Una tavola rotonda all’ombra di un cedro e, intorno, sedie vuote disposte in modo ordinato. È una foto in bianco e nero scattata a villa Gabriella, ad Ascona, in Svizzera. Guardandola, Carl Gustav Jung – per anni non semplice animatore intellettuale, ma vero e proprio spiritus rector di Eranos – con occhio orfico lesse così quell’immagine di un’apparente assenza: “Sono tutti là”.
Basta questo breve aneddoto ad introdurci alla particolarissima esperienza di Eranos, nata nel 1933 su impulso di Olga Fröbe-Kapteyn e Rudolph Otto, tuttora in corso ogni anno in Svizzera, sulle rive del Lago Maggiore. Strutturata sull’esempio dei banchetti antichi, in cui ogni partecipante recava un proprio contributo, Eranos nel corso degli anni ha visto l’avvicendarsi di ospiti di grandissimo rilievo intellettuale nei campi più disparati del sapere. Psicologia, storia delle religioni, filosofia, antropologia, fisica, etc… Ciascuno, dicevamo, con il proprio contributo al fine di mettersi nuovamente sulle tracce di quello che Rudolph Otto ha chiamato Numinoso, sintetizzando con una sola parola i molteplici aspetti del sacro, ponendosi in netta antitesi alla dissoluzione dell’anima, cifra dell’epoca.
Far rivivere il Genius loci, l’abitante discreto di un luogo, prima ancora che orma umana si posi; nullus loco sine genio scriveva il retore latino Servio, a commento dell’Eneide. Una presenza “altra”; il nume tutelare custode discreto di un luogo, irriducibile. È un periodo del ’900 particolarmente travagliato: il secolo non vuole saperne di imparare la lezione degli eventi drammatici della Grande guerra e corre verso il precipizio di un nuovo e ancora più disastroso conflitto mondiale. È un momento in cui, soprattutto alle eminenti personalità – gli eranarchi – che animano gli incontri di villa Gabriella, tra cui C.G. Jung, Mircea Eliade, Henri Corbin, Joseph Campbell, James Hillman e tanti altri, appare sempre più evidente che qualcosa non torni nella realtà dell’uomo moderno che ha ceduto alla tentazione del titanismo. Padrone del mondo, vive dentro l’eclissi del sacro, imprime all’infinito una direzione esclusivamente orizzontale, reso manifesto da un ottimismo, che spesso si rivela fallace, nei confronti delle magnifiche sorti e progressive che non riescono mai a salvarlo dalle sue lacerazioni, a restituirgli un senso.
Stare di fronte all’archetipo, recuperandolo dalla soffitta impolverata della Storia, in un’unità ideale di Oriente e Occidente è certamente la direttrice lungo cui si è mossa questa esperienza che non fu per molto tempo, soprattutto nei primi decenni, soltanto culturale. L’approccio seguito nelle cd. Eranos Tagungen è olistico: ciascun ingegno, lungi dall’irrigidirsi nella propria specializzazione, si pone alla ricerca dell’Uno che anima il molteplice. Sovviene allora un celebre verso del poeta greco Archiloco: la volpe sa moltissime cose, ma il riccio ne sa una importantissima. Verso letto con sospetto dall’uomo moderno (e figuriamoci da quello postmoderno): valga per tutte la critica di Isaiah Berlin, secondo cui l’imperdonabile colpa è quella di sancire il principio dell’unità del sapere, contro una più democratica esaltazione del frammento, della parte singola in opposizione ad un presunto dispotismo del Tutto.
Nei carteggi epistolari intrattenuti con i diversi ospiti, Olga Fröbe-Kapteyn spesso accenna a ciò che anima l’organizzazione degli incontri, una totale fedeltà all’esperienza interiore, all’Imago, ben consapevole dell’errore in cui troppo spesso l’uomo disincantato cade, cioè l’equivalenza tra immaginale e immaginario. Il sacro viene recuperato come dato formale, osservabile e questo fa di Eranos, soprattutto nei primi, formidabili, decenni un luogo in cui risanare il reale dalle amputazioni furiose della modernità, che anche nell’arte e nella letteratura spesso certifica lo strappo tra linguaggio e mondo nell’illusione di bastare a sé stessi.
Livia Di Vona
**In copertina: un’opera di Carl Gustav Jung