03 Settembre 2018

Umberto Eco in arabo. E i sovranisti sono cantanti d’opera buffa (copyright Paolo Fabbri)

Il paradosso ha la faccia di un clown e il vocione da anchorman, probabilmente. Due anni dopo la morte, Umberto Eco, già un ‘classico’ in vita – nonostante lui – pare, editorialmente, un pimpante immortale: i suoi libri si ristampano, si vendono, cani da tartufo sono alla perpetua ricerca dell’inedito. Solo che per trovare l’inedito – ecco il paradosso – occorre insinuarsi tra le spire dell’alfabeto arabo. In italiano il titolo fa: Così parlava Umberto Eco. Articoli e interviste. La sintesi me la fa Paolo Fabbri, guru della semiologia, amico e collaboratore di Eco – che ne profila l’identità nel Nome della rosa, trasfigurandolo in Paolo da Rimini, abbas agraphicus – che ora porta il verbo di Eco in questo e altri mondi – l’anno scorso ha discusso di Eco a Santiago del Cile e a Lima, tra l’altro, il 6 settembre prossimo ne parlerà al Festival della Comunicazione di Camogli. Trattasi di “Un libro che traduce in arabo (classico) interviste e articoli di Eco in francese, inediti in Italia”. Proprio così. L’impresa nasce in Libano, dove un gruppo di studiosi volenterosi ha tradotto gli articoli e le interviste che Umberto Eco ha rilasciato in Francia negli ultimi vent’anni. Il libro è pubblicato da Dar Al Farabi e sarà presentato alla prossima International Arab Book Fair, a Beirut. L’Italia, ovviamente, c’è: a introdurre il tomo è Paolo Fabbri, a contribuire alle spese di traduzione l’Istituto Italiano di Cultura di Beirut. Pare paradossale, però, che per leggere l’Eco inedito, a meno che non abbiate i ritagli dei giornali d’origine, occorra sapere l’arabo. Il che, pare, ha un sapore che coincide assai con Eco, diligente vagabondo in culture aliene, avido indagatore di linguaggi. Così – in attesa di picaresche traduzioni del libro in queste lande – ho dialogato con Paolo Fabbri. (d.b.)

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Umberto Eco insieme a Paolo Fabbri

Umberto Eco inedito, in arabo. Pare un paradosso, ma penso che piacerebbe all’autore, visto il periplo dei suoi studi: lei cosa ne pensa?

Eco, per testamento, voleva che non si facessero colloqui su di lui. Ma non ha dato disposizioni sulle traduzioni: pensava anzi che la lingua universale fosse la traduzione, la quale preserva le lingue e le arricchisce nel confronto e contatto.  Nell’ardua scrittura dell’arabo erano già stati tradotti i romanzi, non i saggi italiani di Eco. Il libro, appena uscito, è una traduzione dal francese, lingua di comunicazione e cultura nel Libano – anche se ormai le giovani generazioni si iscrivono alla American University. D’altronde, da buon medievalista, Eco era esplicitamente interessato alla fonti islamiche della Divina Commedia.

Nella sua introduzione insiste su una parola, ‘tolleranza’ che è – in modo intollerabile – entrata nel dibattito giornalistico odierno. Alla tolleranza, in effetti, va affratellato il termine opposto, ‘intolleranza’, senza il quale non si capiscono gli esiti del primo.

Per un linguista ogni termine fa parte di un sistema, cominciando dai sinonimi e dai contrari – gli antonimi. Per tolleranza non penso affatto alla condiscendenza o all’indifferente cinismo del everything goes. C’è Tolleranza quando si può condividere uno spazio – fisico, mentale, emotivo – dove le differenze e i diverbi siano riconoscibili e da elaborare tra soggetti portatori – è la radice di Tollere – di opinioni discutibili e  che riconoscono la buona fede altrui. Quel che è menzogna nella nostra prospettiva può darsi come verità per altri (Pascal). Un principio e un sentimento che domandano però di fissare i limiti dell’Intollerabile: come la negazione dell’altro a nome di dogmi universalisti e d’una intransigente idea del vero. Insomma una tolleranza, direbbe Eco, “circoscrivibile”. Il contrario della legge di Godwin per gli scambi in rete: dopo poche repliche nei social media si arriva a trattarsi da nazisti. Nel Medio Oriente, Libano, Siria, Giordania parlare d tolleranza, non può peggiorare la situazione!

