Vita tra gli Ainu, il popolo inaccessibile
Cultura generale
Le meraviglie del corpo morto, ovvero: sul genio letterario di un anatomopatologo
Libri
Paolo Ferrucci
Foto di rito, d’ufficio. Sembrano tutti così vecchi, moribondi, morenti. Vedo travi arcaiche detonare dalle loro pupille e grifoni barocchi coltivati sotto la cupola del palato. Pare una fotografia di un secolo fa. Lo scrittore non dovrebbe mai farsi ‘vedere’, dovrebbe costringersi a un aureo anonimato a una raffinata clausura. Quando lo vedi, fa pena, fa ridere, è ridicolo. Non equivale il peso della sua facoltà narrativa – se c’è, poi, questa ferina facoltà – ne è travolto e tramortito. Per questo. Bisogna immaginare lo scrittore attraverso i suoi libri. Appena lo vedi, lo scrittore, il miracolo si sbriciola: ah, ma, è quello?!?
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Premio Strega 2018. Per me è il Premio Strega 1818. Anzi, no. Nel 1818 vengono pubblicate due opere rivoluzionarie, Frankenstein di Mary Shelley e Persuasione di Jane Austen, ce ne fossero. Il Premio Strega, per altro, è morto alla prima edizione, quella del 1947: Tempo di uccidere di Ennio Flaiano è tra i grandi romanzi italiani di sempre, il più bello premiato allo Strega. Il resto – da allora ad oggi – è tintinnio di trine, fiorire di spumanti, un imbarazzante volemose bene a Villa Giulia, con vecchi in stole straricche e giovani radiosi d’ambizione. Il Premio Strega, che è il massimo riconoscimento letterario in Italia, è quanto di più lontano dalla verità della letteratura italiana.
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I premi, di per sé, sono utili. Per due ragioni. Lo scrittore, di solito, è un poveraccio. I soldi gli servono per pagarsi quello che deve fare. Scrivere. Altrimenti. Deve inventarsi altri venti mestieri e scrivere la notte. E poi. L’arte è agonistica. L’arte è competitiva. Lo scrittore è in gara con i suoi simili e con i morti, è in gara con tutti, con il vicino di casa e con Dante Alighieri. Non credete a chi ha una visione pacificata della letteratura: chi scrive, scrive, consciamente o meno, per imporre la propria parola sugli altri, per sigillare per sempre, con un verbo, la bocca altrui.
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I premi però non dovrebbero beatificare i soliti noti – per altro, ignoti ai più –, ma fecondare l’ignoto, essere un avamposto di luce nel futuro prossimo. I premi letterari importanti come il Premio Strega non devono essere il calesse del tempo andato, ma uno shuttle, capace di perforare il cranio della profezia. Gli scrittori, serpenti per natura, stanno bene a Villa Giulia come in un monastero sull’Athos, sono avidi di umanità, ovunque essa sia, non discriminano, osservano tutto, vanno sotto braccio alla puttana e al cardinale, amano il perduto, il frate, il migrante, ma non disdegnano l’aula ministeriale, l’alcova del potere. Non c’è luogo dove non arrivi la parola – che non arretra mai – perché la parola è come acqua. E lì, a coglierla, enogastronomo del dolore, c’è lo scrittore. Disavvezzo alle formalità, dopo aver baciato lo stipite della Fondazione Bellonci, però, lo scrittore torna a tessere dialoghi platonici con le gazze.
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Non censuro né cestino la ‘cinquina’. Brava gente – celebre al misero popolo dei lettori – pubblicata da editori di chiara fama. Dentro ciascun libro, se avrò voglia o mi obbligherà il mestiere, entrerò: dal deltaplano su cui sono sdraiato come un Buddha, non c’è bagliore di novità narrativa. Sono tutte, più o meno interscambiabili, belle cose di buon gusto. Oggetti d’arredo. Per capirci. Tra i libri, oggettivamente, più belli usciti in questi tempi cito Guida alle reliquie miracolose d’Italia di Mauro Orletti, La bellezza che resta di Fabrizio Coscia, La boutique di Eliana Bouchard, La casa degli sguardi di Daniele Mencarelli. Poi ci sono i poeti, che andrebbero considerati allo Strega, vista la superficialità linguistica dei romanzieri recenti: Il moto delle cose di Giancarlo Pontiggia e I destini minori di Isacco Turina sono libri di miracolosa e tenace ferocia. E già che ci siamo, premiamo anche i traduttori allo Strega, che a volte sono veri alchimisti del linguaggio: lo scrittore Marino Magliani che rifà il verbo sinuoso e amazzonico dell’Haroldo Conti di Sudeste è degno di tappeti d’alloro. Insomma, ci vuole genio, bisogna svaligiare il consueto, variare lo schema, camminare con le mani, a testa sotto, per cercare la rarità linguistica, mica sedersi a cavalcioni sull’ovvio, che palle.
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Ma chi l’ha detto che ogni anno bisogna premiare qualcosa se non c’è nulla da premiare? Ah, già, le case editrici. Occorre ‘alimentare le vendite’. Ma gli scrittori sono felici di essere trattati come ferri da stiro o frigoriferi? Sarebbe interessante uno scrittore ‘laureato’ – premiano solo quelli – che rifiuta un premio dicendo, lo merita un altro, non io, uno che sta nel reliquiario di casa sua, uno che sta nella tomba, un tombarolo.
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Il Premio Strega è l’abbecedario del qualunquismo. Esempio. “Non sai niente di me, eppure sai tanto perché sei mia figlia. L’odore della pelle, il calore del fiato, i nervi tesi, te li ho dati io. Dunque ti parlerò come a chi mi ha visto dentro”. Questo è l’incipit di Resto qui, Marco Balzano, uno dei cinque allo Strega. Titolo brutto, incipit patetico, per un romanzo – fonte Corriere della Sera – che parla di “fascismo e repressione”. Attimo di silenzio. “Il Principe Eugenio di Svezia si fermò in mezzo alla stanza. ‘Ascoltate’ disse. Attraverso le querce dell’Oakhill e i pini del parco di Valdemarsudden, di là dal braccio di mare che si addentra nella terra fino a Nybroplan, nel cuore di Stoccolma, veniva nel vento un triste, amoroso lamento. Non era il malinconico richiamo delle sirene dei piroscafi, che risalivano dal mare verso il porto, né il grido nebbioso dei gabbiani: era una voce femminile, distratta e dolente”. Anche questo è un libro che parla di “fascismo e repressione”. Kaputt, Curzio Malaparte. Mica un capolavoro. Un romanzo. Un romanzo vero. Si sente fin dall’inizio il ‘passo’ diverso, la marcia, l’odore resinoso della storia. Se non c’è nulla da premiare tra i vivi, per favore, premiamo i morti. (d.b.)