Siamo le parole che usiamo per dirci o, se non ci facciamo caso, siamo le parole usate dagli altri, siamo detti. Chi scrive può offrire le parole che mancano. In Sangue del mio sangue (Edizioni ETS, 2023) ho incontrato le parole che neanche sapevo mancassero, che permettono a chi le incontra di riconoscere ciò che pur esistendo di già è come non esistesse del tutto finché non ha le parole per manifestarsi, restando su una soglia, in penombra. La scrittura di Monya Ferritti è tagliente e illuminante. Letteratura è tutto ciò che allarga lo spazio espressivo offrendo possibilità di voce a chi non aveva ancora articolato la sua. In Sangue del mio sangue parla chi non è dal sangue che si fa dettare il discorso. (a.c.)
Il protagonista di Sangue del mio sangue sono le parole.
L’attenzione al linguaggio è massima. È il linguaggio che definisce la realtà che vediamo, viviamo e di cui vogliamo essere i protagonisti. L’uso consapevole del linguaggio è fondamentale. Per poter scrivere Sangue ho avuto bisogno di parole nuove. Nel libro ne indico cinque e a una sono particolarmente legata: bio-normativismo, che sta a indicare la discriminazione che subiscono le famiglie adottive e le persone con storie di adozione. Finché non hai una parola per dirlo di fatto il fenomeno non esiste. Pensiamo alla parola femminicidio: ora che è diventata di uso comune sappiamo tutti a cosa ci si riferisce quando la usiamo. Con bio-normativismo si dà il nome a un fenomeno che di fatto già esisteva ma che non aveva ancora la parola per essere detto.
Altra parola nuova: adofobia.
L’adofobia contraddistingue chi pensa che i legami di sangue siano i soli che possano costituire dei veri legami familiari. Per un adofobo una famiglia basata su altre esperienze non potrà mai essere una famiglia vera, con dei veri legami primari. Quando sminuisci il legame tra genitori e figli, e il più delle volte parliamo di bambini e bambine, stai praticamente togliendo la famiglia a quei bambini, minandone i legami e gli affetti.
In copertina ci sono i tagli di Fontana, che ritornano all’interno del libro come scansione tra le parti: rappresentano la necessità di venir fuori da quella che definisci adosfera?
L’ambizione di Sangue è di uscire dai confini. I tagli fanno emergere il bisogno di spazio. Di guardare oltre e attraverso. E dentro. Le esperienze delle famiglie adottive possono arricchire tutte le famiglie. Per dirne una: mettere a fattore comune le esperienze dei figli che sono figli anche quando non ti somigliano e non solo fisicamente, non ti somigliano nel senso che non sono come avresti voluto che fossero. L’adozione è una questione polarizzante, che oscilla tra “l’opera di bene” e il “chi ti metti in casa?”, e non è mai valorizzata per farne una riflessione critica sulla società che stiamo vivendo. Accade anche perché sono le persone stesse a non sapersi vedere, a non riconoscersi in quella minoranza che rappresentano.
In Sangue del mio sangue scrivi: “Il linguaggio è un fenomeno sociale, infatti esiste una relazione dialettica e di reciprocità tra linguaggio e società”. Quanto sono aggiornati il linguaggio e la società rispetto alla vita reale delle persone?
Siamo molto lontani da un utilizzo consapevole del linguaggio sull’adozione. Vedo e ascolto tantissimi stereotipi da parte degli operatori del settore: nei tribunali, da parte degli assistenti sociali, dagli psicologi. Se i formatori sono i primi a non mettere in discussione il linguaggio disponibile, come potranno mai farlo le famiglie adottive che a quei formatori si rivolgono, come potranno posizionarsi in maniera critica rispetto al linguaggio vigente? Siamo all’anno zero. Con Sangue del mio sangue, come con il libro che lo precede, Il corpo estraneo, l’ambizione è di aprire un dibattito pubblico. Ben venga chi si oppone all’idea di intendere le famiglie adottive come una minoranza, chi si oppone alla definizione di bio-normativismo. È solo dal confronto che è possibile misurare la validità di quello che si dice, che si scrive. Una nuova sensibilità verso il linguaggio d’altronde è già diffusa nelle nuove generazioni, purché siano istruite e questo va detto. Sarà perché l’auto-definizione specie per l’ultima generazione è un tema molto importante. Se c’è una cosa che ho imparato frequentando comunità anche diverse dalla mia, per esempio le comunità delle persone con disabilità, è che i diritti progrediscono assieme al progredire del linguaggio. Le parole non sono cose da passarci sopra, sarebbe come un passare sopra alle persone.
