14 Febbraio 2023

“Malattia come un destino”. Daniele Mencarelli, l’anomalia letteraria

La malattia non è materia plastica. Non un affare da canonici scrittori, romanzieri dell’ovvio. Per cantarla, è necessario l’animo di un poeta. Nitida percezione fin dai tempi di Victor Hugo.

Il poeta. E non altri. Perché della malattia, dell’infermità, costui conosce gli elementi primigeni, essenziali, gli stessi di cui si nutre, divoratrice, la poesia. La forma e l’abisso.

Colui che osa inabissarsi nell’oscurità del verso, non privo di affannoso tormento, sa addentrarsi nei severi dedali del linguaggio, fino a valicare la soglia di quello più atto a raccontare il male patologico, disfunzionale, nella sua terrena concretezza, senza mai disgiungerlo dalla propria dimensione metafisica.

Per il poeta, la malattia è nelle parole. E in tale senso, l’opera di Daniele Mencarelli rientra nel campo dell’anomalia letteraria, a volgere il più ampio sguardo alla vallata editoriale in cui, non privo d’un certo selvaggio candore, s’è insinuato.

Polimorfismo narrativo suonerebbe come una diagnosi. Qui invece interessa l’anamnesi. La storia. Il germe.

Mencarelli, infatti, nasce poeta. Poi la prosa, il romanzo, la sceneggiatura, la serie tv. Ma è sempre la poesia, alla fine, ad arrivare dritta alle vene. Come in un Tempo circolare (che è anche titolo della sua raccolta di poesie 2019-1997, peQuod edizioni), le parole di Daniele Mencarelli compiono un viaggio, un’iniziazione che parte con il battesimo della poesia, per giungere poi, mutate nella forma, ai contesti narrativi più svariati. Ma il nucleo resta immutato. Poesia celata, travestita.

Non è un caso che i primi versi di Tempo circolare, sotto la poesia “Al manicomio” – «Maria, ho perso l’anima!» – costituiscano l’incipit del romanzo Tutto chiede salvezza, da cui lo Strega Giovani, la nota serie Netflix.

E non a caso il suo ultimo romanzo, Fame d’aria (Mondadori, 2023) ricalca il tema di alcuni versi pubblicati dieci anni prima nella raccolta Figlio (Edizioni Nottetempo, 2013), una lunga teoria d’ospedali in cui “dio è un dottore senza camice” e i sani sono privati della visiva percezione del miracolo.

Ha l’orecchio assoluto, Mencarelli, in senso narrativo. Nella sua opera una singola parola può assumere svariate forme, è come una nota, un accordo suonato con diversi strumenti. Una volta è un contrabbasso che accompagna sommesso un’aria, un’altra un assolo di percussioni, un’altra ancora, un ardimentoso arpeggio. Avere avuto o meno esperienza dei suoi precedenti lavori – di carattere poetico – non muta la percezione che quelle parole, come suoni, siano l’eco di qualcosa che giunge da lontano. Un’epifania.  

Fame d’aria, di claustrofobico, oltre al titolo, ha l’inquadratura. È come una pellicola girata in rapporto 1:1. Stretta, al punto di poter contenere una sola persona. O due che sono uno. E anelano disperatamente ad essere due. Un padre che si percepisce come singolo individuo nei rari istanti in cui un figlio estraneo pure a se stesso – autistico a basso funzionamento –, è quieto, nella sospensione fra sonno e veglia. Un figlio libero solo nell’attimo in cui il padre è distratto. Un urlo che è la voce di tutti i padri e un figlio – ‘il neppure infelice’, l’angelo caduto – che non può sentirla.

Mencarelli qui oltrepassa il linguaggio della pietà, valica l’imbarazzo dei padri di fronte all’amore genitoriale. Apre alla crudeltà, all’odio, alla rabbia. Disturba, con parole brutali nel gusto – lo “Scrondo”, il nomignolo affibbiato al ragazzo malato, quello di un mostro che fu icona televisiva degli anni Ottanta.  

Di nuovo, le parole formano nel romanzo un tempo circolare. Nascita, morte, rinascita. Sulle spalle, un peso a forma di croce. Quella di un’esistenza mai evoluta. Da figlio, ma anche da padre.  

“Come si fa a sentirsi uomini di cinquant’anni?”.

Il dolore e la repulsione, la competizione – tutta al maschile – con la malattia, di contrasto a una silenziosa accettazione materna. L’amore che non salva. E i genitori dei figli sani che non sanno niente.

Un flash riporta chi scrive ad una scena, dolorosa, di Mommy, film di Xavier Dolan nel quale il regista immagina un futuribile Canada in cui una legge consente ai genitori di effettuare in emergenza, per minori con problemi psichici, un ricovero coatto presso un istituto psichiatrico.

Una sorta di risposta, lievemente distopica ed eticamente provocatoria, a quella domanda che Mencarelli, ben prima della genesi del romanzo, abbandona fra le onde della poesia, come il messaggio in bottiglia di un genitore naufrago di sé.

Dal greco autós
la malattia di chi si basta
di chi rifiuta la parola prossimo,
malattia come un destino
senza sorprese né guarigione.
Tu dormi la notte è al principio
non sai che ai piedi del tuo letto
stanno due figure senza pace
paralizzate dal troppo movimento.
Ti scopri nel sonno
e quattro braccia partono,
nessuna bocca ha il coraggio
dire quello che gli occhi si dicono,
chi dopo nostra morte ti metterà al caldo?

Gruppo MAGOG