10 Maggio 2024

“Al di là dell’azzurro”. Rabdomanzia in un romanzo incantesimo: “Le parole la notte”

Rileggere: compito catacombale, rabdomanzia d’ombre.

Un tempo mi prefiggevo un ambone con non più di cinquanta libri. Navigare leggeri.

Assecondavo il vagabondaggio ascoltando Tournée 2 di Paolo Conte; non c’erano i cellulari, non c’era, cioè, l’obbligo di rispondere, di corrispondere, di dire dov’eri.

Nel 1998 Einaudi pubblica l’ultimo romanzo di Francesco Biamonti, Le parole la notte. Il titolo va sussurrato, così, senza segni di interruzione: notte che crepita di parole; il romanzo come rivelazione notturna, tardiva, senza alcun fuoco ad ingioiellare la via al lettore.

In quattro libri pubblicati in quindici anni si staglia l’esistenza letteraria di Biamonti. L’ultimo ottenne cospicui riscontri, compresa una finalissima al Campiello, che andò a Il talento di Cesare De Marchi. L’autore, Biamonti, compiva settant’anni; non soltanto per un fatto anagrafico i suoi libri parevano fuori tempo, disancorati dalla temperie della letteratura italiana dell’epoca. Qualcosa che ha a che fare con il sogno e con il sale annuncia i libri di Biamonti.

Non è neppure anacronistico, tanto meno inattuale (parole sature di quarzo, vuote). Proprio come confessioni notturne, con verbi dal margine di brina, i libri di Biamonti sono al contempo perentori ed evanescenti, casti e lascivi. Leggi quelle pietrificate frasi; ti volti, e non ci sono più, avvolte in vesti di nebbia.

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Francesco Biamonti veniva da San Biagio della Cima, nei recessi liguri, refettorio petroso del mare, al confine con la Francia. Pare che si sia imbarcato, ragazzo; per un po’ ha lavorato alla biblioteca di Ventimiglia; il caos s’intuiva dagli abbagliati occhi azzurri, dai pervicaci silenzi.

Della vita, lo scrittore esige i vuoti, le promesse al soldo di mercenarie reticenze, il condizionale senza condizioni.

Chi è stato in quei luoghi, all’estremità ligure, dove la pietra cova il cielo e il cuore staziona nel sale, sa la biliosa malinconia degli indigeni, catecumeni di una tristezza tenera e iena, che ha finiture saracene. Mi ci perdevo da ragazzo, sperando di seppellire tutti i nomi, di coglierne gli arbusti. Luoghi dall’odore acre e dolce, ariosteschi nel forse: Sasso, Latte, Vallebona, Roccabruna, Villafranca. Mio nonno è cresciuto a Mentone, mio padre è morto a Bordighera.

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Tenue, latteo bisbiglio, la trama de Le parole la notte. Un uomo, Leonardo, è stato ferito; rigurgiti di ricordi nei paesi dimenticati delle valli liguri, dietro Ventimiglia; clandestini che passano il confine e uomini disseppelliti dal passato. Il faro della storia, Veronique: donna che a tutti si dà e a tutti si cela; che, pari alla Veronica degli apocrifi, stampa sul velo del suo corpo il volto di chi la ama. Di lei, va adorato il disastro e la dispersione, la disarmata fuga.

Il romanzo va per lumi d’allusione, allucinate smemoratezze.

Le parole la notte è un romanzo anomalo, al di là dell’odierna canea verbale, da pulcini che mimano le iene; è un romanzo d’ambrati spettri più che di trame, di figure prima che di ‘personaggi’, di spazi più che di stanze. Un esempio:

“Gli ulivi, che il cielo stellava, sembravano ancora immersi nella notte della loro origine. ‘Notte santa! Da quanti secoli viaggiate?’. Colse il passo di un cinghiale. ‘Se ci sei tu, col tuo udito fine, col tuo fiuto che avverte la mano se il laccio non è stato strofinato col rosmarino, non c’è nessuno. Si può andare tranquilli’. Era ormai sotto stelle posate sui rami, sepolto dalle fronde. ‘Vedi come si vive! – disse a un tronco. È mai possibile continuare? Beato il tuo sonno, padre del sogno’”.

