François Rabelais fu innegabilmente autore di un unico libro. Quella immensa verve fantastica unita all’incomparabile capacità di generare nuovi mondi linguistici vennero convogliate in un unico capolavoro che, più ancora dell’Orlando Furioso o degli Essais di Montaigne, costituisce l’autentica summa del Rinascimento e, insieme, un libro perenne, la cui modernità sconvolgente è stata a pieno svelata soltanto dalle sperimentazioni novecentesche. Pare ormai assodato che il Surrealismo ed il non-sense abbiano il loro diretto atto di nascita nel Gargantua et Pantagruel e che la Patafisica non nasca con Jarry e Ubu Roi, ma proprio con il mastodontico, smodato romanzo-poema del medico di Chinon. Si può affermare in modo categorico e senza paura di esagerare che, senza Rabelais, non ci sarebbero stati né Joyce né Gadda né tutta la strabiliante fioritura dell’espressionismo linguistico moderno. Il Gangantua et Pantagruel, lo notò il suo primo grande esegeta, Sainte Beuve, è un’oeuvre inouie, un’opera inaudita, senza possibili paralleli nella letteratura universale.
L’inevitabile e preponderante attenzione verso quel sommo capodopera ha relegato nell’ombra la restante produzione letteraria di Rabelais, malnota o addirittura sconosciuta persino ai suoi appassionati. La lettura del Rabelais “minore” lascerà probabilmente delusi i cultori del Gargantua, che invano vi cercheranno i deliri linguistici e l’afflato di Umanesimo totale che impregnano dalla prima all’ultima pagina la saga dei due giganti e di Panurge, ed è chiaro che tra le due cose non può essere instaurato un possibile confronto, così come, ad esempio, non può darsi un parallelo fra il Cervantes del Quijote e quello, pur notevolissimo, delle sue restanti scritture. Stabiliti questi limiti netti e più che evidenti, i lavori “altri” di Rabelais restano tuttavia un documento di interesse eccezionale sia per la storia della cultura sia per la ricostruzione del tessuto politico-diplomatico del Rinascimento, nonché per la stessa materia verbale in cui sono orditi. Accanto ad apax tutti rabelaisiani e a fermenti linguistici comunque inusitati e ricchi di lampi, scintilla perennemente l’onnivora curiosità dell’autore francese, la cui voracità lo porta ad appropriarsi di ogni possibile referto conoscitivo: Rabelais fagocita universi in un enciclopedismo incessante, triturandoli nell’unicità di una prosa creatrice di universi letterari paralleli. Nella scheletrica antologia di brani che forniamo di seguito trovano spazio alcune traduzioni di frammenti già resi in lingua italiana e altri che, invece, sono totalmente nuove. La lettera ad Antoine Hullot, la “scheggia” sulla battaglia navale della Sciomachie, ebbero già una veste italiana nel lontano 1930, nell’ambito dei Classici del ridere Formìggini, ad opera di Gildo Passini, studioso benemerito per aver tradotto molti classici francesi, da Montesquieu a Diderot sino, appunto, al Gangantua et Pantagruel, di cui fornì la prima versione integra nella nostra lingua. Le traduzioni del Passini restano tuttavia lo specchio di una lingua ancora in transizione e, in molte soluzioni linguistiche, paludata e involuta. Nel presente nuovo tentativo di traduzione vorremmo restituire quei brani a una sensibilità più moderna, lessicalmente attualizzata.
La lettera ad Antoine Hullot è indirizzata ad un avvocato di Orléans incaricato dell’amministrazione della giustizia in nome del Re di Francia. L’insistenza nomenclatoria che si riscontra nell’epistola sui diversi tipi di pesce imbanditi in suo onore rimanda ai tripudi linguistici che nel Gargantua connotano innumerevoli banchetti e orge gastronomiche (non c’ è, nella letteratura mondiale, uno scrittore che come Rabelais abbia sentito e reso la poesia fisica del cibo, la voluttà profonda di una voracità culinaria che è una spia di una più larga curiosità di vita e di cultura). In margine alla lettera ad Hullot, vale forse la pena di notare che la guerra di Picrocolo nel Gargantua è una felice trasposizione epico-caricaturale proprio delle battaglie legali cui l’Hullot si era accinto rappresentando la Società dei mercanti e battellieri della Loira contro Gaucher de Sainte-Marthe, signore di Lerné.
