12 Maggio 2023

“Contestazione assoluta e totale”. Il Gruppo 63 & il manifesto “Per un nuovo teatro” di Scabia

“Di fatto dietro a questa sigla c’era un movimento spontaneo suscitato da una vivace insofferenza per lo stato allora dominante delle cose letterarie: opere magari anche decorose ma per lo più prive di vitalità. Furono l’ultima fiammata del neorealismo in letteratura, fioca eco populista della grande stagione cinematografica dei Rossellini e dei De Sica”. Nanni Balestrini e Alfredo Giuliani.

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“Nel ’63, l’anno stesso in cui si costituisce il Gruppo, io pubblico un romanzo, Capriccio italiano, che diventa proprio la pietra dello scandalo di una narrativa alternativa”. Edoardo Sanguineti.

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Tra pochi mesi compirà 60 anni il “Gruppo 63”: il movimento letterario difatti si costituì a Palermo nell’ottobre del 1963. Nel gruppo di Neoavanguardisti – che si ispiravano al marxismo e ai dettami dello strutturalismo (l’opera, in sintesi, veniva presa in esame come un insieme organico scomponibile in elementi e unità; valore funzionale era determinato dall’insieme dei rapporti fra ogni singolo livello) – molti nomi che hanno lasciato un solco d’inchiostro indelebile: Umberto Eco, Edoardo Sanguineti, Sebastiano Vassalli, per esempio.

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Del Gruppo 63 – dimenticato dai programmi ministeriali scolastici, più o meno a ragione (non per qualità ma per quantità di tempo, risicato, che viene dedicato a quello che è avvenuto nel Dopoguerra; c’è anche dell’altro, in una sovraproduzione di rivoluzioni artistiche, politiche e sociali che hanno scandito gli anni Sessanta) – si è scritto abbastanza: Umberto Eco, Sebastiano Vassalli (ottimi i suoi libri, su tutti La chimera e La notte della cometa, incentrato sulla vita di Dino Campana), Achille Bonito Oliva, Antonio Porta. E Giuliano Scabia.

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Scabia che ritroviamo, quattro anni più tardi, tra i firmatari del manifesto “Per un nuovo teatro”, nato dal Convegno di Ivrea: un momento di battaglia e di riflessione, utopica e utopistica, contro la politica dei teatri stabili.  Oltre a Scabia – che ha scritto per il “nuovo teatro” lo spettacolo Zip-Lap-Lip-Vap-Mam-Crep-Scap-Plip-Trip-Scrap e la Grande Mam diretto dal regista Carlo Quartucci – lo hanno sottoscritto Corrado Augias, Giuseppe Bartolucci, Marco Bellocchio, Carmelo Bene, Cathy Berberian, Sylvano Bussotti, Antonio Calenda, Virginio Gazzolo, Ettore Capriolo, Liliana Cavani, Leo De Berardinis, Massimo De Vita, Nuccio Ambrosino, Edoardo Fadini, Roberto Guicciardini, Roberto Lerici, Sergio Liberovici, Emanuele Luzzati, Franco Nonnis, Franco Quadri, Carlo Quartucci, Luca Ronconi e Aldo Trionfo.

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“La lotta per il teatro è qualcosa di molto più importante di una questione estetica.

In una situazione di progressiva involuzione, estesa a molti settori chiave della vita nazionale, in questi anni si è assistito all’inaridimento della vita teatrale, resa ancora più grave e subdola dall’attuale stato di apparente floridezza. Appartenenza pericolosa in quanto nasconde l’invecchiamento e il mancato adeguamento delle strutture; la crescente ingerenza della burocrazia politica e amministrativa nei teatri pubblici; il monopolio dei gruppi di potere; la sordità di fronte al più significativo repertorio internazionale; la complice disattenzione nella quale sono state spente le iniziative sperimentali a cui si è tentato di dare vita nel corso di questi anni.

Come conseguenza le realtà italiana e i mutamenti intervenuti nella nostra società così come le nuove tecniche drammatiche e i modi espressivi elaborati in altri paesi non hanno trovato che isolati e sporadici riferimenti nella nostra produzione teatrale. Sono mancati d’altra parte il ricambio e l’aggiornamento delle tecniche di recitazione, l’analisi e l’applicazione di rinnovati materiali di linguaggio, gestici e plastici, mentre lo stesso innegabile affinamento della regia ha finito per risolversi in un estenuato perfezionismo di sterile applicazione, contro ogni possibilità di rinnovamento dei quadri.

La critica drammatica istituzionale, dal suo canto, invece di svolgere una funzione di provocazione e di stimolo su questa situazione generale, ha contribuito al mantenimento dello stato di fatto e si è troppo facilmente allineata alle posizioni ufficiali, ancorando linguaggio e metodi a modalità ormai superate con una rinuncia di fatto al suo compito primo di ricerca e di interpretazione.

