
Houellebecq o della fase senile della scrittura
Libri
Luca Picotti
Che catastrofica capriola. 50 anni fa Gianni Brera volle sincerarsi che non era soltanto un ‘paroliere’, il Franz Liszt del giornalismo, ma uno scrittore. Per Longanesi pubblicò Il corpo della ragassa. Non proprio un capolavoro. Da cui, dieci anni dopo, Pasquale Festa Campanile trasse un omonimo film con Enrico Maria Salerno e una sinuosa Lilli Carati. Non proprio un capolavoro. Che paradosso. Quel romanzo diede agio agli accademici cialtroni di dire che Brera, vedete, sarà pure il principe dei giornalisti, un Tolstoj allo stadio, ma non è scrittore. Come se fosse necessario il romanzo – genere, per altro, tolto Manzoni, non proprio in voga sulla pedana italica – a fare un grande scrittore. Gianni Brera, nato a San Zenone al Po l’8 settembre 1919, aveva cominciato a pedalare sui giornali giovanissimo, “esordisce, diciassettenne, sul ‘Guerin Sportivo’, occupandosi della serie C di calcio con lo pseudonimo di Gibigianna”. Ed è lì, nel campo giornalistico – per virtuosismo, più libero, quel dì, delle strettoie letterarie – che diventa il più grande scrittore italiano del secolo scorso.
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Cedo all’eccesso, lo so. Se non il più grande – i superlativi gonfiano ad areostato le guance degli invidiosi – scrittore, certo, uno che ha inventato gerghi e linguaggi, ha rimasticato verbi come tabacco, “rileggerne i testi dedicati al calcio equivale a riconoscerlo scrittore tout court, senza inutili o ipocriti aggettivi”, m’insegna, per altro, Massimo Raffaeli, critico aureo, vero, raro – s’è occupato, tra i tanti, di Fortini e Volponi, di Primo Levi e di Céline – con il pallino per la palla (è eccellente scrittore ‘di sport’, L’angelo più malinconico. Storie di sport e letteratura, 2005, è libro bellissimo), nell’antologia breriana Il più bel gioco del mondo, che ha curato per Rizzoli nel 2007.
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Si sa, Brera poteva scrivere di tutto. Quando, l’anno scorso, mi son messo a sorseggiare quel testo bizzoso, occasionale, laterale, Così si beve vino, stampato con audace bellezza da De Piante, ho rischiato di ubriacarmi. Sentite qui: “Il vino va odorato con un lieve moto circolare del bicchiere, che lo arrubini e appanni prima di ricomporsi. Poi lo si accosta lentamente alle labbra e si alza in modo che la lingua ne sia ragionevolmente bagnata: papille gustative, terminazioni nervose delle gengive e delle guance, palato, retrobocca danno la misura del gusto, dell’acidità, del vi- gore e di tutte le doti – o difetti – che ho enumerato più sopra. Ma quando si sia definita la classe del vino, allora non bisogna indugiare troppo”.
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Ma è nell’emisfero calcistico che Brera giganteggia, omerico, con ineguagliabili flirt. Il pezzo del 1962, ad esempio, su Pelé e Leopardi. “Dribbla con movenze armoniose, sornione, plastiche, senza sculettare o danzare come tanti… è un vero classico. Dolce, chiara è la notte e senza vento. Pronunciate le comunissime parole di questo che è fra gli endecasillabi di più limpida trasparenza… Sapete che è Giacomino: ha il Parnaso fra le scapole, e i coglioni dicono che è gobbo. Bene. Adesso guardate Pelé. Dolcechiaraè: ha alzato il piedino prensile: lanotte: la palla si è fermata al primo contatto e senza vento: ricade ammansita sull’erba… Mi dico di non aver mai visto nulla di simile”. Il parallelismo tra la poesia di Leopardi e quella calcistica di Pelé procede in una trattazione criticosportiva mirabile.
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Il 28 ottobre 1963 un articolo squisito, Gadda spiegato al popolo?, il grande centenario dirime la questione, alla Brera, su Brera & Madama Letteratura. Brera risponde a tal Giovanni Pischedda, “direttore dell’Istituto di Filologia Moderna presso l’Università dell’Aquila”, che chiede al nostro di esprimersi in merito a “una nota in cui Umberto Eco parla di un ‘gaddismo spiegato al popolo’ a proposito dei Suoi stilemi”. La risposta è ghiotta. “Caro Professore, sono di normale ignoranza universitaria e ho imparato l’italiano (quel poco) a scuola, dove non si insegna affatto un linguaggio ad uso dei giornalisti e ancor meno di quelli sportivi. Non avevo mai sentito della rivista ‘De Nomine’ e conosco Eco per alcune sue cose giornalistiche. Non so a quale proposito mi abbia citato. La disinvoltura con cui mi assegna ai gaddiani è indice del suo senso storico. In effetti, ci si dispone a scrivere obbedendo all’atmosfera letteraria del tempo, cui si arriva e si contribuisce chissà come. Io disegnavo spontaneamente vecchio, da ottocentista, e i miei figli disegnano spontaneamente nuovo: per l’atmosfera, dico. Ora Gadda… è un dannunziano salvato dal vernacolo. Ed io vengo definito barocco da tutti i pirletta che storcono il naso quando non fiutano Gide o Joyce… Il misogino Gadda non ha molto da raccontare e intarsia anche le cacatielle delle galline. Io… scusi tanto, io sono un cronista sportivo, un’ora, due ore per il pezzo: vorrei tanto vi si provassero i pirletta!… Infine viene Eco, e scopre l’acqua calda: non sapendo a quale prototipo addebitare un linguaggio per lui nuovo, cerca nell’elenco bibliografico: vedi mo’ qua Carletto Emilio de’ Gadda di Milano… Un bel niente! Carletto Emilio è uscito col Pasticciaccio quando el Gioânn scriveva cronacazze muscolari da venti anni. El por Gioânn non ha mai preteso di far letteratura. Se ha dovuto inventarsi un linguaggio, non già una lingua (scherzèm minga), lo ha fatto perché non esisteva. A scrivere di sport erano letterati minori, senza gran nerbo, o tecnici di sport che non sapevano di letteratura. I pirletta sghignettavano molto leggendo neologismi ad ogni pezzo: ma se non esistevano i termini?… Quanto agli stilemi di cui parlano Eco e il professore dell’Aquila, no pognimaio. Non credo di essere molto diverso da mio padre artigiano. Infilo la gugliata e tiro i miei punti: a volte benino (mai benissimo), a volte pessimamente. E sono artista in questo solo: che non so mai come finirò un articolo, che ammetto l’influsso degli astri, della bile sgorgante a fiotti lievi”.
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Che meraviglia. Tutto per dire, con umiltà da mediano e piedi netti da terzino, che Brera, nel suo, è meglio di Gadda. E che Eco è l’eco dell’ovvio. Mettiamolo nelle antologie scolastiche, il Brera (al posto di Gadda?).