14 Ottobre 2018

La diaspora venezuelana viaggia su Facebook: tra foto di gattini e preparativi per un colpo di Stato guidato da Trump (o da Bolsonaro). Un reportage nelle trame del digitale

Io odio Facebook. Sono allergica a questo strumento narcisistico che serve a mettersi in mostra, a imbellirsi e quindi a bluffare – e per giunta serve pure a farsi sorvegliare e usare dalle forze oscure che tirano i fili delle reti sociali. Però lo uso, spesso. Salto a piedi giunti sui post di gatti e di torte di compleanno per cercare l’unica cosa che mi interessa e che scruto con curiosità morbosa, quasi sadomaso: le informazioni che circolano nella diaspora venezuelana, e il secondo grado di queste informazioni, cioè le opinioni e il comportamento della diaspora.

Leggiamo tutti i giorni notizie sui temibili hackers russi e cinesi che manipolano le reti delle sante e pulcre democrazie occidentali, su come Cambridge Analytica è intervenuta nel referendum sul Brexit e come ha aiutato Trump a vincere l’elezione, sui gruppi terroristici che da Al Qaida a ISIS non avrebbero tanto successo nei loro reclutamenti senza internet, ma ancora non ho visto una ricerca sul comportamento nel mondo virtuale della diaspora venezuelana, sempre più numerosa e attiva su Facebook. Circa 3 milioni sparpagliati nel mondo intero, cioè il 10% della popolazione, e suppongo che almeno 2 milioni e mezzo di loro usano regolarmente Facebook (sottraggo generosamente, a occhio e croce, i 500.000 emigranti che hanno lasciato il paese dal 2016, a un ritmo di 5000 al giorno, generalmente a piedi, i più fortunati in autobus o autostop, direzione Colombia, Brasile, Perú dopo una decina di giorni di marcia, se sono fortunati).

Facebook funge da finestra spalancata per respirare, grazie alle foto spensierate di gatti e torte di compleanno, un po’ d’aria fresca dopo aver letto le notizie nazionali che puzzano di corruzione, violenza, miseria, e menzogne del regime di Maduro. Ma anche un compleanno può diventare un modo di usare Facebook con altri scopi oltre a fare gli auguri: uno dei miei contatti manda sempre gli auguri dicendo “ti auguro di festeggiare il tuo prossimo compleanno in una Venezuela libera !”… un po’ come le preghiere degli ebrei che invocano il ritorno nella terra promessa.

Facebook funge da divano psicoanalitico: serve ad esprimere, con profonda tristezza, la nostalgia delle spiagge tropicali (le più belle del mondo, ovviamente! vedi foto di sabbia-bianca-acqua-turchese-palme-bikini), della musica (inimitabile! sia il talento del direttore d’orchestra Gustavo Dudamel che il merengue indiavolato, ascolta audio corrispondente), o della cucina (insuperabile! specialmente quella della mamma, prendi nota della ricetta), la mancanza degli amici che ancora non sono riusciti a emigrare, il senso di colpa per aver lasciato indietro i parenti piú anziani, troppo vecchi o ammalati per affrontare il viaggio o per ottenere un visto. I “muri” di Facebook sono muri del pianto. Convincono e si autoconvincono che prima di Chávez, c’era il regno della felicità. Emigrare è una decisione dolorosa, dicono i post, e la speranza di tornare si indebolisce ogni giorno ma ancora non si è spenta.

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venezuela
Mancano i medicinali, i supermercati sono sbarrati, i soldi sono pochissimi: dal Venezuela si fugge

Facebook funge anche da tam-tam per risolvere le ricerche disperate di medicinali (nelle farmacie manca l’80% delle medicine che dovrebbero avere, e negli ospedali la situazione è simile a quella di una zona in guerra). Ormai si contano a decine, nel mondo intero, le associazioni di medici venezuelani emigrati che ricevono per posta ricette firmate dai loro colleghi rimasti in Venezuela, le trasformano in ricette del paese dove ora esercitano la loro professione, e le trasmettono a una farmacia della zona dove un parente compra il medicinale e lo spedisce via DHL in Venezuela. A volte questo tam-tam non è abbastanza veloce, come è successo pochi mesi fa a un mio cognato, morto nel giro di pochi giorni di un’infezione renale curabile con un semplice antibiotico.

