Questo articolo ha sullo sfondo una fotografia. Di questa diremo dopo.
Preliminari. A William Burroughs interessava nulla della poesia. In sé, la poesia gli pareva in avaria, caramello per ottusi. A William Burroughs importava nulla della letteratura in sé – voleva distrarla, destituirla dal soporifero potere di annichilire i cervelli. Preda del mercato, la letteratura è ormai didattica: intrattiene, addomestica. Letteratura: cagnolino domestico, bestia da salotto, da sofà.
William Burroughs vuole limare la parola fino al cristallino, frantumarne l’iride. Non lo fa, però, nel verso della ‘purezza’ – Ungaretti/Celan/Char, per dire – ma dell’esasperazione. Il suo gioco di alchimia verbale – shakerare il verbo – provoca spuma: di quella suggete, belve. (Sul punto – annientamento della parola – si legga il saggio biografico di Alessandro Gnocchi, Burroughs. Il virus della parola, Polidoro, 2024).
Dunque, la poesia come laboratorio sperimentale spiccio, d’immediata efficacia. Poesia: seminagione di una poetica. Meno deleteria – e idolatrata – del romanzo, la poesia si presta a spazio d’eversione: parole piazzate come mine anti-intellettuale.
Secondo Oliver Harris – studioso che ha investigato le conseguenze ultime della verbosità di WB – Burroughs Is a Poet Too, Really (su: “The Edinburgh Review” 114, 2005). Il punto di partenza della sua riflessione è Minutes to Go, esperimento librario del 1960, firmato da Burroughs, Brion Gysin, Sinclair Beiles e Gregory Corso, stampato da Two Cities Editions in mille copie. È una specie di manifesto del ‘cut-up’, giustapposizione di testi diversi, di diversa firma, perché ne scaturisca un terzo, ricco di insolenze e di enigmi. “La critica che si è occupata di Burroughs ha adottato un approccio sorprendentemente convenzionale nei riguardi di un progetto concepito come una radicale opposizione alle convenzioni letterarie”. Già.
Dopo Minutes to Go, Burroughs si mette a scrivere la “Nova Trilogy”. Nel 1978, insieme a Brion Gysin, WB pubblica The Third Mind, libro ‘combinatorio’, scombinato, composto secondo la tecnica del ‘cut-up’.
Come si sa, i lari iniziali di Burroughs sono Tristan Tzara, Benjamin Perét, Marcel Duchamp. Il duca, arciprete avanguardista, resta sempre Ezra Pound, eroico pioniere nell’arte della composizione per giustapposizioni, geniale nell’alternare la lirica al documento ritrovato, desunto dai millenni.
Ma c’è una fotografia, si diceva. La fotografia è stata scattata e firmata da Allen Ginsberg nel 1953 e reca una didascalia, questa: “Bill Burroughs amused by the latest volume of St. John Perse, Vents. 206 East 7th Street N.Y.”. Lo sguardo di Burroughs, mentre legge, ha posa smaliziata, sessuomane, con dito piantato sulle labbra; in una fotografia analoga, dello stesso ciclo (pubblicata come copertina di questo articolo), Burroughs sorride a Ginsberg, felice di aver scoperto qualcosa, il codice di una poetica.
Vents è il quarto libro di Saint-John Perse: pubblicato da Gallimard nel 1946, è stato scritto durante l’esilio statunitense del poeta, esito di lunghe peregrinazioni tra le gole del Colorado e i deserti dell’Arizona, a studiarne le rocce, la fauna. Il libro è compiuto a “Seven Hundred Acre Island”, nel Maine. La traduzione inglese di Vents esce, effettivamente, nel 1953, a cura di Hugh Chisholm nella Bollingen Series. A quell’epoca, il poeta francese esaspera la propria esigente solitudine: osserva le migrazioni degli uccelli sul delta del Mississippi, abita la soglia di una foresta canadese, alterna l’ascesa alla navigazione. Per intenderci, ecco un passo di Venti, nella traduzione di Romeo Lucchese:
“O voi che l’uragano rinfresca… Freschezza e pegno di freschezza…” Il Narratore sale sui bastioni. E il Vento con lui. Come uno Shaman nei suoi braccialetti di ferro:
Vestito per l’aspersione del sangue nuovo – la veste greve blu-notte, nastri di seta nero-cremisi, e il manto dalle lunghe pieghe portato in punta di dita. Ha mangiato il riso dei morti; dei loro sudari di cotone si è perso diritto d’uso. Ma la sua parola è volta ai vivi; le sue mani alle vasche del futuro”.
