29 Settembre 2018

“Il teatro ha perso la sua bellezza, ma a noi basta una carezza per andare avanti”: dialogo con Maurizio Argan, un lottatore contro i mulini a vento

Dialogare attorno al teatro assieme a Maurizio Argan, che nella scena ci è conficcato con mani, gambe e mente, è, per chi scrive, “deontologicamentescorretto: siamo amici da quasi 20 anni, con lui ho un “figlio artistico” – il festival “Le voci dell’anima”, in scena dal 29 settembre al Teatro degli Atti di Rimini –, siamo, teatralmente, una “coppia di fatto” e su di lui, anche su di lui, ho costruito la mia tesi di laurea. La tentazione di un’autointervista camuffata da intervista (so abbastanza bene come la pensa e cosa pensa) è forte, ma ancora più mancata è la curiosità di “raccogliere” i suoi pensieri attraverso le sue parole. E poi dovrei giustificare l’immagine che correda l’intervista: obiettivamente siamo abbastanza diversi. Non come pensieri, ovviamente.

Il “cappello” – insomma, due cose due su cosa ha fatto sul palco per inquadrarlo – è a quattro punte: definito da Paolo Puppa, fisicamente, “un lottatore di sumo” – “Dovevamo scegliere (e siamo stati scelti)”, passato anche al Festival di Santarcangelo, è ispirato a un testo dello stesso Puppa che il regista Fabio Biondi ha poi ricamato attorno alla figura di Argan –, protagonista del videoclip “Il Terzo Mondo” del gruppo rock Punkreas, ha anche recitato in tre spettacoli di Pippo Delbono: “Enrico V”, “La rabbia” e “Il silenzio”. Maurizio, lottatore contro i mulini a vento del nuovo secolo, ha pale grosse che macina, fa girare. Ha tirato su una rassegna di teatro che si muove “in direzione ostinata e contraria”, che predilige l’anima al vestito, che raccoglie le voci più sincere che il sistema non si degna di ascoltare, preferendo mode, urla urlate e nomi “raccomandati”.

Quanto segue quindi (didascalia esplicita) è estremamente serio.

Sedici edizioni di festival, nonostante tutto.

“Circa 1.000 compagnie hanno fatto richiesta di partecipazione e oltre 10.000 spettatori hanno potuto seguire gli spettacoli degli artisti finalisti. Con questi dati alla mano il festival conferma il suo ruolo di osservatorio teatrale e di terreno di confronto tra realtà geograficamente distanti, accomunate dall’interesse per la ricerca di forme espressive che oltrepassino il limite intrinseco delle mode e dei dettami correnti. ‘Vd’A’ si è dimostrato sempre più un’occasione di dialogo, un’opportunità dialettica dalla quale non solo sono scaturite occasioni di reciproco studio interattivo, ma si sono rinsaldati quegli essenziali e prolifici rapporti tesi a dar vita a un circuito di idee e di esperienze teatrali le più disparate. Se infatti a tutt’oggi il limite e l’ostacolo più insormontabile per le produzioni teatrali risiede nella mancanza di opportunità di circuitazione, limite questo che pregiudica non poco l’essenza stessa del fare teatro, ‘Vd’A’ è riuscito, attraverso la sua stessa struttura itinerante organizzata in tappe geograficamente dislocate e grazie alla sempre più numerosa partecipazione di teatri e associazioni culturali, a fornire una risposta valida a questo problema culturale, permettendo la compresenza su territori diversi di un certo numero di produzioni provenienti dalle diverse regioni d’Italia, e garantendo al tempo stesso anche la compresenza di una ampia pluralità di linguaggi e una vasta gamma di offerta drammaturgica”.

Il titolo di quest’anno è, a modo suo, una sorta di polemica, o di provocazione: “Asini d’amore”.

“Il titolo è venuto dopo aver letto un testo di Ilaria Drago. Lo stupore sempre nuovo, quasi inaspettato ogni volta, di sentirsi in una rete di anime belle, tenaci, vitali ci fa sorridere, ci fa alzare la testa, cantare e gridare. A noi serve fare arte, seguire la traccia profumata della sua bellezza che ogni sera sotto le luci dei riflettori, le luci di una ribalta fatta di occhi attenti e belli, si traduce in parole, gesti, suoni. Agli asini piace la compagnia sincera di chi dà carezze e non gli insulti dell’indifferenza, non la pacca sulla spalla ipocrita e le briciole avanzate dai banchetti dei bulimici che si appropriano indebitamente dei ‘posti giusti’. Credo che l’arte debba parlare, anzi, ragliare la sua meravigliosa protesta del cuore. Dalle nostre idee non ci muoviamo, ma aspettiamo le carezze del nostro padrone: il pubblico”.

