28 Settembre 2022

“Nella cupa ebbrezza del tempo”. Immersione in Cristina Campo

Quando si legge Cristina Campo, inconsapevolmente, il corpo ritrova la sua eleganza. Si ricompone nel codice della postura: la schiena diritta, armonica, le braccia educate, le gambe che a memoria simulano la forma di chi medita. Si è l’orante e colui che origlia: il cuore di Cristina – invitta Vittoria – è in un portagioie di legno, con sopra incisa la lince e la pantera, araldica che manda a Cristo.

Ogni scrittura è un invito al corpo – d’altronde, si prega in movimento –; il verbo agisce sulla punta delle dita, sbanda le ginocchia, morde l’orecchio sinistro. Se non fa presa sul corpo, la parola resta inefficace formula, anatema affittato da turbe di insetti, cute di sabbia, eloquente vento, vanità.

Di Cristina ancor più perché lei è un mezzo – si pone, propriamente, come una chiave. Non ci possono bastare i suoi saggi, claustrali – l’Eden è giardino ingordo, ma pur sempre quello impone, un limite, la cappa, il velo –: a crederla un fine si dichiara sfinita la bellezza. Cristina – il nome fittizio permette questa spregiudicata toponomastica delle informalità – ha le chiavi dei luoghi santi: non abbaglia, ma indica; non immobilizza, ma accompagna.

Per questo, l’opera dispersa in carteggi memorabili, fino all’allergia della sparizione; l’alterigia, un tale sonnambulismo editoriale. Il rischio è consono al tempo: fare della Campo un idolo da dibattito, scambiare chi conosce il luogo sacro per un sacrario. Ma la Campo manipola braci d’ombra per evocare la luce. Dunque, la latitanza, e annaspare tra le reliquie: ciò che nella Campo pare una posa è, in realtà, una posizione. Così, il legame epistolare – reperibile in rete, irreperibile presso un qualche editore – con Alejandra Pizarnik, quello, ormai scomparso (stampava Morcelliana), con Alessandro Spina. Tutto ciò che riguarda la Campo è trattato con supremo riserbo, ostilità – chi tocca il custode del tempio ne è avvelenato. Una continuità senza fratelli attraversa le scritture di Cristina:

“Oggi siamo entrati nella costellazione del Cane. Roma respira greve ed enorme, nella caligine ardente. Supremamente bella, a volte, nelle sue tremende basiliche vuote, nelle sue piazze di sangue coagulato che pare liquefarsi, fumando. Il tempo che cade in blocchi, un secolo sull’altro, audibilmente, tragico oltre ogni dire. La cupa ebbrezza di questo tempo, come braci che crollano. La notte, il solito odore di Basso Impero in putrefazione, ma anche profondi, puri momenti nei quali la città pare chiusa in uno smeraldo”.

 Così scrive, il 21 luglio del 1964, a Spina – o a qualsiasi altro, aristocrazia della forma per cui tutto è donato sul palmo di Dio – dal suo eremitaggio scritto. “Roma è una città che ignora tutto di se stessa. Immemorialmente indifferente, radicato in quartieri, insulare, il romano rifiuta di conoscere il nome della strada accanto alla propria. Se non la scorgesse di lontano, ignorerebbe che la sua città possiede una piramide”, scrive, Cristina, in un testo radioso, La trappa. Dove dice dei “Padri Trappisti delle Tre Fontane”, del “Trappista dal capo raso, non di rado barbuto” che “appare uomo tagliato con l’ascia, arcaico”, in contrasto al “prete in maglione e fuoriserie, patito di psicanalisi e televisione, il frate che suona la chitarra e «comprende tutto»”. Figurine della chiesa mondana e non mondata, ‘al passo coi tempi’, che passerò, come passa il tempo, appunto.

“Resterà il Trappista: terribilmente moderno attraverso i secoli, come ciò che è unicamente radicato nel cielo. Il Trappista che non comprende quel che non è da comprendere, che può vivere con pari indifferenza e misericordia ai bordi di un villaggio indio o di una metropoli. Il Trappista da cui vanno a confessarsi, a quanto si dice, i Principi della Chiesa, nelle ore di tenebra e contraddizione”.