La Sciomachie è, invece, una meticolosa descrizione della festa in forma di battaglia offerta al popolo romano dal Cardinale du Bellay nel marzo 1549, in occasione della nascita del Duca di Orléans, figlio di Enrico II di Francia. Particolarmente vivida, in essa, è la narrazione della naumachia, capace di toccare talora accenti di autentica epicità. Le lettere dall’Italia non sono mai state tradotte sino ad ora in lingua italiana, forse perché ritenute, a torto, troppo ancorate alla contingenza geopolitica e storica dell’età rinascimentale. Esse sono indirizzate a Geoffroy d’Estissac, Vescovo di Marsiglia, grande protettore di Rabelais (grazie all’ecclesiastico il nostro scrittore divenne benedettino a Maillezeis e sempre grazie alla sua intercessione egli ottenne la restituzione dei libri greci che gli erano stati confiscati per sospetto di eresia). Composte tra il novembre 1535 e il febbraio 1536, esse dipingono un animato quadro della situazione politica dell’Europa del tempo e dei conflitti che la laceravano, discorrendo, fra l’altro, di Carlo V, dell’Impero Ottomano e delle principali famiglie nobili italiane, dai Medici ai Doria, dai Savoia agli Este, dai Farnese agli Sforza. Edite per la prima volta postume nel 1651, esse hanno conosciuto un’edizione critica, ad opera del Bourrilly, solamente nel 1910, restando misteriosamente ignorate anche dopo quella data dall’editoria italiana.
Nell’affidare al lettore la prima traduzione nella nostra lingua di alcuni brani di tali lettere, componendo, con gli altri frammenti, una piccola fricassea rabelaisiana, consigliamo di depurarle, all’atto della lettura, di quanto in esse possa apparire puramente accessorio e legato al momento storico che le produsse, scorgendo invece in esse una qualche eco di quel frisson nouveau (per usare l’espressione coniata da Hugo per le Fleurs du mal) che pervade il Rabelais “maggiore”. E, nel congedarle, non possiamo auspicare nulla di meglio del voto immortale scritto sull’abbazia di Thélème: “Fais ce que voudras”, fai ciò che vuoi.
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A Antoine Hullot
marzo 1542
He Pater Reverendissime quomodo bruslis? Quae nova? Parisiis non sunt ova?[1] Queste parole, offerte alla vostra Reverenza, tradotte dal Patelinese al nostro volgare Orleanese, equivalgono a dire: “Messere, voi siete più che benvenuto alle nozze, alla festa, a Parigi. Se la virtù divina vi ispirasse nel trasportare la vostra Dignità Paterna sino a questo eremitaggio, ve ne racconteremo delle belle. Del pari, il signore del luogo vi farà dono di certe specie di pesci in carpione tali da leccarsi i baffi. Verrete non quando vi aggraderà, ma quando vi condurrà qui il volere di quel grande, buono, misericordioso Dio, il quale non creò la Quaresima, bensì le insalate e le aringhe, le carpe ed i lucci, le umbrine e le alborelle, le spinarelle e le tinche, i barbi ed i ghiozzi. Item, i buoni vini, specialmente quello de veteri jure enucleando[2], il quale si conserva qui per la vostra venuta, come un Santo Graal, ed un secondo, che è un’autentica quintessenza. Ergo veni, Domine, et noli tardare, voglio dire salvis salvandis, id est, hoc est, senza volervi né disturbare né distrarre dai vostri affari più urgenti. Messere, dopo essermi di tutto cuore raccomandato alla vostra buona grazia, pregherò Nostro Signore di conservarvi in perfetta salute.
Da Saint Ayl, questo primo giorno di marzo.
Il vostro umile arcitriclino [organizzatore di feste, di banchetti], servitore ed amico,
François Rabelais, medico.
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Sciomachia
febbraio 1549
Infine, dopo aver messo in discussione diverse proposte, decisero di indire una Sciomachia, vale a dire un simulacro e rappresentazione di battaglia, tanto per acqua che per terra. La Naumachia, ossia il combattimento acquatico, era programmata sopra il Ponte Eliano[3], proprio dinanzi al giardino segreto di Castel Sant’Angelo, il quale era stato fortificato, protetto e custodito per un lunghissimo tempo contro i Lanzichenecchi – che poi saccheggiarono Roma – da Guillaume du Bellay, Signore di Langey, di eterna memoria, insieme con le proprie bande. Il piano dello scontro era tale che cinquanta piccoli vascelli, fuste, galee, gondole e fregate, armate di tutto punto, avrebbero assaltato un mastodontico, mostruoso galeone, composto dai due più grandi vascelli che vi fossero in quella flotta, fatti salpare da Ostia e da Porto Traiano a forza di bufali. E, dopo vari artifici, assalti, rintuzzamenti ed altre manovre proprie delle battaglie navali, sul far della sera si sarebbero dovuti mettere i fuochi d’artificio dentro il galeone. Vi si sarebbe prodotto un terribile fuoco di gioia, data l’enorme quantità di ordigni pirotecnici che erano stati stipati al suo interno.