Ma sopratutto, per la diaspora venezuelana, Facebook è un luogo di discussione, anzi un comizio politico, affollato di opinioni, articoli, libri, studi, dichiarazioni, barzellette e insulti contro Maduro e affini, tutti con un denominatore comune: il paese è distrutto, l’opposizione ormai non è piu’ moribonda ma completamente defunta, il regime è sempre più dittatoriale, come facciamo per liberarcene al più presto.

Fino a due o tre anni fa, Facebook era un modo di pianificare il futuro post-Maduro progettando tutte le fasi di una lunga transizione e ricostruzione economica, politica, sociale. Oggi si parla sempre meno del futuro di lunga scadenza, impossibile da decifrare, e sempre di più dell’urgenza immediata di domani: sbarazziamoci subito di questa banda di delinquenti cleptocrati, e poi pensiamo a cosa viene dopo. La disperazione accelera i tempi, e Facebook, che è il regno della superficialità, semplifica, trova scorciatoie, riduce a bozze scarabocchiate anche le situazioni più complesse.

Più la situazione del Venezuela precipita in un abisso di cui non si vede mai il fondo, più Facebook diventa un covo di cospirazione sovversiva. L’ultima cospirazione virtuale è nata l’anno scorso, e si è sviluppata in due onde, prima una breve e limitata alla rete della diaspora venezuelana, poi un’onda piu’ grande che durante il mese scorso ha traboccato fuori dal recipiente venezuelano e si è infiltrata in reti straniere. Si tratta dell’idea di un intervento militare degli Stati Uniti per eliminare con un colpo di stato Maduro e il suo regime.

Dopo le violente manifestazioni di aprile-giugno 2017, e dopo l’ennesima elezione sfacciatamente manipolata dal governo in maggio di quest’anno, l’idea è partita su Facebook dai ranghi degli emigrati e rifugiati piu’ radicali, ma è stata subito messa a tacere da alcuni pezzi grossi dell’opposizione in esilio, preoccupati di preservare la loro reputazione di democratici fiduciosi nelle elezioni e mai violenti. C’è stato un susseguirsi di post scandalizzati in cui i “lider” ricordavano che la democrazia venezuelana, nata nel 1958 sulle rovine della dittatura militare di Pérez Jiménez, è stata un faro di luce nella buia notte delle dittature peruviane, brasiliane, argentine, uruguaie, cilene, degli anni 60 a 80. Intellettuali, giornalisti, accademici della diaspora hanno usato Facebook per tirare fuori dagli archivi storici esempi di posizioni anti-militari della politica estera della democrazia venezuelana: durante la guerra delle Falklands (Malvine) del 1982 tra Argentina e Gran Bretagna, e soprattutto contro gli interventi militari USA a Cuba (1961), Granada (1983), Panama (1989) destinati a rovesciare governi troppo di sinistra per il gusto di Washington e che si identificavano con lo scenario della guerra fredda.

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Il 4 agosto scorso, due droni modello Ikea-costruiscilo-a-casa-tua, carichi di esplosivo, hanno seminato il panico sulla tribuna dove Maduro stava pronunciando un discorso, circondato da vari pezzi da quaranta del suo governo e dai suoi bodyguards cubani. Né Facebook, né nessun’altra fonte, hanno chiarito chi ha lanciato questi droni artigianali, il cui risultato principale è stato di ripristinare la discussione sull’idea di un intervento armato esterno come unica via di uscita, creando la seconda ondata di polemiche. Sono bastati alcuni ambigui tweets e dichiarazioni di Trump, della sua ambasciatrice all’ONU e di esponenti del Congresso degli Stati Uniti, oltre alle parole del Segretario dell’Organizzazione degli Stati Americani (“non scartiamo nessuno scenario”), per riaccendere, su Facebook, sia la speranza della diaspora più conservatrice in un appoggio militare alla disarmata e caotica opposizione, sia le urla della diaspora moderata contro qualsiasi progetto di soluzione violenta.

