“Siamo la nostra solitudine”. Elogio di Julien Green, l’anti-Céline
Letterature
Alessio Magaddino
Uno dei ricordi più cari che ho, parlo da bambino degli anni Sessanta, sono certe figurine animate che venivano regalate insieme alla confezione di una nota marca di formaggini. Erano plastificate, di piccole dimensioni, 3 centimetri di base per 2,8 di altezza, e bastava inclinarle leggermente perché cambiasse il disegno al loro interno. So di essere blasfemo nel dire che mi sono tornate in mente durante la lettura, a volte non sempre facilissima, di uno straordinario romanzo: Il roveto in cenere. L’autore è Manès Sperber (1905-1984), nato in una famiglia ebrea nella Galizia allora appartenente all’Impero austro-ungarico e poi nomade tra Vienna, Berlino, la Jugoslavia per approdare infine in Francia, Paese di cui prenderà la nazionalità.
Già la sua vita è un romanzo. Giovanissimo, a Vienna entrò in contatto con il fondatore della psicologia individuale Alfred Adler e divenne suo allievo e strettissimo collaboratore. Alla fine degli anni Venti si traferì a Berlino, ruppe con il suo maestro e aderì al Partito comunista. All’avvento del nazismo emigrò per qualche tempo in Jugoslavia e poi si stabilì a Parigi, facendo di fatto il rivoluzionario professionista. Dopo qualche anno, nel 1938, di fronte ai primi processi staliniani e alla cinica e spietata politica del partito abbandonò il comunismo e iniziò una sua personale lotta contro tutti i totalitarismi che durò fino alla fine dei suoi giorni.
Torniamo a quelle vecchie figurine o, meglio, torniamo a Il roveto in cenere. Uscito nel 1946, in realtà si tratta del primo volume della trilogia autobiografica di Sperber intitolata Come una lacrima nell’oceano. Le altre due parti, Più profondo dell’abisso e La baia perduta, non sono mai state tradotte in italiano. La nostra editoria non perde mai occasione per fare figuracce.
A prima vista, Il roveto in cenere è un grande affresco storico sull’Europa degli anni Trenta fino alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Una storia corale, nella quale i protagonisti sono dei rivoluzionari che si muovono da una nazione all’altra per organizzare delle cellule comuniste guidati da una fede politica cieca e assoluta. La loro è una vita schiacciata tra le retate dei nazisti e il timore di finire nelle liste di traditori stilate dai loro stessi compagni di fede. Piano piano però si rendono conto di essere prigionieri di una ideologia aberrante e al servizio di una rivoluzione perversa, tradita dai suoi stessi adepti. Una strana gara a chi è più ortodosso, nella quale gli accusatori di oggi diventano i perseguitati di domani in un tragico gioco che sembra ripetersi all’infinito. Così vivono una condizione di smarrimento assoluto; sono degli esiliati dalla storia.
Tutte cose interessanti, che oltre tutto Manès Sperber racconta in modo mirabile dal momento che le ha vissute sulla propria pelle quando militava nel cuore dello stalinismo, ma ai miei occhi non ancora sufficienti per fare di Il roveto in cenere un grande libro. Per fortuna posso fare ricorso a quei lontani ricordi della mia infanzia di cui parlavo all’inizio.
Proprio come facevo con quelle magiche figurine sposto di poco lo sguardo e la prospettiva cambia, trasformando quello che assomigliava a un buon romanzo dell’Ottocento in un’opera che appartiene a pieno titolo al filone della migliore letteratura del Novecento: mitteleuropea ma non solo. E allora ecco che Dojno e gli altri esuli rivoluzionari protagonisti de Il roveto in cenere diventano il Signor K. di Kafka, l’uomo senza qualità di Musil o uno dei tanti vagabondi di Hamsum. Esistenze alla deriva senza identità, condannate a vivere nel vuoto incolmabile che si è aperto tra la vita e il loro io, due fortezze solitarie inaccessibili l’uno all’altra.
A questo punto la condizione dell’esule senza patria in fuga dallo stalinismo e dal fascismo si rivela essere un meccanismo di difesa di fronte a un mondo e a una realtà spietati. Forse aveva proprio ragione Robert Walser quando diceva che per sopravvivere bisogna diventare degli zero assoluti. Scegliere l’anonimato per sfuggire all’implacabile morsa del potere, qualunque esso sia. Quindi con il suo romanzo Sperber non ha solo rappresentato la tragedia della disillusione politica, l’inganno e il tradimento messi in atto dai grandi totalitarismi; è andato molto più in la. Il roveto in cenere è una straordinaria riflessione esistenziale. Come dice Claudio Magris:
«Egli non s’abbandona alla frammentarietà e alla dispersione ma lavora, disilluso eppure tenace, alla formazione ed alla comprensione della propria personalità, come se quest’ultima costituisse una classica unità».
Dunque, l’esilio volontario dalla vita come ultima fuggevole speranza. Mi accorgo che questa condizione del fuggiasco e del reietto presentata come l’estremo intervallo prima della catastrofe assomiglia tanto a quei brevi fenomeni naturali, lo sbocciare di un fiore, il volo di una farfalla, le foglie accese dalla luce di un tramonto, che nei romanzi di Jens Peter Jacobsen per qualche istante lasciano intravedere la possibilità di aprire quella porta sempre chiusa che impedisce l’accesso a un’esistenza piena e autentica.
Non so quanto Manès Sperber fosse consapevole di questa seconda possibile lettura del suo romanzo; di certo non ha mai saputo dell’esistenza di quelle vecchie figurine e probabilmente sarebbe scandalizzato del mio accostamento, a dir poco ardito. A me resta soltanto la possibilità di chiamare come testimone a mia difesa Colin Wilson, che nelle prime pagine de L’outsider scrive: «Ci può essere molto da imparare nell’adozione di un punto di vista diverso». E adesso la parola alla giuria.
Silvano Calzini