La carica dinamitarda della parola poetica era già ben chiara a Platone quando, nella sua ideale Repubblica, bandì da essa proprio i poeti. Paradossalmente proprio il filosofo che meglio di tutti aveva intuito nello Ione la natura divina del poetare, il suo essere pervaso dalla “mania”, l’ispirazione soprannaturale, era anche colui che meglio ne aveva scorti gli impliciti pericoli, il latente messaggio eversivo che si cela nell’ombra del linguaggio poetico.
La parola creatrice fonda nuovi ordini e nuove cosmologie e, nel suo ricomporre ogni volta il mondo a misura del singolo individuo, del singolo universo lirico, trasmette per propria natura un messaggio di rivoluzione, di sconvolgimento dell’esistente. Ben più degli uomini politici e del loro vaniloquio sono i poeti agli artisti a impregnare le loro epoche, a depositare messaggi imperituri e a sconvolgere l’ordine costituito.
Dei poeti come effettivi legislatori del mondo parlò mirabilmente Shelley in quel grande manifesto romantico che è la sua incompiuta Defence of Poetry del 1821, testo che, come spesso accade, proprio alla sua incompiutezza attinge ulteriori riserve di bellezza. Shelley scrisse la Defence in risposta alle Four Ages of Poetry dell’amico e sodale Thomas Love Peacock, un attacco tra il provocatorio e il parodistico alle figure dei poeti romantici. Nella satira di Peacock l’età romantica in cui egli viveva scadeva a “brass age”, a età dell’ottone, in cui il poeta si riduceva a un semi-barbaro in una comunità civilizzata, comunità in cui il ruolo da lui in precedenza ricoperto toccava invece ai filosofi e agli statisti. Shelley ribadì punto per punto alla provocazione dell’amico, dando vita a uno dei testi fondanti del Romanticismo europeo e ribadendo invece la funzione incivilitrice della Poesia e come la fantasia poetica sia un organo della stessa natura morale dell’anima.
La Poesia è la vera e propria religione dell’umanità, affratellatrice tra i popoli in un sinolo inscindibile di Bello e di Buono. O, per meglio dire, tale connubio può essere scisso per determinare il rapporto di unità e insieme di distinzione che polarizza i due termini. La poesia, l’arte è “anche” moralità, racchiude nel suo nucleo una tensione etica e un’aspirazione superiore ma non può né deve ridursi alla sfera dell’eticità, che finisce per inglobare in se stessa e trascendere. L’etica sistemerà poi gli elementi che la poesia ha generato e la tensione fra i due poli assume pregnanza e pienezza solo nel mantenersi di quella tensione polarizzata, in cui i due termini rimandano incessantemente l’uno all’altro impregnandosi reciprocamente ma, in tale contaminazione, mantenendosi tuttavia distinti.
In questo si esplica la funzione incivilitrice della poesia prospettata da Shelley. Preannuncio della straabusata e strainflazionata frase di Dostoevskij per cui “La Bellezza salverà il mondo” (a sua volta eco del “la Poesia ci salverà” di Matthew Arnold?)?. Forse, anche se nella troppo citata e distorta frase dello scrittore russo le stesse connotazioni del Bello finiscono per colorirsi di caratteristiche extraestetiche, con un significato di redenzione dal male in cui il Bello e l’etica coincidono e si annullano vicendevolmente (già per Platone il bello era lo splendore del vero).
In una parabola affascinante come quella di Dostoevskij i due termini possono benissimo fondersi ma, all’atto della riflessione estetica, scorporata da preoccupazioni creatrici, i due termini si scindono nuovamente in quanto uno è fondativo dell’altro.
L’arte è in qualche modo la categoria prima, originaria, fondativa di tutte le restanti in quanto momento aurorale dell’attività dello Spirito umano. Essa stessa è attività non logica ma prelogica e che pure ubbidisce a una severissima “logica poetica”, come la battezzò Vico, animata da sue leggi di coerenza interna e di ubbidienza alla purezza dell’intuizione lirica. Recuperare le strutture prelogiche profonde sottese alla creazione artistica equivale ad isolarne il nucleo più puro e ristabilire la corretta gerarchia ascensionale e circolare che la unisce alla moralità.
Quanto profonda e gravida di conseguenze l’aforistica frase di Brodskij, nel discorso di accettazione del Premio Nobel, per cui “l’Estetica è la madre dell’Etica”! Brodskij scriveva splendidamente, dalla sua condizione di esule dalla Russia comunista:
“Se i padroni di questo mondo avessero letto un po’ di più sarebbero un po’ meno gravi il malgoverno e la sofferenza che spingono milioni di persone a mettersi in viaggio”.
E ancora:
“Dobbiamo pur sempre ritenere che la letteratura sia l’unica fonte di assicurazione morale di cui una società può disporre; che essa sia l’antidoto permanente alla legge della giungla”.
Proprio quella funzione incivilitrice di cui ragionava Shelley, quella fondazione di moralità attraverso il Bello che riscatta l’uomo dai suoi istinti più belluini, dalla sua sfera più grezzamente pulsionale. Le passioni dell’anima si detergono e si purificano nel grande lavacro dell’esperienza e della comunicazione estetica; l’esperienza estetica, sempre individuale in quanto germina dal terreno di un individuo unico e irriproducibile, si fa comunicazione e socialità irraggiandosi appunto dall’ anima del singolo. Ed esattamente il sentimento fortissimo della propria individualità è il suggello che rende l’opera d’arte effettivamente tale.