Al termine ‘tolleranza’ associo ‘migranti’ e ‘sovranismo’, parole desuete, tornate di moda. Lei che è esperto di segni e di sensi, ce ne faccia comprendere il sapore. 

Questione di grammatica: migranti è participio presente ed esprime una caratteristica provvisoria e in movimento: quindi è meglio di emigrato, che è un participio passato, il quale si trasforma in una proprietà permanente. sovranisti odierni fino ad ora mi sembrano etimologicamente soprani, cantanti d’opera buffa. È un sinonimo di nazionalisti che sono contro – migranti, europei, ecc. Preferisco il contrario cioè i patrioti che sono per e non contro.

Altro termine – su cui lei ha già dibattuto, mi pare – ‘fake news’. Il mio udito associa ‘fake’ a ‘fuck’… Quanto all’eterno rapporto tra verità e menzogna, insito nel parlare la parola non dice mai ciò che dovrebbe cosa ci dice?

Non scomoderei il Vero, la mitica corrispondenza dei segni – parole, immagini, ecc. – con il mondo. (Anche perché non so cosa sia un mondo fuori dalle diverse descrizioni che ne diamo). Preferisco parlare di esattezza e di correttezza correggibile delle informazioni – non di sincerità, si può sempre dire sinceramente una cosa che risulta sbagliata. Per intanto ricordiamo che le fake news sono spesso prodotte per ragione tattiche – mi invento una storia improbabile per ottenere molti like da vendere in pubblicità; per calcoli strategici: i governi per verificare le fake news aumentano i propri occhiuti controlli. (Un es. durante l’elezione di Trump le fake news russe davano informazioni contraddittorie sulle vaccinazioni: pro e contro,  per accentuare il dissenso nell’opinione pubblica USA). Insomma, è questione di conflitto e il primo caduto sul campo è proprio la verità. Bisogna battersi correggendo e precisando. Non vedo prossimo l’Eden di una società consenziente e controllata, senza dibattito sulle proprie news, fake o meno.

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Arabeco1Per gentile concessione pubblichiamo un brandello dal testo introduttivo di Paolo Fabbri a “Così parlò Umberto Eco”, raccolta di articoli e interviste rilasciate dal grande studioso in Francia e ora tradotte in arabo. Il titolo dell’introduzione è: Umberto Eco. Un anagramma: “maitre à penser, ami à presenter”.

Rizomi e Tolleranza

Nel corso delle conversazioni con intervistatori di diverse curiosità e competenze, ritorna, tenace come il pedale in musica, una nota dominante: la Tolleranza. Nello sviluppo della sua riflessione semiotica Eco ha gradualmente abbandonato la rappresentazione della cultura come gerarchia di codici, albero genealogico ramificato, per approdare all’immagine d’una enciclopedia di saperi i quali crescono labirinticamente l’uno sull’altro, come cespuglio o un rizoma. Per Eco, e lo testimoniano i dibattiti teologici de Il Nome della Rosa, l’intolleranza era la negazione dell’altro a nome di principi universalistici e d’una intransigente idea del vero. Capita a tutti, una volta o l’altra, di essere “sinceri parlanti di menzogna”, ma non per questo everything goes. Essere tolleranti, richiede uno spazio comune dove le differenze e diverbi siano riconoscibili e elaborabili semioticamente; tra soggetti dotati di opinioni preferibili e capaci di riconosce la buona fede altrui. Quel che è menzogna per noi può darsi talvolta come verità per altri. Ma il principio di tolleranza, per non risolversi nel cinismo, richiede di fissare i limiti dell’intollerabile: per es, il revisionismo è accettabile ma non il negazionismo, come vorrebbe ad es. N. Chomsky.