Con poche consapevoli eccezioni il nostro teatro, oltre a dimostrarsi incapace di svolgere un discorso proprio, si è così venuto a trovare in una posizione di completo isolamento, sistematicamente impermeabile cioè ad ogni innovazione culturale, alle ricerche e agli esiti della scrittura poetica e del romanzo, alla sperimentazione cinematografica, ai discorsi aperti dalla nuova musica e dalle molteplici esperienze pittoriche e plastiche.

La nostra attività di scrittori, critici, registi, scenografi, musicisti, attori, tecnici del teatro, anche se di diverse ideologie, attestati su differenti posizioni di lavoro, ci fa sentire estranei ai modi, alle mentalità e alle esperienze del teatro cosiddetto ufficiale e alla politica ufficiale nei riguardi del teatro.

Per la diversità dei metodi e dell’ispirazione che improntano l’attività in cui siamo impegnati, noi non ci poniamo come gruppo almeno nel senso in cui questa parola ha caratterizzato passate esperienze nella vita letteraria e teatrale. Al di sopra di ogni diversità pensiamo però di poter individuare una sufficiente forza di coesione nel trovarci comunque di fronte a problemi di lavoro fondamentalmente analoghi.

L’attività finora svolta da ciascuno di noi può costituire perciò la basa di un comune senso di lavoro che si proponga come fine di suscitare, raccoglier, valorizzare, difendere nuove forze e tendenze del teatro, in un continuo rapporto di scambio con tutte le altre manifestazioni artistiche, sulla linea delle esigenze delle nuove generazioni teatrali. Non crediamo infatti utile né necessario partire da zero, convinti come siamo che sia possibile essere tanto più precisi quanto più si è coscienti delle esperienze che sono già state iniziate e portate avanti da noi altrove.

Oggi si impone la necessità di adeguare gli strumenti critici agli elementi tecnico formali dello spettacolo, di affrontare l’impegno drammaturgico senza alcuna soggezione agli schemi prestabiliti, con un recupero di tecniche e una proposta di altre tecniche con l’uso di attori fuori della linea accademica e quotidiana, con la scelta di ambientazioni che ricreino lo spazio scenico.

Non c’è nuova strada nel teatro come in ogni altra attività della scienza e dell’arte che non implichi di necessità estesi margini di errore. Noi li rivendichiamo. Non vogliamo dar vita a un teatro clandestino per pochi iniziati, né rimanere esclusi dalle possibilità offerte dalle organizzazioni di pubblico alle quali riteniamo di avere diritto; rifiutiamo però un’attività ufficialmente definita come sperimentale, ma costretta ad allinearsi alle posizioni dominanti.

Il teatro deve poter arrivare alla contestazione assoluta e totale.

Di tutto questo e dei problemi connessi all’aspetto organizzativo, è nostra intenzione discutere in un convegno di apertura e di verifica che indiciamo per la fine della presente stagione teatrale e al quale invitiamo tutti quanti, in base alle esperienze raggiunte, si sentano di condividere con noi gli obiettivi contro cui operare e questo appello di urgente lavoro.

Non crediamo infatti alle contestazioni puramente grammaticali. Crediamo invece che ci si possa servire del teatro per insinuare dubbi, per rompere delle prospettive, per togliere delle maschere, mettere in moto qualche pensiero. Crediamo in un teatro pieno di interrogativi, di dimostrazioni giuste o sbagliate, di gesti contemporanei”.

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Il Gruppo 63 e i manifesta(n)ti di Ivrea avevano in comune la necessità di rompere con una tradizione. I primi ce l’hanno fatta, i secondi anche, ma in maniera diversa. Diverso è stato il pubblico e diversa l’altezza dell’onda. Ma mentre il Gruppo 63 è inciampato sul marxismo – che era “passato” e quindi “tradizione” – quelli d’Ivrea hanno sì contestato un elefante senza abbatterlo, ma sono riusciti a guardare avanti, tracciando un percorso che è arrivato, indebolendosi negli anni, sino ad oggi. Non è invecchiato, o almeno non del tutto. Semmai si è seduto dopo aver vibrato negli anni del fervore politico. Poi, come ha cantato Giorgio Gaber, “molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare. Come dei gabbiani ipotetici”. E molti altri, una volta che si sono seduti nelle stanze del potere, hanno perso lo slancio. Perché le rivoluzioni si fanno all’aperto, incontrando gli altri, e non sprofondati comodamente su una sedia o una poltrona, foraggiati e messi all’ingrasso da quella tradizione osteggiata e ostracizzante. 

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Al Gruppo 63 e al suo satellite, quell’appendice scenica partorita a Ivrea, non mancò l’entusiasmo, la spinta iniziale, la voglia di cambiare. Ma forse la presunzione – motivata negli Anni Sessanta da tante altre rivoluzioni – spense quel fuoco. Così si sono ritrovati come il gabbiano di Giorgio Gaber, “senza più neanche l’intenzione del volo. Perché ormai il sogno si è rattrappito”.

Alessandro Carli

Gruppo MAGOG