Quanto è ancora forte il mito ancestrale del sangue?
Moltissimo. Sangue-del-mio-sangue è il modo di dire padre di tutti gli altri modi di dire sbagliati sull’adozione. È per questo che l’ho scelto come titolo del libro. La nostra resta una nazione familistica, nel bene e nel male. Il sangue richiama immediatamente quello che per le famiglie italiane è l’unico modo tramite il quale è possibile essere famiglia: riproduttiva, procreativa, in linea di sangue. Tutte le altre sono famiglie che si sono dovute ‘accontentare di altro’, di legami meno forti, meno veri. Basta guardare ai media, specie quando si tratta di riportare notizie di cronaca nera: se c’è una persona con background adottivo implicata l’aggettivo adottato o adottivo viene sempre rimarcato, come se da solo già bastasse a spiegare al lettore qualcosa sulle motivazioni su quanto sia successo. La valenza del sangue potrebbe interrogare sicuramente gli antropologi. All’interno del libro me lo chiedo come mai le altre discipline non intervengano sul tema dell’adozione, che invece è sempre scrutata attraverso la lente monofocale della psicologia che la stigmatizza tanto. La pedagogia, la sociologia, la filosofia, la letteratura, ciascuna di queste discipline può e dovrebbe dare il suo contributo tramite lo sguardo che le è proprio. Così l’adozione potrebbe diventare più poliedrica, più reale, più come è, e meno clinica.
Se volessimo trovargli una trama al centro di Sangue c’è la persona adottata, e il suo pieno diritto di affermarsi al di là del suo essere stata adottata. Quali sono gli ostacoli attuali al diventare il protagonista della propria esistenza?
Occorre poter sviluppare consapevolezza di sé stessi. In Italia mancano i gruppi delle persone con background adottivo che sappiano darsi degli obiettivi politici. Lo stesso passaggio dal definirsi e autodefinirsi non più persone adottate ma persone con background adottivo lo rivendico come risultato di Sangue e di Il corpo estraneo. La mancanza dei gruppi con obiettivi politici è un problema, o un salvataggio, certo dipende da come ci si pone. I gruppi di rivendicazione politica presenti all’estero, per esempio, stanno portando alla chiusura delle adozioni internazionali. Bisogna in ogni caso essere consapevoli della portata rivoluzionaria messa in campo dall’adozione: generare famiglie senza legami di sangue. Al di fuori dell’associazionismo di categoria per i gruppi o i singoli al momento l’unico orizzonte è quello di insegnare qualcosa alle altre famiglie adottive. Non riescono ad andare oltre. Ad emanciparsi da una condizione di figli che possono al più raccontare la loro esperienza da figli che ce l’hanno fatta a genitori adottivi che sono preoccupati sul come far bene la loro parte.
Un personaggio minore, in sordina, nel racconto dell’adozione, e più in generale delle relazioni genitori-figlio, è il padre. Nel libro scrivi “I padri sono ai margini”.
Il dato è culturale, però anche in questo l’adozione dovrebbe aiutarci a sovvertire il modello. Nell’adozione il percorso si fa in due, non c’è una persona che ha su di sé le maggiori conseguenze, come nel caso della gravidanza per la donna. Nell’adozione si viaggia e si arriva assieme. Dovrebbe essere un seme trasformativo nella società questo tipo di genitorialità equilibrata. Non fosse che una volta formatasi la famiglia tende a replicare il modello dominante e la madre torna a essere il ruolo prevalente. La famiglia si rimette in uno schema che però non è il suo, in rincorsa. Invece di creare nuovi modelli familiari si riproduce quello a cui non si appartiene e nel quale si prova a rientrare in tutti i modi pur di essere riconosciuti quale vera famiglia. Nelle comunità di persone con background adottivo è anche vero che il più delle volte la ricerca riguarda la madre, perché è la madre che può eventualmente sciogliere il segreto su chi sia stato il padre. È la madre che sa.
“Subire una discriminazione significa avere riconosciuta una quota di dignità minore rispetto a chi sta discriminando”. Quanto è ancora alto, secondo te, il rischio che questo tipo di riflessioni critiche siano recepite all’esterno, dalla maggioranza che crede non la riguardi, come recriminazione vittimistiche?