Lo scrittore che sbriciola la parola, confidando il significato all’insensato, s’immerge nel poeta della parola onnipotente, rinnovata da tigrate finiture liriche. Pare insormontabile il divario tra WB e S-JP, dialogo tra trincee contrapposte. Uno stermina e gioca con le ceneri; l’altro trae segni da mondi vuoti d’umano. Eppure, più volte Burroughs scrive di Saint-John Perse, conficcato nella schiera dei suoi remoti, rari maestri. In un articolo pubblicato sulla “Transatlantic Review” (11, Winter 1962), On Censurship, WB dichiara di usare l’arte combinatoria mescendo Rimbaud a Saint-John Perse: “costruisco così due pagine che permettono un numero infinito di combinazioni e di immagini”. Meglio di qualsiasi oppiaceo. L’articolo di WB dice tante cose piene di buon senso sul mondo di allora, in cui siamo invischiati ora. Esempio:
“La censura è il presunto diritto delle agenzie governative di decidere quali parole e immagini il cittadino deve sorbire: questo si chiama controllo del pensiero, poiché il pensiero è costituito da parole e immagini… Ogni forma di censura presuppone il diritto di un governo di decidere cosa deve pensare la massa, dunque quali parole e immagini saranno fornite alle menti della massa. La scusa solitamente addotta per giustificare la censura è la necessità di proteggere i bambini, i deboli, gli impressionabili, gli instabili, gli stupidi e via dicendo. Eppure, queste creature così sensibili sono già sottoposte quotidianamente a una raffica di parole e di immagini, molte di queste deliberatamente studiate per suscitare desideri repressi”.
L’articolo termina con un formidabile esperimento di ‘cut-up’ in cui WB mesce Samuel Beckett, T.S. Eliot, William Golding, Norman Mailer, Hugh MacDiarmid et others.
Ma torniamo a noi. WB disorganizza il dire letterario attraverso due reiterati meccanismi. Il cut-up (cioè: ritagliare e rimontare le frasi di un testo unico, finito, lineare) e il fold-in (ergo: contrappore due testi, piegarli entrambi a metà, in verticale, e fonderli, di modo che la prima parte della frase di uno si temperi nell’ultima parte della frase dell’altro). Le combinazioni si verificano in orizzontale – sull’orizzonte del testo – e in verticale – nei suoi profondi lasciti.
A differenza dei mestieranti del ‘gioco’ letterario – per dire: Queneau, Perec, il granducato dell’OuLiPo, insomma –, però, WB si prefigge altro. Lo scopriamo leggendo una delle sue – rare – belle poesie, Fear and the Monkey, pubblicata su “Pearl” nel 1978 (di cui, sotto, si tenta traduzione). Tra le ‘fonti’, WB mette insieme Saint-John Perse, il Necronomicon, una tavola per le comunicazioni medianiche. L’arte combinatoria professata da WB è anche quella utilizzata dagli estremisti esegeti biblici – Avraham Abulafia, ad esempio: si consideri che le lettere ebraiche hanno anche valore numerico, dunque la Torah è testo cifrato, da dissigillare anche con matematica materia – per far ‘parlare’ il Testo. Occorre ‘stressare’ il Testo perché esso mugoli, vomiti, si riveli.
Rompere l’ordine logico del dire – amalgama del potere, che è sempre potere ‘di dire’, di imporre un ‘detto’, un ‘ordine’ – divinando il caso. Pare la pratica dell’I-Ching, dove si baratta il senso per l’oltre, l’oggi con il divenire, e la grammatica, fatta poltiglia, ha da coagularsi in fome nuove. Linguaggio-acqua: da scuotere, da scotennare. William Burroughs, dunque, in sciamaniche vesti – proprio come Saint-John Perse, uno che in direzione opposta ottiene lo stesso risultato: smembrare gli ossidati verbi, ormai inservibili.
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Paura con scimmia
Agosto 1978
Ho scritto questo testo a New York, nel mio loft, che è poi lo spazio, riconvertito, di una vecchia YMCA (Young Men’s Christian Association). Gli ospiti mi hanno segnalato la presenza di un ragazzo fantasma. Dunque, questa è una poesia scritta su una tavola Ouija, usata durante le sedute spiritiche, basata su un libro di poesie di Denton Welch e su incantesimi ed evocazioni varie, raccolte nel Necronomicon, un testo così altamente segreto che l’hanno pubblicato in edizione tascabile. Ci sono: un pizzico di Rimbaud, un tocco di Saint-John Perse, un obliquo riferimento a Toby Tyler, con la morte della sua scimmietta.
