14 Maggio 2024

“Amare le donne è la mia condanna”. Sul genio della poesia giapponese

I waka – per semplificare: le poesie giapponesi di cinque versi – sembrano rondini. Sono, per loro natura, per così dire, primaverili: un trillo, un volo rapido, radente, a forbice, a sezionare il ventre del vento. Natura solubile, quella del waka: leggi e la parola svanisce, tra sibillini sibili. L’immagine – spesso, di precisione al diamante – corre il rischio di sembrare leggera – in verità, avvelena il corpo, avvinghiandolo in una rete di reticenze, di lumi sotto il velo.

I waka muovono il cuore a migrare. Che sembrino futili – dicono gli ordinari dettagli della vita comune: un albero, le navi, la luna, l’attesa e l’amore, l’odio e i capelli, la vecchiaia… – è la ragione del loro genio; l’eminenza gnomica del waka è nel dettaglio. La poesia, cioè, non insegna, rappresenta. Così – miracolo, miracolo – le cose comuni germogliano enigmi; così, una poetessa dell’anno mille, vissuta a mille e mille miglia da qui, straziata in un bozzolo di kimoni, dice ciò che sento, ora, in questo millennio, come nessuno prima. Meraviglia della poesia giapponese – per ciò che possiamo dirne da questo tetro orizzonte occidentale – che trae trame dall’effimero per farne eternità plenaria. Il fiore, il lago, il vento, così, diventano entità metafisiche perché tangibili, in prossimità d’odore.

Monumento più duraturo del marmo – passa di bocca in bocca senza timore d’intemperia, di tempestiva distruzione – l’antologia poetica è l’emblema del Giappone. Ogni imperatore allestiva la propria, in eredità ai millenni; ogni funzionario stipendiava calligrafi perché quel cunicolo di versi fosse il suo tempio, il suo sepolcro.

Versi – graficamente – pari a petali disseminati. Pari a frecce che, ad acquazzone, ti assalgono.

Per lo più, i poeti erano una comunità – a garanzia della continuità della tradizione, del verbo-gesto; poetica, sempre, marziale. Comunità, cioè, di vivi e di morti, di cortigiani e di eremiti: ciascuno pioniere del proprio virgineo modo, a costruire il principio di una identità ‘nazionale’.

Una poesia solerte alle lacrime e al linciaggio, sovverte le anime – ben più penetrante di una norma. Le leggi sono il parto del ‘mondo fluttuante’: da quei flutti la poesia distilla fuochi perenni; dal futile lo stile, dall’aleatorio suggerisce ali d’angelo.

L’Hayakunin Isshu, raccolta ideata da Fujiwara no Teika nel XIII secolo – e di cui qui si dà un ventaglio a partire dalla traduzione in inglese – raccoglie “cento poesie di cento poeti”. Divinità dell’arte compilatoria: lo scopo, in questo caso, è tenere insieme sei secoli di poesia – dall’imperatore Tenji, sovrano nel 668, al deposto imperatore Juntoku, morto nel 1242 – secondo caotica anarchia. In verità, tale poesia – da sorseggiare all’alba, ad ingannare le ‘notizie’ che celebrano il nostro funereo ‘stare al mondo’ – funge da amuleto, a tener lontani i vili veleni del tempo. La Biblioteca giapponese – a differenza di quella di Alessandria o ‘di Babele’ – ricorda un erbario, un florilegio che, in essenza, esige di sbriciolarsi, snebbiando ogni ipotesi di fama. L’unico sapere è ciò che resta di sé: ombra, assenza, servitù dei venti.

La disciplina del verso è imbracciata da poeti ‘di professione’ come da monaci, imperatori, militari. I toni, dunque, sono disparati: alcuni ormeggiano la mente tra dissipate passoni, altri centrano una stagione, un’immagine; l’eremita inneggia alla solitudine, il sovrano maledice i suoi nemici. La poesia è un modo comune di stare al mondo – e di salvarlo.

Su tutto: abbracciare la bestia terrena, preferirla ai bovari ultraterreni, alla stagionatura delle anime nei cieli – boccioli sacri, è certo, ma infelici, alieni al bacio.

***

Dall’Hayakunin Isshu, “cento poesie di cento poeti”

I

Giorno autunnale: nei campi
si va a raccogliere il grano.
Cerco riparo sotto un tatto
ma la paura è, come sempre, vana:
la manica è pregna di pioggia.

Imperatore Tenji (626-672)

*

XII

Venti di tempesta, scardinate le nuvole
scandite di grigio i cieli:
impedite a queste ragazze di diventare dee
confinatele nei lontani regni –
che la loro schiena si riempia di ali.

Henjō (816-890)

*

XIX

Brevi come le canne di bambù
che sorgono in riva al mare
tra i ciottoli della spiaggia di Naniwa
spero possano essere i giorni
che scegli di stare lontano da me.

Ise (875 ca. – 938 ca.)

*

XXIII

Notte: cruenta luna fai
delirare la mia mente;
tutti soffrono da quando
l’autunno ha gettato in noi
il suo cupo manto.  

Ōe no Chisato (X secolo)

*

XXX

Odio la luna fredda e ostile
che scintilla al mattino;
nulla è più triste che restare
soli mentre l’alba proclama
la giovinezza del giorno.

Mibu no Tadamine (889-948)

*

XXXIX

Per le canne è facile
nascondersi tra il brusio
della brughiera: il mio amore
lo rivela il volto – è rosso
avvampa e lei mi ignora.

Minamoto no Hitoshi (880-951)

*

XLIV

Amare le donne
è la mia condanna;
potessi apprezzare
gli uomini – loro
li odio soltanto.

Fujiwara no Asatada (910-966)

*

LIX

Aspetto di sentire il suono
dei tuoi passi, insonne:
finché la luna scivola
ai confini del cielo
lasciando un’orma.

Akazome Emon (956 ca. – 1041)

*

LXVI

Dimoro nella solitudine
alieno agli uomini: per questo
dobbiamo sodalizzare
caro ciliegio di montagna –
non ho altro amico che te.

Gyōson (1055-1135)

*

LXXX

Dubito della sua costanza
non sopporto la mia debolezza:
nodi tra i pensieri
nodi tra i neri capelli – mi
torturo: gli importerà di me?

Taikenmon’in no Horikawa (XII secolo)

*

LXXXIX

Non posso nascondere
l’orrore per la vecchiaia:
un giorno il filo si spezzerà
sparse le perle sul pavimento –
il tempo non si contrasta.

Principessa Shikishi (1149-1201)

*

XCIII

Amo ammirare le barche
che tornano nella baia:
l’equipaggio arma i remi
e avvolge le corde – amo
chi si impegna nel mondo.

Minamoto no Sanetomo (1192-1219)

*

XCIX

Il sovrano abdica:

Piango gli amici caduti
avvolgo nel disprezzo i nemici!
Stanco della vita, mi avvio
alla fine di questo giorno fin troppo
lungo per guadagnarmi il riposo.

Go-Toba (1180-1239)

*

C

Nostalgia dell’antico palazzo:
la fine avvinghia le grondaie
e sopra il tetto il rampicante
dilata i tentacoli – eppure,
vi prego, non potate le sue foglie.

Juntoku (1197-1242)

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