15 Ottobre 2022

“Di un uomo avevo fatto un dio. Che inganno”. Banine: dall’abiezione alla conversione

Nel 1935, per Grasset, Henry de Montherlant pubblica Service inutile. Libro anomalo e sfacciato, in cui lo scrittore delinea all’estasi il proprio mito. Di primo acchito, Montherlant si rifà alla lingua – e all’aneddotica – dei moralisti francesi – esatta, metallica, istrionica – per rovesciarne i crismi. Ossessionato dal lignaggio del cuore, da una cavalleria d’indole, Montherlant scrive dei suoi miraggi mediterranei – in Africa e in Spagna –, della guerra (“La Francia ha bisogno della guerra per salvarsi dai suoi istinti… bisogna brutalizzarla perché emani il suo odore”), del suo amore per gli animali, diciamo così (“Amo gli animali. Innanzitutto, credo, perché non parlano… È assai probabile che gli animali siano sciocchi quanto gli uomini; ci danno spesso motivo di crederlo; ma il loro mutismo proibisce loro di rivaleggiare seriamente”), del principio d’onore (Un senso perduto), del sano disprezzo verso gli uomini e gli umanisti. Naturalmente, il divo Henry – di olimpica crudeltà – battezza gli scrittori schiavi del proprio pubblico, servi del mercato editoriale,

“quei piccoli polli che corrono a destra, poi a sinistra, poi a destra, a seconda che la fattoressa gli getti il grano a destra o a sinistra. Della loro somiglianza con i piccoli polli, quei letterati si felicitano”.

Servizio inutile in Italia grazie alle Edizioni Settecolori, tradotto da Marco Settimini e commentato da Stenio Solinas – è il passepartout per entrare nel labirinto di Montherlant, araldico mostro della letteratura europea. Siamo, per altro, a un’altezza di stile altezzosa e superba, nella protervia della provocazione, nel gergo letale: dal 1936 Montherlant attacca con il suo capolavoro, il ciclo “Les Jeunes Filles”.

Leggendo Servizio inutile, Banine, giovane, audace azera fuggita dalle spire della Rivoluzione e da un rivoltante matrimonio imposto, scelse di fare di Montherlant il proprio maestro. Cominciò un lungo rapporto epistolare con lo scrittore; attirò tra le sue spire perfino Jeanne Sandelion, virginea poetessa che idolatrava – respinta – Montherlant. Da Montherlant, Banine apprende il culto della forma, l’aristocrazia dell’odio, il mistero per cui l’apollineo, a tratti, è cupo, incute timore, uccide (“mi trovo sulla strada della solitudine e dell’odio”, scrive, tra l’altro, nel suo diario di abbagliante violenza). Ispirata da Montherlant, stimolata da Jean Paulhan, amata da Paul Eluard, Banine si consegna alla letteratura.

Naturalmente – esatta discepola del suo maestro – fece di sé il soggetto dei proprio scritti: nel 1942 esordisce con Nami, edito da Gallimard. Il libro, autobiografico, comincia nel gennaio del 1916, a San Pietroburgo, quando “gli alberghi, vertiginosi, spariscono, sottratti da una densa nebbia grigia”. Il padre di Banine – “ancora più bello con quei capelli bianchi, lo sguardo severo” – la ‘offre’ a Mourad, “musulmano di rara virtù”, basso, brutto, soprattutto ricco. Banine è una ragazzina e alla clausura familiare preferisce la vita, accesa: del matrimonio contratto nel 1920 – per necessità: il padre, petroliere, è braccato dagli scherani bolscevichi – si ricorda la fuga, prima a Istanbul, poi a Parigi, diciannovenne. Il libro – firmato con il nome da maritata, Banine Thillet – è rapido, malizioso, ingenuo: sulla “Nouvelle Revue Française” dell’agosto 1942 – diretta all’epoca da Drieu La Rochelle – Nami è recensito insieme allo Straniero di Albert Camus e a La vedova Couderc di Georges Simenon. Che Banine – icona della femminilità sfrontata, che pratica il collezionismo di amanti, tratti da rapporti notturni e fugaci – sia donna inarginabile lo dimostra un suo testo dell’epoca, De l’inégalité des sexes, in cui scrive, tra l’altro:

“Le femministe affermano in buona fede che l’inferiorità delle donne è un mito malvagio ideato dagli uomini per confortare la propria causa… Eppure, se le donne avessero del genio, troverebbero il modo di metterlo in mostra… No, la verità è che il numero di donne brillanti, di genio, è ridicolmente misero. L’esempio delle arti dovrebbe convincere i più ostinati”.

Seduttrice, mangiauomini, Banine si legò a due tra le personalità più sgargianti del secolo scorso: Montherlant ed Ernst Jünger. A quest’ultimo – l’assenza dei sensi provoca esaltazioni intellettuali – dedicò tre libri: il primo, Incontri con Ernst Jünger (1951; in Italia è edito da De Piante per Terra Insubre, 2021) è anche una piccola vendetta contro Montherlant, citato di sfuggita, figura di cartone, a significare una distanza di nobiltà:

“Jünger visitò gli atelier di Picasso e di Braque. Da Morand incontrò Benoist-Méchin e Céline. Altrove, incontrò Cocteau e Montherlant, Giradoux e Paulhan. Nei loro riguardi farà delle battute divertenti, spesso penetranti; eppure, malgrado la lucidità, raramente furono perfide, poiché la bontà di Jünger è assoluta. È questa bontà ad averlo protetto dall’odio; è la bontà a consentirgli di reagire contro il disprezzo che è tentato di provare nei confronti degli uomini, una tentazione che vuole evitare”.

