25 Maggio 2020

Mail casualmente smarrite, reticenze, timori, convenienze. Ecco perché non credo più nella critica militante in Italia

Diceva Giovanni Raboni in un articolo del Corriere della Sera che «Una stroncatura, pur che abbia un minimo di fondamento, serve alla buona salute della letteratura cento volte di più, non solo del silenzio, ma anche di un elogio infondato». Mai parole, per quanto riguarda la critica culturale cosiddetta militante del nostro Paese, furono più giuste. Ho avuto modo purtroppo di comprendere il valore di queste parole nel corso della mia esperienza di collaborazione con varie riviste, che dura ormai da diversi anni. Ho sempre cercato di scrivere per riviste culturali serie, cioè che badavano in linea di massima alla correttezza e alla qualità degli articoli proposti. Alcune di queste potevano essere definite militanti, cioè inclini a prendere posizione relativamente a questioni culturali, politiche, sociali o letterarie dell’attualità. Tirando un po’ le somme dopo questo lasso di tempo posso dire che, sebbene sia stata un’esperienza complessivamente positiva e formativa, non sono mancate le delusioni, che quasi sempre avevano a che fare con il rifiuto preconcetto di un testo.

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Ho sempre ritenuto che un collaboratore possa legittimamente vedersi respinto un articolo, e per vari motivi: perché l’articolo non soddisfa determinati criteri di correttezza e coerenza stilistica e formale; perché il tema non rientra tra quelli abitualmente trattati dalla rivista o è stato già ampiamente trattato in passato su quella rivista; perché nell’articolo ci sono affermazioni offensive o prive di fondamento. È legittimo che una rivista con un preciso orientamento culturale o politico non pubblichi un pezzo che non si confà a quell’orientamento. Sta quindi nell’ordine delle cose che gli articoli vengano respinti, nessuno raggiunge sempre buoni risultati in ciò che scrive, e la selezione fa parte del normale lavoro di redazione. Ma c’è una cosa che una rivista che vuole fare critica militante a mio parere non dovrebbe fare: rifiutare un articolo con motivazioni pretestuose, pregiudizievoli o esprimenti le simpatie o al contrario le idiosincrasie della redazione nonostante la veridicità dei contenuti e la qualità delle argomentazioni. Si tratta di qualcosa in cui mi è capitato di imbattermi, come penso a molti che scrivono e hanno provato a pubblicare. Fortunatamente non è capitato troppo spesso, ma i pochi episodi sono bastati a farmi riflettere sul problema, soprattutto per il tipo di motivazioni addotte dalle redazioni.

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La prima volta capitò alcuni anni fa con un’importante rivista culturale generalista, sulla quale era stato pubblicato un articolo da uno studioso relativo a tematiche che conoscevo molto bene. Mi sembrava però che quelle tematiche venissero piegate un po’ troppo per giustificare l’ipotesi che fin dal principio si poneva l’autore e così decisi di scrivere un articolo in risposta a quello e di mandarlo alla rivista, non senza prima aver chiesto il loro consenso. Mi fu risposto, dopo qualche iniziale resistenza a farlo (la resistenza di solito si esprime, nella mia esperienza, coll’ignorare le email inviate), che la rivista non pubblicava mai articoli ad personam, né su argomenti che non fossero concordati con un certo anticipo. Io ribattei che l’articolo era molto particolareggiato negli argomenti e non era affatto ad personam, perché non attaccavo mai la persona bensì le sue argomentazioni e la precisione dei concetti usati e che per questo il mio articolo avrebbe potuto definirsi piuttosto ad argumentum. Feci presente anche che ritenevo importante, nella mia visione della produzione culturale, dare la possibilità di avviare un dibattito tra collaboratori su certe tematiche, confrontare le opinioni se il tema lo meritava, come segno in generale di pluralismo e di onestà intellettuale verso i lettori. Per quanto riguardava invece la seconda motivazione, quella del concordare in anticipo i temi degli articoli, feci presente che diversi collaboratori avevano pubblicato dei pezzi uno o due giorni dopo il verificarsi di un certo accadimento politico o sociale. Come avrebbero potuto concordare con un certo anticipo l’argomento in quei casi? Mi sembrava infatti impossibile. Alla mia risposta non ci fu alcun seguito, e così lasciai perdere, non senza ovviamente farmi un’idea diversa di quella rivista, più preoccupata di non turbare la quiete intellettuale di un suo collaboratore che di stimolare autentici approfondimenti e dibattiti su temi complessi.

Tuttavia quell’esperienza era destinata a non rimanere l’unica, per di più con redazioni che già mi conoscevano perché avevano in passato deciso di pubblicare alcuni mie articoli. Si trattava anche in questi casi di riviste serie e di un buon livello, non tanto per numero di lettori quanto per la formazione delle persone che vi lavoravano e la qualità del dibattito culturale che perseguivano.