Nonostante o forse a causa di questa proposta di tolleranza “circoscrivibile”, Eco è stato accusato di relativismo dalle gerarchie cattoliche italiane. Questo lo ha condotto ad affermare non già una relatività del vero, ma una verità del relativo. A distinguere quindi tra lo spirito universalista che conduce ai terrori delle guerre di religione e quello cosmopolitico, che accetta l’onere delle differenze, della loro polifonica molteplicità. Di cultura cattolica, Eco è stato sempre interessato al mondo delle Religioni istituzionalizzate – alla letteratura fantastica delle loro teologie – e alla Religiosità individuale. Agnostico – ha voluto funerali laici – corrispondeva con un cardinale e intendeva studiare il linguaggio contemporaneo del papato. Distinguerebbe, ci sembra, una religione dell’aut-aut, dell’intransigente “per contro” da una del vel-vel, del vicendevole ’”oppure”. Una distinzione che a suo avviso non è un apporto occidentale alla mondializzazione, ma che si troverebbe virtualmente implicata nelle singole credenze.

La rappresentazione di ogni cultura come multiforme nelle sue manifestazioni e nei suoi contenuti dovrebbe, per Eco, ovviare a quella intraducibilità che zittisce il dialogo tra le fedi. E fonderebbe il principio semiotico di Traducibilità tra ogni lingua, sistema di segni e appartenenze territoriali, locali e nazionali. Per l’autore di Dire quasi la stessa cosa (1990), tradurre è restaurare o (re-)inventare le lingue di partenza e quelle di arrivo. Dalla grammatica fino ai discorsi, Tradurre non è la resa d’un equivalente semantico, ma l’emergenza di un trasporto di senso, un tradimento felice. Scoprire attraverso le cultura degli altri, l’impensato della propria è il maggior apporto della tolleranza e la precondizione d’un assetto collettivo, civile senza essere uniforme. La formula, coniata da Eco, è che la lingua d’Europa non sarà l’inglese, ma la traduzione!

Un intellettuale politicamente ottimista

La posizione di Eco verso la politica è quella di un militante riluttante. Anche nei tempi in cui praticava sulla stampa quotidiana e settimanale la “guerriglia semiotica” – critica del potere comunicativo dei media cattolici di stato – o denunciava l’anticultura di leader come Berlusconi, Eco non aveva nulla dell’estremista e del polemista. In primo luogo perché il ruolo dell’intellettuale è molto diverso in Italia rispetto alla Francia dove si chiede allo scrittore affermato il compito oracolare di pronunciarsi sull’attualità culturale e politica. Eco riteneva che l’intellettuale sia un honnete homme, guardiano e filtro dell’enciclopedia dei saperi e dei valori. Inutile quindi chiedergli di cambiar il mondo e soprattutto di annunciare la fine dei tempi. La scrittura, secondo lui, cambia il futuro, non il presente; il futuro è la seconda patria di chi scrive e pensa, anche quando, come accade ora, il progresso si converte in regresso alterando il rapporto al tempo. Il grande semiologo non era, per sua definizione, Integrato ai valori costituiti, ma neppure un Apocalittico. Non credeva alle rivoluzioni, neppure a quelle letterarie, nonostante l’adesione iniziale alle avanguardie artistiche militanti, alle “concatenazioni collettive di enunciazione” del Gruppo 63. Leggeva l’Apocalisse non come catastrofe, ma come una rivelazione; offriva l’opportunità o il destino d’interrogarsi da moralista, sul significato della destabilizzazione permanente dei linguaggi e degli eventi. Lamentava il ritorno revisionista, A passo di Gambero (2006) di modalità socio-culturali che riteneva superate, ma rimpiangeva la guerra fredda che impediva, con l’equilibrio atomico del terrore, il moltiplicarsi delle sanguinose guerre calde. Mentre il discrimine tra destra e sinistra gli sembrava sempre più tenue, nutriva nei suoi scritti occasionali, la fiducia semio-etica d’un “ottimismo dei piccoli passi”.

Paolo Fabbri

Gruppo MAGOG