15 Febbraio 2024

La lotta per la vita. Boxe, ovvero: storie di pugni & di letteratura

Fu Norman Mailer a dire che dietro i grandi pesi massimi come Joe Louis sembrava nascondersi, nel loro silenzio, la solitudine dei secoli. Louis era nato in un misero tugurio nel più segregazionista degli stati del profondo Sud americano, l’Alabama; la sua famiglia subì anche aggressioni dal Ku Klux Klan e, fedele allo stereotipo poi sdoganato da tutte le saghe pugilistiche della cinematografia, Rocky in primis, il suo riscatto sociale ed umano avvenne attraverso i pugni. 

Perfetta ed esemplare storia americana, segnata dalla miseria e dal degrado, e altrettanto pesanti e dure furono le parabole di altri campioni indimenticabili, come Floyd Patterson che, due volte campione dei massimi (il primo a compiere tale impresa), non riuscì mai a scacciare da sé tutti i propri demoni e anche al vertice della gloria era solito talvolta travestirsi per non farsi riconoscere in pubblico sedere per ore piangendo, in preda a tutte le sue fragilità irrisolte, nei luoghi dove era vissuto da ragazzo. 

O Sonny Liston, “the big ugly bear”, che come pochi altri campioni del ring sembrava incarnare il senso di solitudine e disadattamento di chi si volge alla nobile arte e sulla cui morte rimasta misteriosa incombe ancora il sospetto di un omicidio da parte della mafia americana.

O come Mike Tyson, la cui lacerata autobiografia, True, resta la testimonianza di una vera e propria discesa all’ inferno, delle risalite e delle ricadute di chi ha dovuto patire sulla propria pelle e sulla propria anima l’indicibile e che ogni giorno continua a lottare per riappropriarsi di sé. 

O, ancora, come Chuck Wepner, “il sanguinatore di Bayonne”, macchina da pugni e incassatore oltre l’autolesionismo che resistette 15 round contro Muhammad Ali dando a Sylvester Stallone l’ispirazione per il suo Rocky Balboa.

Diverso il caso di Muhammad Ali, in cui la boxe trascese se stessa e assunse tecnicamente, come nel virtuosismo quasi jazzistico di Sugar Ray Robinson, la dimensione della danza. Ali riscattò la boxe una volta per tutte dalla storia di degrado, di sudore, di fango e di sangue che l’avevano tradizionalmente impregnata. Nel ring andò oltre la boxe come era sempre stata concepita e praticata segnando il trionfo dell’intelligenza e della grazia sulla pura forza bruta, come nella dimensione quasi onirica e favolosa del Rumble in the Jungle, della vittoria contro ogni pronostico e contro ogni aspettativa su George Foreman nella notte tropicale di Kinshasa. E alla dimensione della fiaba pensò anche Mailer raccontandola serratamente nel suo libro Il combattimento.

Ali poi andò oltre la boxe anche nella vita, innanzandola ad una dimensione superiore e facendone uno strumento di elevazione spirituale, un simbolo di coraggio e resistenza che si estese alla lotta contro i diritti civili, nel suo rifiuto di andare a combattere in Vietnam e nel farsi togliere il titolo di campione quando egli era, come suona il titolo della biografia di David Remnick, Il Re del Mondo

Dicevamo prima dello scacciare i demoni.

La boxe è un enorme esorcismo, una messa a fuoco dei propri fantasmi, delle proprie paure, non confessate neanche a sé stessi, delle proprie fragilità messe a nudo ed esibite in un confronto che non lascia scampo. 

Anche il semplice atto del colpire un sacco da boxe è un esorcismo della violenza interiore, un’espulsione di tutto ciò che di irrisolto e mai passato attraverso una catarsi ci portiamo dentro. 

Proprio quel martellamento coreografato al sacco, che ubbidisce in realtà a precise combinazioni e a precise forme, costituisce il fuoco purificatore in cui si bruciano le scorie di una psiche lacerata e ferita dal mondo che fa appello alle proprie forze ancestrali. Che si colpisca il sacco, avversario immaginario, o che si combatta effettivamente con un antagonista in carne e ossa la boxe resta una macerazione della carne e dell’anima, un tuffo negli abissi della propria personalità e un invito a padroneggiare i demoni che ci ospitano. 

È la migliore psicanalisi che si possa fare, molto meglio di qualsiasi strizzacervelli, perché ogni combattimento è innanzitutto un combattimento interiore, una guerra contro i propri spettri. 

E nelle palestre di boxe si respirano un’aria e un’atmosfera che non si respirano in nessun altro luogo. La boxe impone un denudamento dell’anima. In essa cadono tutte le menzogne, quelle coscienti come quelle inconsce, vengono meno le maschere che ci fabbrichiamo per dissimulare il nostro io interiore e per venire a patti con il mondo. Attraverso la sua violenza ritualizzata si compie una celebrazione della fisicità, della sua apoteosi nello slancio atletico e insieme del suo disfacimento. 

Il più bel libro mai scritto sulla boxe, il più struggente e partecipato resta senza dubbio quello scritto da Joyce Carol Oates, Sulla boxe, un titolo semplice e autentico come la disciplina che descrive. La Oates, appassionata di boxe fin da quando veniva portata bambina da suo padre ad assistere agli incontri, ha fatto notare come il pugilato non sia, come comunemente si suol dire, una metafora della vita, ma esattamente il suo opposto. È giusto semmai dire che la vita è una metafora della boxe, di uno di quegli incontri sfibranti che si protraggono all’ infinito, con se stessi e il proprio avversario, così simili che è impossibile non accorgersi che il tuo avversario sei tu. 