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In un caso, inviai un articolo che riprendeva alcune affermazioni fatte in quei giorni da un noto politico analizzandole e passandole al setaccio di una critica ben argomentata, fondata cioè su ragionamenti logici e sequenziali, dati, fatti storici e politici recenti ecc. Proposi quell’articolo a tre riviste in successione. La prima rivista mi rispose che non pubblicavano “opinionismo politico”; io dissi loro che le mie non erano semplici opinioni, ma idee argomentate e piuttosto articolate. Molte cose infatti potevano rientrare sotto l’etichetta di “opinione” in ambito culturale, politico, sociale o religioso, ma ciò che faceva poi effettivamente la differenza era la qualità delle argomentazioni o dei dati su cui si basavano certe affermazioni. E poi, pensai, se le opinioni non andavano bene, come si spiegavano alcuni articoli che erano stati pubblicati sulla rivista non sempre argomentati in modo adeguato? Ma decisi di non ribattere oltre e la questione si chiuse lì. Ovviamente non potei fare a meno di chiedermi quanto il consenso di cui quel politico godeva in quel momento avesse influito su quel rifiuto.

La redazione della seconda rivista contattata alla ricezione dello stesso articolo non rispose nulla per una settimana, cosicché inviai una richiesta di informazioni sull’esito della valutazione del pezzo; passarono altre due settimane e finalmente, dopo una seconda richiesta di informazioni da parte mia, arrivò la risposta, in cui mi si diceva che la mail iniziale con l’articolo era stata “smarrita”, e di aver purtroppo deciso di non pubblicarlo perché era ormai passato troppo tempo dai discorsi politici di cui parlavo. Risposi che potevano facilmente rendersi conto che le mie argomentazioni valevano per la maggior parte delle affermazioni che quell’uomo politico era solito fare, e quindi non erano strettamente legate a quel preciso discorso. E poi, come spiegare il fatto che, se anche avevano perso la mia prima mail, non avevano risposto al mio primo sollecito e avevano lasciato passare altre due settimane? Forse avevano smarrito anche quel sollecito? Non ottenni più risposta. Questo episodio fu paradigmatico soprattutto perché mi fece intuire che la motivazione dell’aver “smarrito” la mail (evenienza che certo può sempre capitare), e della strategia del “silenzio-dissenso”, come mi piace chiamarla – strategia pavida perché piuttosto basterebbe dire più onestamente un semplice e tempestivo no all’articolo – erano più frequenti di quanto pensassi. La vicenda si concluse comunque bene perché fortunatamente il mio sforzo intellettuale fu ripagato da una terza rivista, ben più coraggiosa delle altre due, che decise di pubblicare l’articolo.

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L’ultimo episodio che qui voglio citare (ultimo, ma certo non ultimo) è relativo a una rivista a cui inviai a distanza di tempo l’uno dall’altro due recensioni negative (o stroncature, giusto per rifarmi al termine usato da Raboni nella frase citata all’inizio). Si trattava dei libri di due autori noti, che criticavo in un caso per la struttura e l’impostazione, oltre che per la banalizzazione di un tema complesso; nel secondo caso per uno stile di scrittura assolutamente astruso, confuso e poco efficace da un punto di vista comunicativo, che mi sembrava nascondesse un vuoto di contenuti. Come controprova, visto che non sono solito fidarmi ciecamente dei miei giudizi, feci leggere i due libri ad un amico, un linguista esperto e lettore fortissimo, senza dirgli nulla in merito alle mie conclusioni. Me li riconsegnò dopo non molto tempo dicendomi, specie del secondo, che non aveva «né capo né coda».

Ebbene, una delle riviste a cui avevo inviato le due recensioni, precisamene la seconda che aveva rifiutato l’articolo sul discorso del politico, non rispose nemmeno alla proposta, a conferma della mia impressione iniziale che le motivazioni addotte per il rifiuto di quell’articolo (lo smarrimento dell’email, il tempo eccessivo trascorso dai fatti) fossero delle scuse. Con la seconda rivista invece ebbi modo di confrontarmi apertamente. Nel caso della recensione del libro dell’autore più noto, la redazione cercò di addurre alcune contro-argomentazioni, certamente anche valide, e soprattutto di fare le pulci all’articolo, proponendo revisioni e ampliamenti che mi parvero francamente eccessivi per una recensione, e che soprattutto non mi avevano mai proposto in quella misura in occasione di articoli precedenti. Mi sembrò un modo indiretto per scoraggiarmi. Ma nelle ultime righe della risposta venne fuori quello che ritenni fosse il motivo più “pesante”: era sconveniente pubblicare la recensione anche per evitare polemiche con quello scrittore, che di certo se ne sarebbe risentito. Relativamente alla seconda recensione invece, mi fu detto che la redazione era già in parola con un altro collaboratore della rivista per recensire il libro. La risposta in questo caso era arrivata dopo un certo tempo dalla mia richiesta, e la cosa mi insospettì un po’, anche perché il libro era appena uscito e di solito non c’erano tempi così rapidi di assegnazione dei libri, ma ringraziai ugualmente. Dopo poco tempo scoprii casualmente che l’autore di quel libro era tra gli organizzatori di un importante evento letterario, assieme a qualche redattore della rivista. Capii dunque che il vero motivo del rifiuto era un altro e che a causa di quel “conflitto di interessi”, per niente raro nel nostro mondo letterario, non avrebbero mai pubblicato la mia recensione negativa. Infine, nemmeno a dirlo, la recensione del libro che poi uscì sulla rivista fu molto positiva.

