“Trasferire il proprio cuore nel petto di un altro”. Natsume Soseki, lo scrittore necessario
Libri
Alessandro Burrone
Ah, le lettere!… Quale potente strumento a nostra disposizione per poter esprimere tutto di noi! Poiché le lettere scritte hanno ragion d’essere per questo nostro bisogno impellente di essere. E son tanto più vere, quanto a scriverle son coloro che vivono la vita tutta, senza che venga loro risparmiato nulla.
Gli scrittori, poi, ne son maestri eccellenti. Eppure (ne avevo già scritto in altra sede), c’è scrittore e scrittore. Dacché c’è chi nasce con la camicia, potendo permettersi di scrivere tutta la vita, spesato da rendite considerevoli; e chi, invece, deve arrangiarsi come può, raschiando il fondo dei minuti nel barile delle ore irragionevoli e impensabili. Poi però potrebbe essere vero persino il contrario.
Ad ogni modo, ne sono un esempio perfetto e lampante queste parole di Anton Čechov scritte da Mosca il 20 agosto del 1883 a Nikolaj A. Lejkin:
“Stimatissimo Nikolaj Aleksandrovič,
quest’invio è uno dei meno azzeccati. Le noterelle sono scialbe, il racconto non è limato ed è alquanto pedestre. Ho un tema migliore e avrei scritto e guadagnato di più, ma questa volta la sorte mi è avversa. Scrivo in condizioni infami. Davanti a me ho il mio lavoro non letterario che mi assilla senza misericordia, nella stanza accanto strilla la pargoletta d’un parente in visita da noi, nell’altra stanza il babbo legge ad alta voce alla mamma L’angelo suggellato… Qualcuno ha caricato la scatola armonica e sento La bella Elena… Vorrei scappare in campagna, ma è il tocco dopo mezzanotte. Per uno che scrive è difficile immaginare un ambiente più schifoso.”
Del resto, chi qui ti scrive, caro lettore, deve ancora sistemare la cucina e i piatti sporchi da lavare. Si avvicinano le dieci della sera, e domattina si lavorerà ancora seduti, ancora a una temperatura infame e da denuncia di quattordici gradi. Ma nonostante tutto, sono ben felice di aver scorto questa lettera del grande Čechov, poiché mi è da sprone, e mi fa sentire più a mio agio tra gl’innumerevoli tranelli della realtà che la vita impone. Mi sento maggiormente sereno, se perfino Čechov aveva a nausea addirittura la letteratura stessa:
“Il mio letto è occupato dal parente venuto da fuori, il quale ogni momento mi viene accanto e intavola un discorso sulla medicina. «La bimba ha certo delle fitte alla pancia, per questo grida…» Per mia disgrazia, studio medicina, e non c’è nessuno che non ritenga necessario «discutere» di medicina con me. Chi s’è stancato di parlare di medicina avvia un discorso sulla letteratura.
Un ambiente impareggiabile. Mi rimprovero di non esser fuggito in campagna, dove, certamente, avrei dormito a sazietà, avrei scritto un racconto per voi e soprattutto mi avrebbero lasciato in pace con la medicina e la letteratura […]
Arrivederci. Sto pensando al come e al dove russare.
Ho l’onore d’essere, con rispetto,
Čechov”
Ebbene sì, le lettere, questi gioiosi giochi del pensiero rivolti a quel qualcun altro che caso mai potrà capirci, imitarci, o tutt’al più risponderci; nell’attesa istintiva e immediata di un riscontro pressappoco irriverente e sincero rispetto alla nostra verità, condivisa e svelata a chi crede di conoscerci, quando invece ancora tutto dovrà scoprire di noi; soprattutto del nostro «schifoso ambiente».
Giorgio Anelli