La Oates considera la boxe come un rito celebrativo della religione perduta della mascolinità e nega il carattere propriamente sportivo di essa. 

Lo sport è gioco, ubbidisce a regole ludiche, allo spirito del divertimento; la boxe è dannatamente seria, è un non-gioco, in cui a prevalere sono i nostri impulsi più ferini, la lotta per la vita in una competizione che spesso, a livello agonistico, può culminare anche con la morte di uno dei contendenti. Proprio il fatto che in nessuno altro sport, sempre che di uno sport si tratti, a essere in palio è la vita stessa ha fatto della boxe la più letteraria, musicale e cinematografica delle discipline. Nessuna altra forma di competizione ha suggestionato così tanto la letteratura e ha ispirato così tanto il cinema con pellicole di forza e di lirismo epici, dal Sentiero della gloria di Walsh a Lassù qualcuno mi ama fino al vertice assoluto del genere, Toro scatenato di Scorsese, il più grande film sulla boxe di tutti i tempi, la più compiuta e dolente esaltazione delle pulsioni distruttive e autodistruttive che animano il combattimento. La parabola di “Raging Bull” Jake La Motta è il più patetico ed umano rispecchiamento della psicologia della boxe. 

Nel bel libro Rocky Marciano Blues, di recente pubblicazione nella collana “Vite inattese” della casa editrice 66Thand2nd, Marco Pastonesi ha raccontato un’altra parabola struggente di vita e di sport, quella dell’unico campione del mondo dei massimi ritiratosi imbattuto dopo 49 incontri. 

Nel ragazzone italoamericano di Brockton, Massachusetts, non si troveranno le angosce e le lacerazioni di altri grandi pesi massimi. Molto più rassicurante e più semplice la sua figura, che si presta tuttavia, nel racconto di Pastonesi, a modello e a pretesto per tante altre cose che nell’ immediato, nella percezione comune non si assocerebbero alla boxe. 

In questo libro ci viene spiegato come Marciano e la boxe c’entrino in qualche modo con Bessie Smith e con Robert Johnson, con John Lee Hooker e con Miles Davis, con Memphis Minnie come con Thelonious Monk e con B. B. King. Fu George Foreman, in gioventù delinquente di strada poi redento dalla boxe e dalla sconfitta di Kinshasa, preludio al suo risorgere dalle proprie ceneri come un uomo nuovo, a dire che la boxe è come il jazz, e che proprio dove è più bella meno la si capisce. Pastonesi estende il raffronto al blues, ai suoi movimenti, ai suoi ritmi, ai suoi silenzi.

Quel canto ferito che, per riecheggiare il titolo del documentario di Scorsese, dal Mali è approdato al Mississippi, rispecchia pienamente l’anima sofferta della boxe, disciplina apparentata anche alla danza e al teatro, con il ring come palcoscenico della propria forza e delle proprie paure. 

Pastoresi evoca alcune schegge della tanta e tanta letteratura che si è versata sulla boxe, dai racconti pugilistici di Jack London (tra tutti Una bella bistecca) a The Battler nei 49 racconti di Hemingway, scrittore che per il pugilato ebbe sempre un profondo amore e di cui resta celebre anche l’incontro improvvisato con Morley Callaghan e Scott Fitzgerald come arbitro. 

Ma forse nessuno ha incarnato coerentemente la fusione fra la poesia e la boxe come la figura erratica e inclassificabile di Arthur Cravan, il nipote di Oscar Wilde. Poeta, critico d’arte, fondatore di riviste letterarie che vendeva per le vie di Parigi su un carrettino da fruttivendolo, appassionato di boxe al punto da sfidare alle Canarie l’allora campione del mondo dei massimi, Jack Johnson, che fu anche il primo afroamericano a detenere il titolo quando tale sport restava appannaggio dei bianchi in un’America profondamente razzista.

Jack Johnson, il suo eroe, colui che Cravan riteneva “dopo Poe, Whitman ed Emerson il più grande nordamericano mai esistito”, mise al tappeto il poeta-pugile al sesto round, ponendo fine a uno dei più strabilianti cortocircuiti fra la boxe e la letteratura cui il mondo abbia assistito. Cravan morirà misteriosamente in Messico nel 1918, forse annegato al largo di Salina Cruz, senza che il suo corpo sia mai stato ritrovato.

“Non desidero essere civilizzato”, disse una volta Cravan. E fino all’ultimo il suo spirito fu barbarico come quello dello sport cui si era dedicato, una barbarie temperata dalla grazia, nel connubio inscindibile fra la Violenza e la Bellezza che impronta la boxe come impronta l’arte. 

In questo forse consiste la parentela più intima fra la boxe e la poesia, che entrambe originano da una violenza fondatrice e rigeneratrice ed entrambe scardinano le convenzioni della vita come del linguaggio che della vita è il rispecchiamento. Senza quella violenza l’arte sarebbe retorica, docile ubbidienza ai canoni codificati, al bon ton di un linguaggio addomesticato e convenzionale. 

Un po’ come la boxe, il cui pungolo sarà sempre una ferita ricevuta dal mondo.

Alessio Magaddino

Gruppo MAGOG