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Ora, cosa ho imparato da queste esperienze? Soprattutto una cosa: che in Italia la critica “militante”, in vari ambiti culturali e in specie quello letterario, è solita militare aprioristicamente per una specifica parte, quella più rilevante in termini di prestigio e potere, indipendentemente da ciò che i suoi esponenti riescono a produrre in termini di discorsi, teorie, opere. Solo per rimanere in ambito letterario, se il libro è di un autore appartenente alla “fazione” più forte in quel momento è di buona qualità, se ne parla volentieri. Se invece è obiettivamente mediocre, allora si preferisce non criticare, si tende a non parlarne. In sostanza, la probabilità che un prodotto culturale sia criticato obiettivamente è in genere inversamente proporzionale all’importanza e al potere accademico-editoriale-mediatico di chi l’ha scritto.

Molte riviste o blog culturali, magari sulle ali dell’entusiasmo, partono inizialmente con l’idea di dire le cose come stanno, di cercare cioè una maggiore obiettività e imparzialità nella propria azione di critica culturale, ma poi finiscono gradualmente per parteggiare per qualcuno, sia per non infastidire i personaggi più importanti, sia perché quei personaggi potranno essere utili nel tempo a garantire una maggiore visibilità e un appoggio culturale a quelle riviste, aiutandole in qualche modo ad affermarsi. Così, in un processo che ricorda molto quello dell’istituzionalizzazione di qualsiasi organizzazione sociale, processo volto nel tempo alla stabilizzazione e difesa strenua di certi equilibri e posizioni di potere, le riviste da indipendenti e militanti, con l’obiettivo cioè di porre al centro l’opera più che l’autore e di fare una critica imparziale e potremmo dire “scientifica” sul contemporaneo, diventano a lungo andare partigiane e si muovono in difesa di un certo status quo, facendo in pratica da cassa di risonanza a determinati concetti, idee, autori già affermati, i quali, proprio perché affermati, avrebbero meno bisogno sia delle difese d’ufficio. Al contrario, la critica di autori e pensatori meno noti o al di fuori di certi ambienti culturali sarà più spietata. Rimanendo in ambito letterario, questo processo rischia di portare all’affermazione di un “canone” letterario falsato, in cui si dice sempre bene delle opere degli autori più influenti o appartenenti a determinati gruppi di potere, e, come detto, se non se ne può dire bene perché magari l’opera è mediocre, piuttosto che stroncarla si evita di parlarne. Tutto ciò rende ovviamente un pessimo servizio ai lettori, che si confronteranno con dei riferimenti errati relativamente alla valutazione della qualità di un testo letterario, avendo modo di imbattersi solo in critiche positive di certi autori.

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Si tratta, a mio avviso, di una questione di gestione del consenso, attraverso l’impegno a sostenere i protagonisti più influenti del mondo culturale e artistico-letterario di un certo territorio, che a loro volta garantiranno il proprio appoggio, tutti (critica e autori) muovendosi all’unisono in difesa di certe teorie e idee dominanti e, quindi, della stabilità e continuità di un certo sistema (letterario, accademico, editoriale). Tutto questo però, se ha dei benefici a breve termine per le riviste e i gruppi che attuano tale linea di azione, non ne ha per la cultura nel senso più alto del termine, che ha bisogno, come la scienza, di una critica imparziale e di un confronto tra posizioni che siano sempre suscettibili di revisione, di un setaccio che effettivamente discrimini ciò che è valido da ciò che non lo è, indipendentemente da chi ne sia l’autore e, ancora di più, indipendentemente dalle simpatie di chi critica o peggio ancora dal tornaconto personale.

Solo così la critica può contribuire, come sosteneva Raboni, a mantenere in buona salute la letteratura (e più in generale la cultura) del proprio Paese.

Marco Nicastro

Gruppo MAGOG