Montherlant regna sull’odio; Jünger ha trasceso gli eccessi, è un illuminato. Cos’era accaduto? Che dal 1950 Banine aveva cominciato un proprio percorso ascetico, dentro i ranghi del cattolicesimo. Agli occhi di Montherlant – che pure, in un testo del 1933, La festa in disparte, raccolto in Servizio inutile, narra la severa grandezza del rito cattolico, un incanto formale –, l’ascesi è una caduta, un crollo, lo stigma di una repellente debolezza. Nel 1952 glielo scrive chiaramente:

“Chère Madame, difficilmente riesco a reprimere l’abissale disprezzo in cui relego chi – sono numerosi, troppi – discendendo nella vecchiaia, alza gli occhi al cielo – una breccia di paura in cui il sacerdote s’infila, felice… Chi per tutta una vita ha ‘mantenuto la ragione’, e si disintegra ‘trovando Dio’ all’ultimo… è degno del mio inesauribile disprezzo”.

Banine – sapiente nel riconoscere la fragilità dietro la protervia, speleologa nei meandri del cuore umano – capì. Nel suo diario della conversione – che in realtà del cristianesimo dice il dubbio, l’ombra, l’atroce –, Ho scelto l’oppio (1959; tradotto in italiano nel 1965, per l’editore Massimo, ritorna, in versione rivista e meditata, per le edizioni Magog, a cura di Fabrizia Sabbatini), riconosce l’antico maestro, lo onora:

“Montherlant mi fa la sorpresa di inviarmi i suoi Textes con dedica (gentile) in cui parla di X. Ancora! Poiché l’ultima lettera del caro Maestro spirava rabbia e disprezzo (avevo osato dirgli che solo la fede pare dia quaggiù una parvenza di serenità), non contavo più sulle sue cortesie”.

Il diario di Banine – quintessenza dello stile – gronda di peccato (“Il sentimento del peccato non mi abbandona più e se, sapendomi peccatrice, lo resto ancora, è almeno finita l’ignobile spensieratezza di fare il male senza sentirne disagio”), ossessione (“Il pericolo di ogni vita interiore è l’egocentrismo. Ma se si è assillati dal desiderio del bene, come non analizzare i minimi ticchettii del proprio cuore, dello spirito, dell’anima? In preda all’ossessione… ci si tratta come un carceriere tratta i suoi detenuti”), passione (“Se solo potessi dare a me stessa una passione il cui oggetto non fosse l’uomo. Di un uomo avevo fatto un dio, e da questa idolatria aspettavo la felicità. Che inganno”). La conversione, se autentica, non è retorica, ma è convalidata dalla grandezza della forma. Se Dio è Verbo, occorre verbalizzarlo – per poi tacerne.

Il diario di Banine – che in alcune edizioni è definito roman – è il romanzo di una peccatrice, il regesto di un annientamento. Banine, mai inconsapevole, s’inserisce nel canone della mistica francese, che teorizza l’abiezione come via divina. Siamo nell’orbita di Madame Guyon, fiera di aver inghiottito lo sputo dei malati che soccorre, di aver leccato le ferite del sofferente, di Marguerite-Marie Alacoque, che si mutila e mortifica per stimolare il disprezzo del prossimo, ne ingurgita il vomito (“Un giorno Gesù mi rimproverò così tanto che, dovendo pulire il vomito di un malato, non potei fare a meno che farlo con la lingua, e mangiarlo”), di Louise du Néant, reclusa al Salpêtrière, che si prescrive umiliazioni, narrate con dovizia al proprio padre spirituale:

“Vi posso assicurare, davanti alla divina Maestà, alla cui presenza vi scrivo, che le malattie, le ingiurie, gli affronti, le umiliazioni che mi vengono inflitti e quelli che io stessa mi procuro, benché affliggano molto la natura, mi piacciono e godo che Dio sia così soddisfatto”.

Si tratta, in tutti i casi, di donne colte, nate nel seno dell’aristocrazia di provincia, propense ai contrasti, che forgiano, nel nulla, una lingua da sottosuolo, che fa dell’abietto il solo eletto. Che un cristianesimo del genere – anticonvenzionale, non consolatorio, insolito fino all’isolamento – sia inascoltato, inatteso, inaccettabile, fa parte, appunto, della sequela.

Tornata in auge negli ultimi anni – una autora secreta, la dice “El País” – Banine morì il 23 ottobre del 1992: viveva al 40 di Rue Lauriston, nella sempiterna Parigi. Il libraio tedesco diventò suo esecutore testamentario, Rolf-Heinrich Stürmer, la ricorda mentre ride, “il cuore di una ragazzina più che quello di una vecchia irascibile”. Il Novecento si era arreso al suo petto, si era disfatto in rive di nostalgia. Negli ultimi anni fece della sua casa una cella, Banine. Dormiva spesso, in poltrona, “sognando, sembrava un gatto al sole”. Vecchi amanti, cavalieri, mecenati, le davano di che vivere – al resto provvedeva Dio.

Gruppo MAGOG