Ma neanche la Campo antimoderna, conservatrice, alchemica custode della tradizione può accettare il bendaggio dei decani letterari, la scaffalatura in una qualche storia della letteratura, sartoria mefitica (perciò: morte). La Campo è la lefebvriana, la lottatrice, e quella che ha tradotto William Carlos Williams, che sistemava le bozze dei romanzi di Alessandro Spina – un genio ovviamente negletto in paese di infimi e faine – e tornava a giocare con i versi di T.E. Lawrence e di Emily Dickinson. Per cui la poesia è sigma, disastro, affioramento di luci, efficace mezzo. La serratura verso i luoghi santi di cui lei detiene le chiavi.

Solo a chi conosce la devozione è lecita l’avversione; solo chi sa inchinarsi comprende il gesto marziale: aurora della preghiera, alba bellica.

Perciò, l’autentico passepartout per entrare nei reami della Campo è questo quasi breviario, bellissimo fin nella composizione – nessun titolo a lordare la copertina – Cristina Campo in immagini e parole, composto da Domenico Brancale, un poeta, che ritorna dopo molti anni per Ripostes. Questo collage di testi ha l’etica del voto, le peripezie di un volto visto su un margine d’acqua, lembo che ustiona; un orcio a dissetare i nostri cupi leoni. Il cuore del volume è la traduzione di un florilegio di Pensieri e lettere dell’arte di Simone Weil, pubblicati in origine, nel 1959, su “La Posta letteraria” e “Letteratura”. La sintonia è tale – nota – che la Campo si insinua nella scrittura della Weil, si inscrive in essa. D’altronde, dice Cristina, la scrittura è sempre un formulario, cosa da aruspice e da sentina sul ciglio degli angeli, parola che si fa vita:

“Se qualche volta scrivo è perché certe cose non vogliono separarsi da me come io non voglio separarmi da loro. Nell’atto di scriverle esse penetrano in me per sempre – attraverso la penna e la mano – come per osmosi”.

La lettura va fatta nell’iridescenza della lentezza, ché divenga un per sempre. Un paio di scaglie di Weil / Campo mi sembrano viatico violento. Una è questa, di prassi politica:

“Fare dell’universo l’opera di Dio. Fare dell’universo un’opera d’arte. Oggetto della scienza greca. Quello della scienza classica: renderci padroni e dominatori della natura (assimilazione a Dio, ma ben diversa dalla precedente) per mezzo di un sapere che si trova in se stessi. Quello della scienza contemporanea: esprimere in linguaggio algebrico le regolarità della natura allo scopo di usarle. Sempre più in basso”.

L’altra pertiene a un’etica:

“Nel mondo, solo esseri caduti all’ultimo grado dell’umiliazione, molto al di sotto della mendicità, non solo privi di considerazione sociale ma giudicati da tutti come sprovvisti della prima dignità umana, la ragione, solo quelli hanno effettivamente la possibilità di dire la verità. Tutti gli altri mentono”.

Che concetto fiero, terribile, da cui non si può derogare.

Nella copertina, una fotografia rara della Campo, donata, “con l’augurio di ogni bene”, ad Anna Bonetti. In questa fotografia beneaugurale, fotografia-amuleto, Cristina ha il viso sprezzante, nobile spavalderia lo anima, audacia verticale; viso da Diana, da cacciatrice e non da supplice, con un neo cabbalistico in prossimità dell’occhio sinistro. Che di questa bellezza algida, dai virginali furori, si sia fatto idolo e vigna – con torme di intelletti intorno – è perfino ovvio. Del resto, le immagini di Cristina – spesso in prossimità di scale, specchi, giardini, segnacoli d’ombra – mostrano un viso che muta, che ne svela altrettanti. La scrittura invece – di cui il libro riporta lacerti – sembra quella di una perpetua bimba.

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