di Ravenna in attesa di attraversare il buio eterno.
Proprio da qui, da questo confine quasi surreale (un giovane vecchio tra i vecchi) da questo amorfo punto di osservazione Arfelli lavora e pubblica il suo testo più sincero, fuori dal comune, quasi surrealista a metà strada tra inchiesta, raccolta di racconti, diario intimo degli giorni ultimi.
Ahimè, povero me esce nel 1993. Dante Arfelli muore nel 1995.
Fogli sparsi, deliri, racconti inediti, ricordi, diari. Quello che colpisce sono soprattutto gli scritti sulle sue giornate in struttura. Dalla passeggiata struggente nella pineta o sullo stradone del mare, appena dopo piovuto, al cibo della mensa. Dalle chiacchiere con gli altri ospiti dell’ospizio alle fughe fino alla stazione di Ravenna, per bere caffè (che dimentica sempre di pagare) e leggere i quotidiani.
Ci sono momenti di puro delirio, altri di una tenerezza sconfinata. Arfelli è conscio della sua lenta decadenza. Sente che la morte sta per giungere e non è più possibile rimandare l’angoscioso viaggio. Momenti, nel suo diario, in cui apre e chiude la pagina scrivendo semplicemente che non ha voglia di scrivere. Dorme male, non dorme affatto oppure dorme troppo. Arfelli è un vecchio scrittore dimenticato. In questa ibrida raccolta vi è spazio, oltre ai deliri e al diario, anche ad una breve serie di racconti (finalmente inediti) che lo riaffermano come piccolo grande narratore minimalista.
Ahimè, povero me non è solo il grezzo diario finale di un grande uomo dimenticato. Dentro c’è molto di più. Dentro c’è tutta la decadenza, l’oblio, la tenera resa in attesa della morte.
Giosuè Gorinzi