Nel momento in cui quel suggello si smarrisce e ci si illude di compiere una produzione estetica impersonale o, peggio, collettiva, si finisce per dare vita a qualcosa di meccanizzato e svuotato della sua vera sostanza e a soffrirne, per paradosso, non è solo l’individuo creatore, ma la stessa collettività depositaria di quella creazione, cui perviene invece qualcosa di impoverito e dimidiato.
Era sempre Brodskij a opporre l’arte ai “paladini del bene comune, i padroni delle masse, gli araldi della necessità storica”.
“Il disgusto, l’ironia o l’indifferenza che la letteratura esprime spesso nei confronti dello Stato sono in sostanza la reazione del permanente – meglio ancora dell’infinito – nei confronti del provvisorio, del finito… Ogni nuova realtà estetica ridefinisce la realtà etica dell’uomo. Giacché l’estetica è la madre dell’etica… Il bambinello che piange e respinge la persona estranea che, al contrario, cerca di accarezzarlo, agisce istintivamente e compie una scelta estetica, non morale”.
Nel discorso geniale di Brodskij un dubbio radicale viene avanzato su tutti coloro che paiono troppo solleciti della collettività sacrificando ad essa l’individuo. I paladini del collettivismo, del “bene comune”, dell’omelette per cui si possono rompere infinite uova eserciteranno sempre questo sofisma morale per portare acqua alle loro argomentazioni, accusando l’individualista di non curarsi dell’altro, di irresponsabilità, di scarso senso comunitario. E invece è proprio mirando a salvaguardare l’irriducibilità del singolo e la priorità categoriale dell’estetica rispetto all’ etica che si può fondare realmente l’etica stessa.
L’arte, la poesia, per riprendere un tema che abbiamo già toccato discorrendo delle recenti limitazioni della libertà, sono a loro volta espressioni dell’arte di non essere governati. Chi ha vivo, anche solo come lettore o spettatore (eviterei l’orrendo termine “fruitore”!), il sentimento dell’opera d’arte coltiverà sempre all’interno di sé il rispetto della propria e della altrui individualità.
L’esperienza estetica serve a ingentilire gli animi, a estirpare da essi la propria componente più ferina e istintuale. E, insieme, a coltivare il sentimento di rifiuto verso qualsiasi pretesa di sacrificare le peculiarità del singolo o di comprimerle in nome di vuote astrazioni.
Ecco perché la poesia è pericolosa e mina alle fondamenta i totalitarismi o anche soltanto gli autoritarismi:perché la poesia fonda da sé la propria autorità e non ubbidisce a quella di una macchina statuale tesa alla disindividualizzazione. Il poeta è più pericoloso di un bombarolo, più insidioso per i governanti in malafede di qualsiasi terrorista armato e la sua potenza, la sua carica esplosiva è tutta nella forza disarmata della parola che mette a nudo le menzogne e riconsegna tutto alla sua scabra nudità.
Herbert Spencer teorizzò la lotta dell’“individuo contro lo Stato”, abbracciando non già l’atomizzazione anarchica del tessuto sociale ma la difesa del singolo e dei suoi diritti contro i soprusi della maggioranza in quanto tale e dei marchingegni burocratici ed autoritari. Parafrasando il libertario Spencer si potrebbe parlare anche de “il Poeta contro lo Stato” in quanto il poeta non è assoggettabile, quando è realmente tale, alle convenzioni e alle trappole della politica, nemmeno se intesa nel senso più lato, e, anzi, le mina alle radici perché è espressione della fantasia individuale.
L’individualità dell’esperienza estetica è il vero antidoto alla demagogia della politica perché non punta ad abbassare e massificare l’uomo, ma ad esaltarlo nella sua unicità e a rivendicarlo contro qualsiasi trappola sofistica del “collettivo”. La salvezza parte dal singolo, ognuno ne è il proprio artefice, e, come Ernst Jünger, riponiamo fede solo nei Grandi Solitari, nei custodi dell’anima contro le menzogne massificanti.
La parola poetica serve anche a demistificare tali menzogne, fondando una nuova legge. Il già richiamato Brodskij, insistendo sulla reciproca solitudine dello scrittore e del lettore, poneva la letteratura come antidoto perenne alle soluzioni totalitarie e si sbilanciava nel dire che Lenin e Stalin, Hitler e Mao avevano in comune il fatto che l’elenco delle loro vittime era infinitamente superiore all’elenco delle loro letture.
Il libero fiorire dell’arte e l’attecchire dei totalitarismi sono incompatibili e non a caso lo Stato totalitario mette al bando o brucia al rogo l’arte “degenerata” e dissidente e, al contempo, tenta goffamente di creare una parallela arte di regime. Soltanto che l’arte di regime per sua stessa natura contingentata si sottrae alle categorie estetiche propriamente dette e, quando diviene effettivamente arte, in rari casi, trascende in automatico l’organismo politico che l’ha commissionata e fa involontariamente danni a quello stesso organismo, ribellandosi ai propri programmi fondatori.
Il discorso suonerà astratto e velleitario a che ancora attribuisce credito alla palingenesi attraverso la politica e, in buona fede o meno, concorre a perpetrarne le mistificazioni. Non suonerà invece astratto a chi serba invece la coscienza di come il vero contenuto dell’esperienza umana attraverso i secoli non sia nell’avvicendarsi dei governi e nel loro cadere come quinte teatrali ma proprio nel singolo individuo e nelle sue pulsioni morali, religiose, spirituali, in quelle aspirazioni che nella catarsi dell’arte conducono l’uomo a una delle sue massime elevazioni.
Alessio Magaddino
*In copertina: Davide con la testa di Golia secondo Nicolas Régnier