Secondo Kuki Shūzō (1888-1941), pensatore, dandy, amico di Martin Heidegger, le geishe rappresentano il vero genio del Giappone. Donne di incomparabile eleganza, eternate nelle stampe di Utamaro, tra fiori, kimoni leggiadri, sguardi impenetrabili che celano la vorace fugacità di eros, le geishe, preda della “recondita volontà del dio”, assegnano al piacere la profondità di un credo. Nei loro “canti minimi”, ko-uta – qui raccolti in una scelta mai così ampia in Italia –, risolti suonando lo shamisen, la civetteria si snebbia in mistica, l’attesa è una teologia di speranze perdute, il tradimento la chiave che complica il sentimento in vendetta. Alcuni segni ricorrenti – i fiori, la luna, i ventagli, la neve – ricordano che siamo futili effimere, perduti nodi di polvere nel “mondo fluttuante”. Così, l’abiezione diventa ascesi, pura scienza dello spirito, e questi canti, “componimenti di poche strofe le cui parole romantiche tendevano a creare un’atmosfera di complicità erotica con il cliente” – naturalmente messi al bando in epoche di rigidità morale – sono scaglie di filosofia cruda, insensata sapienza dei sensi: si conficcano nella coscia, facendoci sanguinare e sospirare.
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A cura di di Fabrizia Sabbatini e Davide Brullo
Illustrazione in copertina di Angelo Borgese