Il galeone era già pronto per combattere, i piccoli vascelli preparati per l’assalto, dipinti con le livree dei capitani attaccanti, con gli scudi disposti lungo i bordi della nave e con ciurme assai gagliarde. Tuttavia questa tenzone venne annullata a causa di una spaventosa crescita del Tevere d i turbinosissimi vortici, poiché voi sapete che si tratta di uno dei fiumi più incostanti del mondo, che cresce inopinatamente non solo per il riversarsi delle acque che cadono dai monti, dove si fondono le nevi o altre precipitazioni, o per rigurgiti di laghi che si scaricano nel suo corso, ma ancora, in maniera ancora più stramba, a causa dei venti australi che, soffiando dritti nella sua foce, presso Ostia, sospendono il suo corso e non gli danno modo di riversarsi in questo Mare Etrusco, facendolo enfiare e rifluire indietro, con spaventose calamità e con devastazioni delle terre che lambisce. Aggiungetevi pure che, due giorni prima, era naufragata una delle gondole in cui si erano imbarcati alcuni mattaccini del tutto inesperti di navigazione, credendo di poter buffoneggiare e fare gli smargiassi sull’acqua come fanno sulla terra ferma. Tale Naumachia era stabilita per la domenica, decimo giorno di questo mese.
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A Geoffroy d’Etissac
30 dicembre 1535
Da otto giorni a questa parte sono giunte fresche notizie in questa città e il Santo Padre ricevette lettere da svariati luoghi su come il Sophy[4], re di Persia, ha inflitto una disfatta all’armata turca. Ieri, verso sera, arrivò qui il nipote del Sinore di Vély, ambasciatore del Re presso l’Imperatore[5], che confermò al Cardinale du Bellay essere la cosa veritiera e che essa è stata la più grande macelleria compiuta da quattrocento anni a questa parte. Infatti, fra le schiere dei Turchi, sono stati ammazzati oltre quarantamila cavalli. Considerate, perciò, che quantità di fanti dovesse trovarsi nell’esercito del detto Sophy, poiché, fra gente che non fugge affatto volentieri, non solet esse incruenta victoria[6]. La disfatta maggiore avvenne presso una cittadina chiamata Cony, poco distante dal grande centro di Tauris, la quale è contesa fra il Sophy ed i Turchi. Il resto dello scontro si verificò presso un luogo chiamato Betels, ove avvenne che il suddetto Turco aveva smembrato il proprio esercito e parte di quello inviato allo scopo di prendere Cony. Il Sophy, avvertito di ciò, con tutta la propria armata si avventò su questa parte senza che essi quasi se ne avvedessero. Ecco perché egli ebbe un pessimo proponimento nel dividere il proprio esercito prima che la vittoria fosse in vista. I Francesi avrebbero ben saputo che cosa dire quando, dinanzi a Pavia, il Duca di Albany guidò il fior fiore e la parte più gagliarda dell’esercito. Avendo saputo della disfatta e della rotta delle truppe, il Barbarossa[7] si asserragliò all’interno di Costantinopoli per infondere sicurezza allo stato e disse, per i suoi buoni dèi, che ciò non era niente in considerazione dell’immensa potenza del Turco. Tuttavia l’Imperatore era fuori di sé dalla paura che aveva il suddetto Turco di non giungere sino in Sicilia, così come si era proposto di fare in primavera. La cristianità si può ritenere al sicuro di qui a un lungo tempo a venire, e coloro che pongono le dècime sulla Chiesa eo praetextu che vogliono erigere fortificazioni contro la venuta dei Turchi, sono davvero mal equipaggiati quanto ad argomenti da far valere!
Da Roma, in questo XXX° giorno di dicembre.