Forse Biamonti è il vero scrittore-pittore della nostra letteratura. Le sue parole, intrise d’ocra, di lapislazzulo e salgemma, hanno un colore, hanno le setole. Biamonti ha detto di amare Paul Valéry, Julien Gracq e René Char, Jean Giono e Albert Camus, ma credo che in fondo abbia poco dei francesi, al contempo astratti e terrestri. Amava Cézanne, ha scritto di Ennio Morlotti; ne Le parole la notte appare Giotto, il Compianto sul Cristo morto:

“Quale abbandono. E vi sono delle resurrezioni in cui a risorgere sono le nuvole. Apoteosi naturale, trasferimento del sacro… Persino l’azzurro ha qualcosa che va al di là dell’azzurro e gli angeli sembrano cantare. Non c’è tristezza”.  

Credo che con Le parole la notte – libro ligneo e di nubi, definitivo, cioè di morte e di resurrezione – Biamonti abbia scritto la sua Pietà. È un libro che ha il vigore dei pittori del Duecento, a un passo dall’anonimato; un libro che chiama la notte azzurro.

Per scrivere, bisogna parlare agli alberi, riconoscere nella volpe il forziere della foresta.

Scrivere, intendo, per animare le pietre: che mettano le gambe, ragazzine.

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Un romanzo è un rito. Più spesso, è un rito che evoca i morti. Il lignaggio del paesaggio, la statura arborea – gli ulivi in Biamonti; le betulle in Pasternak – è la materia sacerdotale del rito.

Il dottor Živago è affollato di betulle non tanto per evidenza ‘realistica’: anche Lara, all’inizio del libro, è descritta come “un boschetto di betulle”. La betulla è l’‘asse del mondo’ attorno a cui lo sciamano compie i propri riti, è la scala mistica che lo porta a diversi gradi di ascesi: “Lo sciamano designa il luogo più adatto alla cerimonia in un boschetto di betulle… nel mezzo della iurta viene piantata una giovane betulla, ricca spesso di fogliame… sul tronco della betulla vengono incise nove tacche profonde con una scure, tanto profonde che ci si possa poggiare il piede” (in: Testi dello Sciamanesimo siberiano e centro-asiatico, Utet, a cura di Ugo Marazzi).

Con il legno di betulla gli sciamani dell’Altai costruivano il tamburo, necessario a intonare la danza che conduceva all’estasi. Sul retro del tamburo era disegnata la mappa degli altri mondi, la figura stilizzata degli spiriti aiutanti. Il tamburo si chiamava “tigre screziata dai sei occhi”.

Il dottor Živago, romanzo-incantesimo che libera dalla prigionia dell’epoca. Lo sciamano si tramutava in uccello, in anfibio, in serpente e in volpe; allo stesso modo, il poeta diventa pietra, nuvola, fiume; mano che accarezza e che stringe. Se entriamo nel suo canto, ne siamo coinvolti.

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Il romanzo di Biamonti trattiene le cose prima che spariscano: conferisce alla cenere discendenza d’argento, il favore del marmo.

L’opera è stesa tra i botri e gli abissi celesti:

“Si vedevano stelle doppie, nebulose allo zenit, sopra le rupi, e l’ammasso della Vergine con punte che andavano sul mare. Certi gruppi sembravano nuvole annose”.

Il mare è lontano, inattingibile, un dio dormiente, che scopre appena la schiena. Quando sboccerà, blu, le cose, artefatte nell’abbandono, troveranno la loro pace.

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Scrivere la notte vuol dire destinarsi ai sotterranei: i libri di Biamonti, pur ricapitolati dopo un tot, non si trovano con facilità; Le parole la notte è stato ristampato nel 2014. Con la ferma ferocia degli orgogliosi, Biamonti diceva di scrivere per annientarsi: “Mi piace non dire niente; io sono da cancellare; la mia vita non conta nulla; i miei natali non hanno importanza; il mio paese è insignificante”. Chi si vuole nascondere, scrive.

Mi ricorda la violenza di Caterina da Genova, nata nel seno dei nobili Fieschi, travolgente veggente del XV secolo. “In tutto muta, in Dio perduta”, si diceva. Percorreva l’annientamento di sé – “O annichilazione di volontà, tu sei regina del cielo e della terra” –, annegava in Dio.

“Io vedo chiaramente che la creatura in questo mondo è ingannata, perché vede e stima quella cosa che non è, e non vede né stima quella cosa che in verità è”.

Vedere: conferire alle dita entità di bocca, annaspare nella notte e miniare i suoi confini, perché ne risplenda il volto.

*In copertina: José de Ribera, Davide e Golia, 1620

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