21 Aprile 2023

Contro il relativismo estetico (e i disastri di Eco & Co.)

Oggi che tanto si discute di relativismo nessuno si indignerebbe alla prospettiva del relativismo estetico, mentre, giustamente, si infiammerebbe di sdegno alla prospettiva del relativismo morale: estremizzando fino al paradosso, nessuno potrebbe ricondurre nella sfera del giusto il cannibale che, spinto dalla sua cultura, si dedichi all’antropofagia, anzi, si ritrarrebbe con orrore alla sola idea. Chi osasse invece relativizzare il Bello commetterebbe il più veniale dei peccati.

Il relativismo morale non conduce al relativismo estetico (etica ed estetica sono interconnesse ma nettamente distinte nella loro sfera e nel loro oggetto) ma, paradossalmente, il relativismo estetico rischia di condurre proprio al relativismo morale: appiattendo il giudizio di valore nell’equivalenza e relatività di tutte le forme del Bello si pongono i sottili presupposti per la relativizzazione del giudizio morale, per cui gli atti potrebbero essere ricondotti essi stessi alle contingenze culturali. 

Il massimo corifeo del relativismo estetico in Italia è stato di sicuro Umberto Eco che, al posto di una Bellezza oggettiva, eterna e inscalfibile (nel senso che nessuno rivedrà mai il giudizio che la tradizione ha dato di Virgilio o di Dante, di Mozart o di Beethoven) ha eretto il simulacro opposto ma ben più insidioso di una Bellezza contingente, che varia col mutare delle epoche e delle culture.

Il relativismo estetico condotto al parossismo da Eco è proprio il portato di quella Postmodernità di cui il semiologo alessandrino resta uno dei frutti più tipici. Ancora in un suo scritto degli ultimi anni dove macroscopica è la sproporzione fra l’apparato elefantiaco delle citazioni e la gracilità della teoresi, Eco scrive:

“Ciò che è ritenuto bello dipende dall’epoca e dalle culture”.

“La Bellezza non è mai stata qualcosa di assoluto e di immutabile”.

Se fosse come dice Eco decadrebbe la possibilità stessa di una gerarchizzazione qualitativa delle opere d’arte. Seguitando con i paradossi intenzionali, Bach equivarrebbe ad Achille Lauro, Dante a Zerocalcare: anzi, siccome il relativismo strizza l’occhio sornione alla contemporaneità, assecondandola e cavalcandola anche nei suoi aspetti deteriori, una canzone del Festival di Sanremo di eleverebbe ben al di sopra della Commedia in quanto molto meglio rispondente al concetto attuale del Bello. 

Lo svuotamento del giudizio di valore è una diretta conseguenza dell’estetica del segno, intesa non più come un metodo, ma come uno strumento universale ed esclusivo, che finisce in realtà con l’appiattire i vari gradi di significazione. Dove tutto è segno è impossibile precisare veramente dove il segno abdichi dalla mera funzione nomenclatoria per assurgere invece alla contemplazione estetica ed è altresì impossibile acclarare in cosa esso si differenzi dagli altri segni. Anche il Bello estetico non ha più una chiara linea di demarcazione rispetto al Bello di Natura né il segno richiamante una ‘funzione’ si riesce a separare nettamente dal segno estetico, che è per sua natura afunzionale. 

A essere negata è l’essenza stessa dell’estetica così come è stata elaborata dalla tradizione occidentale e in questo, nel culto politeistico di una Bellezza integralmente contingentata, semiotica e relativismo vanno a braccetto. La Bellezza non è per i signori semiologi un monoteismo, una Forma formante oltre le forme particolari, ma un politeismo da vellicare. Lo scritto sopra richiamato di Eco concorre potentemente a inquinare le acque, confondendo intenzionalmente il Bello, che ubbidisce al tempo di Dio, e il Gusto, che ubbidisce al tempo e al criterio degli uomini.

Eco scrive che l’unità del Bello è data né più e né meno che da ciò che ci piace! Così asserendo egli ci conduce in un labirinto senza uscita di cui abbiamo smarrito il filo di Arianna.