Il 17 settembre scorso, 11 dei 14 stati membri del Gruppo di Lima (meccanismo informale dei paesi americani creato in agosto 2017 per trovare soluzioni alla crisi venezuelana) hanno chiaramente scartato e condannato qualsiasi progetto di colpo di stato o intervento militare, ma con ciò hanno agitato di più le acque di Facebook invece di calmarle. Infatti ora si moltiplicano i commenti esasperati tipo “va bene, i governi della regione dicono nisba a un intervento militare, ma allora che si fa ? le elezioni sono sempre una farsa, le manifestazioni servono solo a far morire studenti e a moltiplicare i prigionieri politici, i negoziati governo-opposizione sono falliti uno dopo l’altro, e intanto la gente muore di fame, di malaria, di tuberculosi, di parto, di morbillo…”. Su Facebook aumentano anche i commenti pro-Trump da parte di venezuelani che credevo democratici fino alla morte, al di sopra di ogni sospetto: “lui solo ci può salvare! sta facendo molto per noi, aiutiamolo e appoggiamolo, troverà il modo di intervenire e di far precipitare il governo di Maduro, teniamoci pronti perché a Washington stanno preparando l’operazione”. Rabbrividisco. Non sono sicura che dopo Maduro ci possa solo essere un regime democratico. Ci potrebbe perfettamente essere una bella giunta militare di sinistra, ovviamente manovrata da Cuba, con ufficiali pieni di medaglie stile albero di Natale con sfondo di bandiera rossa. Di militari di destra non se ne parla proprio: sono tutti in galera o in esilio. Ma è difficile saperlo con certezza perché i militari non usano Facebook, o almeno non in forma visibile e non nelle reti che conosco. E ad ogni modo, le medaglie natalizie, per me, sarebbero uguali.

Ed è così che giorni fa, malgrado la mia rete Facebook di contatti sia limitata e selettiva, ho trovato le ripercussioni di questa seconda onda di discussione pro e contro un intervento USA su un gruppo internazionale formato da utenti variopinti, la maggior parte estranei e ignari del Venezuela. Qui la discussione girava intorno a Trump e alla sua politica aggressiva. Nel vortice di post contro Trump, i riferimenti al Venezuela erano distanti, casuali e indiretti: se a Trump venisse in mente di intervenire militarmente, sarebbe un’ulteriore dimostrazione della sua pericolosità e un ritorno alla guerra fredda, quando i marines “aggiustavano” i risultati a loro scomodi di elezioni latinoamericane. Alcuni hanno osato ribattere: “ma i venezuelani muoiono di fame, emigrano in massa, solo un intervento armato puo’ salvarli!”. E giù una pioggia di commenti del tipo: “la crisi umanitaria, la mancanza di medicinali e di cibo, sono tutte fake news, è un’invenzione della destra appoggiata dal partito repubblicano e dall’amministrazione Trump per rovesciare un regime democraticamente eletto!”, “l’inflazione, il mercato nero, la caduta della produzione petrolifera, agricola, industriale, è tutta roba provocata dalla guerra economica scatenata dagli USA contro il chavismo-madurismo che attacca i suoi interessi!”, “bisogna rispettare l’autodeterminazione di un popolo che ha votato molte volte a favore di Chávez e di Maduro e che ha avuto il coraggio di dire basta alla dominazione capitalista”, e via dicendo…

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Venezuela
“La vittoria di Jair Bolsonaro in Brasile ha aggiunto un nuovo strato di confusione nei post della diaspora. C’è chi grida ‘Alleluja, se Trump non interviene, Bolsonaro lo farà di sicuro perché è profondamente anti-chavista’”