Siamo già oltre il rischio, siamo al dato di fatto. I genitori adottivi sono addestrati a pensare ai loro figli come a persone con bassa autostima a-causa-dell’evento-adottivo, con incapacità di creare dei legami solidi a-causa-dell’evento-adottivo, e così via. Siamo al punto in cui è doveroso fermarsi a riflettere su quanto vada attribuito al legame adottivo e su quanto invece vada fatto risalire allo stigma che sul legame adottivo viene impresso, così come è stato fatto per le altre minoranze.
Il feticcio dell’adozione torna buono per farne un romanzo dickensiano. Le persone con background adottivo sono tokenizzate, alterizzate. È questa la narrativa presente nel discorso pubblico. C’è chi si discosta dalle narrazioni maggioritarie?
No. Non ancora. Ai genitori adottivi dico sempre: avrete a disposizione uno scaffale nel quale ci sarà sicuramente una parte di testi giuridici, poi una piccola parte fatta di biografie e di autobiografie, specialmente nei casi di adozione internazionale perché lì c’è il fascino del lungo viaggio, anche se negli ultimi anni qualcosa sulla nazionale comincia a essere scritto, e una larga parte fatti di testi di psicologia, ma sempre inseriti all’interno del filone narrativo previsto. Nient’altro. Non c’è evoluzione. Se manca il dibattito come potrebbe mai esserci?
In Sangue si sente la volontà di cercare un modo nuovo per dire cose nuove, cioè cose non ancora dette, non così. Si sente anche una evoluzione stilistica rispetto al volume precedente, Il corpo estraneo di taglio più strettamente saggistico. Sapresti dire per quali fasi passa questa trasformazione della scrittura?
Il corpo estraneo, il libro precedente, ha avuto la sventura di essere stato pubblicato un mese prima della chiusura generale dovuta alla pandemia. Tutte le presentazioni fatte sono allora avvenute tramite lo schermo. L’unica grande critica che mi veniva mossa era che fosse troppo difficile da leggere. Troppe note, troppi concetti, parole troppo difficili. Insomma, le critiche erano di ordine stilistico. Ho scritto Sangue cercando di andare incontro a questa esigenza. Il mio interesse è che il libro venga letto perché poi possa essere discusso. Via le note. Più scorrevolezza. È un lavoro di cambio sul registro che proseguirà nel terzo libro che ho intenzione di scrivere, a chiusura della trilogia di testi che avevo in testa fin da quando ho iniziato Il corpo estraneo. Nel mio tentativo di essere più divulgativa comunque non vengo meno né nei confronti dei contenuti né in quelli della forma.
Rispetto alle reazioni che stai ricevendo dai lettori, Sangue a chi piace e a chi non piace?
Devo dire ai medesimi a cui è piaciuto o non è piaciuto Il corpo estraneo. Durante il Festival del Pensare Contemporaneo di Piacenza, quindi con un pubblico allargato, misto, in cui le persone legate personalmente al tema dell’adozione erano una superminoranza rispetto alla platea, ci fu la prima vera aggressione che abbia ricevuto nei confronti del libro, da parte proprio di una persona coinvolta nel tema dell’adozione. La critica è stata che il libro stravolgeva l’essenza stessa dell’adozione, che è l’amore. Mettevo troppo in discussione gli altri, cioè gli assistenti sociali, i tribunali, gli enti, facendo passare un messaggio errato. Sangue spaventa chi è affezionato ai concetti rassicuranti e chi non si sente pronto per mettersi in discussione. Sangue è per chi vuole affrancarsi, per chi vuole trovare messo per iscritto quello che dentro di lui stava già maturando assieme al sospetto però di essere lui quello sbagliato, quello diverso. Nuove parole e nuovi modi di pensare, è questo che Sangue vuole offrire a chi lo legge.
Abbiamo iniziato con una parola nuova, finiamo con una parola nuova: se dico: lovewashing?
Ripeto che la parola a cui tengo e che spero si diffonda è bio-normativismo. Le altre mi sono servite nella stesura nel testo. Lovewashing non ambisce a diventare il prossimo petaloso. Detto questo, con lovewashing si intende il rischio che si corre se si racconta la famiglia adottiva limitandosi soltanto al tema dell’amore che sicuramente la permea. Così facendo si elimina di fatto la complessità dell’adozione. Semplificare troppo significa non star facendo un buon servizio a nessuno, sempre tu non stia parlando a un bambino molto piccolo o a chi è stato abituato a sentirsi trattato in quanto tale. Chi ama non evita e non nasconde quello che potrebbe ferirti ma ti accompagna restandoti accanto, raccontandoti il mondo esattamente per come è.
L’intervista è a cura di Antonio Coda
*In copertina: John Singer Sargent, The Pailleron Children, 1881