voci animaSedici edizioni di festival. In maniera “autonoma”, senza sponsorizzazioni politiche…

“È stata una scelta e oggi, se devo pensare alle prossime edizioni, la vedo difficile: partire, mettere in scena una rassegna quando ancora aspetti i rimborsi della scorsa edizione significa doversi scontrare con alcune dinamiche economiche che non agevolano il lavoro. Programmare senza contributi regionali è un salto nel vuoto. Dobbiamo capire se continuare, se diventare una vetrina di proposte, se spostarci. Ci basta una carezza per andare avanti. Non mi va di entrare nella rete di scambio: io do a te una mia replica e tu ne dai una a me. Se tutti rifiutassero questa forma di baratto e si andasse ‘a incasso’, credo che le proposte sarebbero qualitativamente migliori di quelle che si vedono nei cartelloni. Le grosse colpe le hanno le amministrazioni, e parlo al plurale, che non capiscono una mazza”.

Rimini?

“Con l’apertura del teatro Galli, il futuro del teatro Novelli è incerto: lo vogliono buttare giù quando invece potrebbe diventare un centro di residenze artistiche. Il Novelli, per molti di noi, è una casa. Utilizzarlo come ‘centro di ricerca’ – ti ospito per una settimana e tu compagnia alla fine fai uno spettacolo su cui io amministrazione faccio pagare un eventuale biglietto di ingresso – potrebbe essere una soluzione interessante, tra l’altro già sperimentata, con successo, altrove. Rimini non rivolge attenzioni alle realtà locali – sono 20 anni che non nasce una compagnia teatrale professionale -, il Novelli quindi potrebbe davvero andare a colmare quella annosa lacuna degli spazi. Non è un fatto di ‘contributo’ ma di politica culturale”.

È passato qualche anno dai tuoi lavori con Pippo Delbono. Com’è cambiato il teatro negli ultimi quattro o cinque lustri?

“In peggio, senza dubbio. È peggiorato. Non c’è più entusiasmo. Una volta andavi lì e conoscevi le persone, oggi invece i festival sono pilotati dai critici. 20 anni fa a Santarcangelo dei Teatri ci si ritrovava in piazza e si parlava dei lavori visti. C’era, voglio dire, uno scambio di idee, di commenti. Oggi invece esci e sei da solo. È l’evoluzione dei tempi: oggi il teatro è la trasposizione della televisione. Prendiamo i reality, che sono una fotografia nitida del mondo dello spettacolo: soldi facili e poca gavetta. Il teatro ha perso la sua bellezza, ha smarrito quel gusto di sentirsi parte di una rete. Oggi non si fa più sistema, nonostante i social. Social che hanno creato una lobby. I critici non sono mai venuti a ‘Le voci dell’anima’. Non ne sento la mancanza. All’inizio forse sì, ma oggi questa assenza è diventata una bandiera: non pago nessuno per seguire il nostro progetto. Forse non vengono perché ospitiamo spettacoli puliti. Gli artisti che abbiamo scelto e che hanno portato i loro lavoro a ‘Le voci dell’anima’ hanno una carriera, i ‘pompati alti’, quelli spinti e supportati da chi conta, durano un anno o due e poi finiscono nel dimenticatoio”.

Il teatro è morto?

“Si sono perse la poesia, l’amore e le idee. Si fanno spettacoli per fare spettacoli e non perché c’è qualcosa da dire. Qualcosa che senti dentro, una storia, un’emozione. Il teatro oggi non è meno urgente ma chi lo fa vuole l’urgenza. Le stagioni teatrali sono uniformate, gli stessi lavori circuitano sempre negli stessi teatri. Il fatto vero, secondo me, è che il pubblico non si lascia più incantare dai titoli furbi. Le persone non sono sceme: una, due o tre volte le freghi, alla quarta non vengono più a teatro”.

Colpa di una cultura più raffinata e profonda?

“Parte della colpa di questa decadenza è dovuta al sistema dei laboratori teatrali: alimenta illusione, serve solo a far credere che tutti i partecipanti sono attori, che possono diventare attori. In questo modo i laboratori si allontanano dalla loro reale funzione per cui sono stati fatti, quella educativa”.

Alessandro Carli

Gruppo MAGOG