La vittoria di Jair Bolsonaro in Brasile ha aggiunto un nuovo strato di confusione nei post della diaspora. C’è chi grida “Alleluja, se Trump non interviene, Bolsonaro lo farà di sicuro perché è profondamente anti-chavista”, e c’è chi risponde “Bolsonaro è una vergogna per tutta la regione, è un fascista impresentabile”. Il colmo della confusione è il post che mostra un’intervista del 1999 nella quale il Bolsonaro che oggi accusano di “fascista” diceva che Chávez “è uma esperança para a América Latina”. Forse è la stessa confusione che descrive Vasilij Grossman in Vita e destino: la confusione che cancella le differenze tra i regimi basati sulla forza, tra i nazisti e i sovietici che si scontrano a Stalingrado ma che in fondo sono uguali.

Io sono molto timida su Facebook. Non solo non oso pubblicare foto di gatti (tanto non ne ho) nè di torte di compleanni (da tempo non li festeggio più). Come ho detto prima, osservo con curiosità ma in silenzio (forse con un pizzico di arroganza ?), e molto raramente mi faccio “vedere”. Ho rabbrividito e reagito con rabbia e indignazione ai commenti pro-Trump di cui sopra. E con la stessa rabbia e indignazione, di fronte a corbellerie per me inaccettabili perché provenienti da chi non ha mai messo piede in Venezuela, frutto di un’ignoranza grassa, viscida e appiccicosa, di quelle che accecano chi ce l’ha e danno nausea a chi non ce l’ha, non ho saputo stare zitta di fronte ai commenti pro-Maduro. Ho preso il microfono dei post e ho lanciato alcune delle statistiche internazionali piu’ affidabili su povertà, fame, inflazione, repressione, censura, tragedia economica, emigrazione –senza dimenticare di chiarire che non ci sono elezioni libere e pulite dal 2004, e che Cuba è, da 20 anni, la potenza dominante in Venezuela, seguita, in quest’ordine, da Cina, Russia e Iran.

Mia suocera (88 anni) soffre di ipertensione e altri problemucci tipici della sua età. È scappata da Caracas, stufa dell’insicurezza e dei supermercati vuoti, per andare ad abitare in campagna dove possiede un orticello che ora coltiva, insieme a una figlia ammalata e due cugini, e le assicura ortaggi e frutta per poter mangiare tutti i giorni. Ma il medicinale per l’ipertensione che non si trova in nessuna farmacia del Venezuela non cresce nell’orto: le arriva con il pacco di sapone, dentifricio, cibo in scatola, che le manda ogni tre mesi, via DHL, il resto della sua famiglia sparsa tra Canadà, Colombia, Perú e Stati Uniti. La sua pensione è l’equivalente di 10 euro al mese (quando la riceve), così come quella di sua figlia, che è stata dimezzata da Chávez perchè osó firmare contro di lui nel referendum del 2004.

Chiedo ai miei “amici” di Facebook che non hanno mai messo piede in Venezuela e difendono Maduro&C.: se spiego a mia suocera che l’autodeterminazione del popolo venezuelano è una lotta rivoluzionaria, un esempio di resistenza contro le forze capitaliste, credete che mi capirà senza che le salga troppo la tensione? E se spiego a quelli della diaspora pronti a cadere nella tentazione di appoggiare un’invasione militare che la soluzione intervenzionista equivale a sostituire una dittatura con un’altra, credete che capiranno ?

Sul thread della discussione anti-Trump e pro-Maduro leggo la risposta di un venezuelano che non vuole emigrare per non lasciare soli i suoi anziani genitori: “Tu che lanci slogan contro l’imperialismo, hai mangiato oggi? Io no”.

Manuela Tortora

* Manuela Tortora, venezuelana, ex-funzionaria di carriera dei governi democratici tra il 1980 e il 1994, ha scritto per Pangea un ampio reportage sul Venezuela, pubblicato qui.

 

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