Le teorizzazioni semiologiche pencolano anche pericolosamente verso l’idea dell’Arte come di qualcosa di funzionale, negando proprio quel disinteresse che è alla radice dell’esperienza estetica. L’Arte non è funzione, e proprio questo ad esempio è il limite del design, in cui anche l’oggetto più elegante non riesce quasi mai a uscire dall’alveo di una rispondenza pratica. Se il Bello fosse tout court segno non lo distingueremmo dalla segnaletica stradale: il segno rimanda sempre a qualcosa d’altro, ma non per forza al Bello, mentre il Bello, pur generato da un preciso tessuto storico e culturale, rimanda nell’oggetto della sua fruizione unicamente a Sé stesso. 

Eco insorgerebbe contro una tale idea, ritenendola una concezione angelicata e scarnificata della Bellezza, ma tutto l’arco della sua produzione estetica ha proprio giocato sull’illusione di una razionalizzazione e semiotizzazione integrale del Bello, uccidendo proprio quello che in esso eternamente permane di impalpabile e di irriducibile alla sfera delle scienze esatte. 

Quando Levi-Strauss e Jakobson si divertirono per primi a decostruire Les Chats di Baudelaire effettuarono un esperimento geniale; quando i loro meno geniali e più accademici epigoni applicarono macchinalmente tale metodo ai testi letterari dettero la stura a un inaridimento spaventoso degli studi umanistici, concorrendo, nel contempo, a creare una pletora di cattedre ad hoc. La semiotica e la semiologia si costituirono, in forma più o meno cosciente, in strumenti di potere. Il problema del linguaggio venne furbescamente dirottato nel senso della pura valenza segnica di esso. Si cancellò del tutto quell’idea, già da Schelling definita diabolica, della lingua che nasce con una sua incoercibile individualità. 

“Dentro della poesia le origini delle lingue” aveva intuito Vico con genialità precorritrice delle istanze romantiche. Può sembrare una questione speciosa, del tipo se nasca prima l’uovo o la gallina, ma lungo tutto l’arco della linguistica ricorre invece insistentemente il problema della nascita aurorale della lingua, del problema se essa nasca come canto, come forma prelogica, o, invece, come funzione pratica. Senza addentrarsi nello spinosissimo tema e restando invece al segno, va detto che esso serba valore sicuramente in linguistica generale ed applicata e, come voleva Saussure, in psicologia sociale, ma non nell’estetica propriamente detta, finendo esso per indicare qualsiasi processo di significazione. 

Il feticcio ‘segno’, dogmatizzandosi, ha finito col generare una nuova forma di retorica e una nuova forma di positivismo e naturalismo dove esso è divenuto oggetto di un culto indiscriminato: se tutto è segno allora torniamo davvero alla quasi proverbiale notte in cui tutte le vacche sono nere. La ‘semiotica interpretativa’ ha la rilevanza euristica della scoperta dell’acqua calda essendo solo il travestimento enfatico di quell’ermeneutica che affonda le sue radici nell’antica Grecia, nella cultura che ci ha fornito l’orizzonte generale del pensiero e di quel dimenticato giudizio di valore che esiste da quando esiste il pensiero concettuale. 

La ‘guerriglia semiologica’ con tanta enfasi prospettata da Eco è sic et simpliciter l’esercizio del pensiero critico, il dovere primo di chiunque ponga a sé stesso il problema della decifrazione del mondo. L’estetica e il giudizio estetico sembrano fuori moda, e c’ è anche chi propone di sostituire la nozione stessa di ‘percettologia’, non scorgendo forse come con tale sostituzione si inneschi non un chiarimento di idee già nebulose, ma una pericolosa catabasi agli Inferi, un regresso a una percezione indistinta che non è ancora intuizione del Bello. 

Insomma, come nella fiaba di Andersen il Re è nudo ma nessuno ha il coraggio di dirlo perché troppe cattedre e troppe postazioni di potere culturale sono nate all’ombra del suo reame. 

Alessio Magaddino

Gruppo MAGOG