Il vostro umilissimo servitore
François Rabelais
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A Geoffroy d’Etissac
28 gennaio 1536
Monsignore, nell’ultima missiva che vi ho inviato vi riferivo di come alcune fazioni dell’esercito del Turco fossero state sconfitte dal Sophy presso Betelis. Il detto Turco non ha tardato ad avere la propria rivincita poiché, due mesi dopo, si è avventato sul Sophy con la furia più estrema che si sia mai vista e, dopo aver messo a fuoco e a sangue una grande città della Mesopotamia, ha ricacciato il Turco al di là del Monte Taurus. Ora si accinge a rafforzare le galee sul fiume Tanais[8], attraverso il quale potranno discendere sino a Costantinopoli. Il Barbarossa non è ancora partito da Costantinopoli per mettere al sicuro lo stato; ha invece lasciato alcune guarnigioni a Bona e ad Algeri, nel caso che, per avventura, l’Imperatore lo volesse attaccare. Vi invio il suo ritratto eseguito dal vivo, insieme con il resoconto della situazione di Tunisi e delle città marittime dei dintorni. I lanzichenecchi che l’Imperatore aveva spedito nel Ducato di Milano per salvaguardare le piazzeforti sono tutti annegati e periti in mare, ben 1200 uomini, in una delle più grandi e belle navi dei genovesi. Ciò avvenne in prossimità di un porto della Lucchesia chiamato Lerze.[9]
Avvenne che essi si annoiavano in mare e, volendo guadagnare la terraferma, ma non potendo a causa delle tempeste e delle turbolenze meteorologiche, pensarono che il pilota volesse sempre prendere tempo senza avvicinarsi alla costa. Per questa ragione lo uccisero insieme ad altri ufficiali della nave, che rimase pertanto priva di un comandante, ed i lanzichenecchi, invece di ammainare le vele, le issarono, com’era tipico di gente con poca pratica della navigazione, ed in un tale smarrimento perirono a un tiro di sasso dal porto.
Monsignore, per quanto mi è possibile mi raccomando umilmente alla vostra grazia, pregando Nostro Signore di donarvi vita lunga e felice in perfetta salute. Da Roma, in questo XXVIII° giorno di gennaio del 1536. Il vostro umilissimo servitore,
François Rabelais
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A Geoffroy d’Etissac
15 febbraio 1536
Il cinque di questo mese arrivò qui, su ordine dell’Imperatore, il Cardinale di Trento in Germania[10], Tridentinus, in grande pompa e con maggiore sfarzo dello stesso Papa. In sua compagnia vi erano più di cento Tedeschi vestiti con una guarnizione, vale a dire con delle vesti rosse con una banda gialla; essi avevano inoltre, ricamata sulla manica destra, una gerba di spighe legate insieme, attorno alla quale campeggiava il motto: Unitas. Io sento dire che egli va cercando fortemente la pace e la riconciliazione per tutta la cristianità e desidera il concilio qualsiasi cosa avvenga. Ero presente quando egli disse al Cardinale du Bellay: «Il Santo Padre, i Cardinali, i Vescovi e i prelati della Chiesa fanno marcia indietro dinanzi al Conciclio e non ne vogliono sentir parlare, benché subiscano le pressioni dei principi secolari». Tuttavia, io intravedo come vicino il tempo in cui i prelati della Chiesa saranno costretti ad invocarlo, mentre i principi secolari non ne vorranno sapere. Ciò avverrà quando essi avranno spogliato la Chiesa di ogni bene e di ogni suo patrimonio, che essi stessi avevano donato nel tempo in cui, indicendo frequenti concilii, gli ecclesiastici stabilivano la pace e l’unione fra i principi secolari. Andrea Doria arrivò in città, piuttosto malandato, il terzo giorno del presente mese. Al suo arrivo egli non ricevette onori di sorta, se si eccettua il fatto che il signor Pierre Louys lo condusse sino al palazzo del Cardinal Camerlengo, che è genovese, della famiglia e della casata degli Spinola. All’indomani egli salutò il Papa e partì il giorno seguente, andandosene a Genova per conto dell’Imperatore per sentire quale vento spirasse in Francia a proposito della guerra. Si ha avuto qui una certa eco della morte della vecchia Regina d’Inghilterra[11], e si dice anche che sua figlia[12] sia molto malata. Comunque sia, la bolla che si stava forgiando contro il Re d’Inghilterra per scomunicarlo e per interdire e proscrivere il suo regno, come già ebbi modo di scrivervi, non è stata approvata dal Concistoro a causa degli articoli de commentibus externorum et commerciis mutuis, ai quali si sono opposti il Cardinale du Bellay e il signore di Mascon da parte del Re, per gli interessi che in essa erano accampati.
Monsignore, mi raccomando molto umilmente alla vostra buona grazia, pregando Nostro Signore di donarvi vita lunga e felice in perfetta salute. Da Roma, questo 15 febbraio 1536.
Vostro umilissimo servitore,
François Rabelais
*La scelta, la cura, la traduzione dei testi sono di Alessio Magaddino
[1] “Salve, Padre Reverendissimo, di che stai ardendo ora dentro di te? Che cosa c’ è di nuovo? Non ci sono uova a Parigi?” Citazione da un brano in latino maccheronico della Farce de Maitre Pathelin.
[2] Come rileva il commentatore delle Oeuvres complètes di Rabelais nella Pléiade, si tratta di un gioco di parole tra Jus, in latino “diritto”, ed il francese jus, “succo” (della vite).