
Thomas Wolfe, o dell’esistenza epica americana
Letterature
Andrea Muratore
Un’assenza ha mille significati ed è sempre uno stimolo a interrogarci. Ha come un alone magico e si lascia dietro una miriade di domande e di segreti. In definitiva un’assenza è molto più ricca di tante presenze, spesso insignificanti e del tutto superflue. Possiamo fare finta di niente, ma sappiamo che è lì, di fianco a noi, ci accompagna in ogni momento e ha un’influenza sul nostro modo di pensare e di agire. Lo può fare in tanti modi diversi, anche attraverso il garbo e lo stile di uno scrittore raffinato come Giuseppe Pontiggia (1934-2003).
Innamorato della letteratura, bibliofilo accanito, Pontiggia passava le sue giornate in un appartamento-studio nel quartiere Città Studi di Milano, appositamente acquistato per contenere, a fatica, la sua smisurata biblioteca personale costituita da migliaia di volumi che occupavano letteralmente tutte le stanze dal pavimento al soffitto. Come non pensare al professor Kien, il protagonista di Auto da fè il romanzo di Elias Canetti, che utilizzava la sua biblioteca come uno scudo protettivo nei confronti della vita. Al di là delle apparenze, tuttavia, Pontiggia era un uomo di un’altra pasta e la vita l’ha affrontata a viso aperto, fin da ragazzo, quando, costretto dalle circostanze, entrò a lavorare in banca e che poi anche quando riuscì a dedicarsi interamente alla letteratura continuò a vivere in mezzo agli altri, insegnando per molti anni nelle scuole serali e, spinto anche dall’esperienza del figlio, occupandosi dei problemi dell’handicap.
Due dei suoi romanzi più belli sono centrati su un’assenza improvvisa e inaspettata, che diventa per Pontiggia il grimaldello che gli permette di fare saltare quel muro di finzioni che costruiamo nella nostra quotidianità e dietro il quale tutti ci nascondiamo. Due libri intensi e bellissimi, scritti in una lingua semplice e scorrevole, costruiti come dei gialli, che ti obbligano ad affrontare il grande mistero della vita.
Il giocatore invisibile del 1978 è incentrato sulla figura di uno stimato professore di filologia classica all’apice della carriera universitaria che riceve una stroncatura anonima a un suo articolo.
«Una mattina di vento, sul piazzale dell’Università, mentre teneva il cappello con una mano e la cartella nell’altra, il riverbero del sole negli occhiali e l’assistente lontano che occupava il centro delle lenti e si dirigeva a passi rapidi verso di lui, il professore ebbe un cattivo presentimento».
L’attacco, sarcastico e pungente, lo riprende per un’errata interpretazione dell’etimologia della parola “ipocrita”. Proseguendo nella lettura, ci accorgiamo che non è un termine scelto a caso, perché da quel momento il professore si mette alla ricerca del suo misterioso nemico, una caccia affannosa e sempre più disperata che finisce per mettere a nudo tutte le falsità, le ipocrisie e le menzogne su cui il protagonista, e con lui tutti gli altri personaggi che compaiono nella storia, hanno costruito la loro esistenza. Piano piano molte delle sue certezze e sicurezze saranno messe in discussione dalla scoperta di tante inattese meschinità. Il professore sicuro di sé e fino ad allora soddisfatto delle scelte fatte si trova all’improvviso con le spalle al muro, costretto a prendere atto che tutta la sua vita non è stata altro che un gigantesco autoinganno. Il misterioso critico, pur rimanendo sempre nascosto nell’ombra, continua ad aumentare il suo potere a dismisura, di fatto è un’assenza che finisce col determinare ogni pensiero, gesto e azione del protagonista.
A tratti è una storia che riporta alla mente certe atmosfere dei grandi racconti russi dell’Ottocento, che ruotano intorno all’impenetrabile e per molti versi misterioso mondo della gigantesca burocrazia zarista del tempo.
L’altro romanzo di Pontiggia è La grande sera, uscito nel 1989: la storia dell’improvvisa scomparsa nel nulla di un affermato professionista. In modo inaspettato, la moglie, il fratello, le amanti, i colleghi si trovano a dovere affrontare questa assenza, che con la potenza della sua inspiegabilità mette a nudo le loro ipocrisie. Sono proprio lo scomparso e la sua scomparsa a portare alla luce i percorsi di vita degli altri personaggi, costretti a prendere atto di quello che sono e quello che invece avrebbero voluto o credevano di essere. Un romanzo in cui il personaggio più vivo è lo scomparso attraverso la sua assenza. Di colpo quelle che sembravano certezze si trasformano in incognite, quelle che erano delle vittorie si rivelano delle sconfitte, quelle che erano speranze appaiono come dei fallimenti. Esistenze all’apparenza piene e realizzate che in realtà sono solo vuoti a perdere.
Ancora una volta le assenze sono più importante delle presenze.
Silvano Calzini