Turgido prurito e sentore di morte
nel sussurro del vento del sud
odore d’abisso e di nulla
Nero Angelo dei vagabondi grida nel solaio
il suo sonno puzza
sogno mattutino di scimmia perduta
nata nell’ovatta di antichi capricci
con foglie di rosa in barattoli sigillati
la paura e la scimmia
aspro sapore di verdi frutti all’alba
aria lattiginosa speziata dagli alisei
carne bianca messa in mostra
i suoi jeans troppo vecchi
ombra di gambe sul mare
luce mattutina
sul lucernario del piccolo negozio
sull’odore di vino scaduto nel quartiere dei marinai
sulla fontana che singhiozza nel chiostro della polizia
sulla statua di becera pietra
sul ragazzo che fischia ai cani selvaggi.
Vagabondi che si aggrappano a case in via di estinzione
il fischio di un treno perduto, ovattato e futile
nel soppalco il sapore dell’acqua
l’aria mattutina sulla lattea pelle
pruriginosa mano di fantasma
triste come la morte delle scimmie
tuo padre è una stella cadente
ossa cristalline nel nulla
cielo notturno
dispersione e vuoto.
*
Freddi marmi perduti
i miei pattini da ghiaccio sul muro
le lame limpide levano l’orizzonte lavanda
il putrido ragazzo ha una bella faccia
dita luride da motel
fischia nell’ombra
“Aspettami al bivio”.
fiume… neve… vaga imago nello specchio
tratta di venti in filigrana
bianche nubi come merletti che accerchiano gli alberi del pepe
il film è finito
la memoria morì quando le loro fotografie si sono consumate nei punti di acqua inquinata alla foce degli alberi, tra annebbiate ombre
di ragazzi all’alba, in campi di peonie, freddi perduti
marmi nella stanza garofano tre ampolle di
morfina, piccoli occhi blu-crepuscolo sogghignano tre le sue
gialle dita che sgambettano stelle erette ragazzi del sonno
dai congelati sogni perché sono ancora adolescente e trasmetto
carne e ossa tenute troppo a lungo sottratte dal sì, yes sir, oui oui
l’ultimo nastro di Krapp… lago… canoa… tornado rosa
vendemmia di ottoni su eco di schermi tropicali Panama
la notte in città recinta da dita morte che sono le tue nel tuo corpo
che vaga e forse la pelle del ragazzo si dilata
in qualcosa per il resto a Long Island i cani sono sereni.
1972
*
Le mie gambe Señor
attico, finestra, pattini da ghiaccio al muro
il Prete che vede i pannelli di pallido giallo del cesso
limpidi peli sulle gambe, giovani e neri
“sono le mie gambe, Señor”
lo splendore delle lame sull’orizzonte lavanda
sento il ragazzo gemere e so cosa vuol dire
ragazzino faccia lorda sul tavolo del dottore:
ero l’ombra della sera che cresce sugli strani vetri
ero la macchia e il lamento dei tempi perduti nel cielo riflesso
punti d’acqua inquinata sotto il vetro della sua finestra orizzontale
macchia tracciata da qualche ragazzo, freddo perduto marmo nella stanza
il logoro tavolo del dottore… la sua faccia…
la pelle del ragazzo che diventa tutt’altro.
“Cristo, cosa sta accadendo?”, urla
tornado rosa di carne e ossa
“Fa male!”
Ero la macchia e il lamento dei lucenti peli sulle gambe
carta argentata nel vento, sfrangiati suoni di città lontane.
1973
*
Morto Sibilo Ferma Sfinita Fine
Achab al compagno che cade altrove dall’alba
pelle fissa fissazione incredula lui si avvicina
beve e guarda nel gli attori diventano se stessi
musetto di Spagna e Quarantaduesima vecchi banner illustrati
ero in piedi alla cera prima morto fischio blocca
la cruciale luna rossa tempo terminale sfregiato la fine
scansionando schemi sulla faccia io sulla tua schiena, compare
le parole cadono all’alba diranno che tutto significa irradiare
questo morto fischio ferma il linguaggio prima del creato
cammina verso gli attori nella città “è l’ora”
mattino d’ossidiana odora e trema, necessita di masturbarsi nel pomeriggio
sputa sangue muore la carne arcobaleno si muove rapace
su vie ferrate odore di pesce e morti occhi annaffiano
metallici musi mutilati che corrono sulla mina di liquide macchine da scrivere
tremola il campo dove circola la carne il pesce rosso parla
si avvia maleodoranti pantaloni nel linguaggio che mormora
Spagna e Quarantaduesima corrono nella melma dove sei ora?
l’attore è morto parla dispersa all’alba lo hanno catturato allo zoo
il fischio di blocca scansiona indizi ragnatele alla deriva
la lenta ruota panoramica rotola su carne arcobaleno sopra la Bianca Metropolitana
William Burroughs