Spesso, la morte è una traccia – l’avvio di una via, una visione. Pastore Unitario, il papà di Ralph Waldo Emerson morì nel 1811, qualche giorno prima del compleanno del figlio, avrebbe compiuto otto anni. Secondo il Buddhismo, è ottuplice il sentiero per ottenere la verità: per Emerson, d’improvviso, un corpo che muore fu la sola verità. Per conoscere la morte, forse – labirinti dell’inconscio – Emerson porta all’altare Ellen Louisa Tucker. Era giovanissima, era il 1827: la diciottenne aveva rivelato il male da subito, tubercolosi. Morì dopo neanche tre anni di matrimonio. Il giovane si accanì sulla sua salma, mostrando una attitudine doppia. Da un lato, adorava le cose fragili, evanescenti, di cui devi, con nostalgia, meditare la perdita; dall’altro, pensava che l’uomo, questo torso di carne che muore, può essere immortale, lo è. Molto più tardi scriverà, teorizzando la Superanima: “Che l’uomo impari dunque la rivelazione di tutta la natura e di tutto il pensiero al suo cuore, e cioè che l’Altissimo si trova in lui e che le sorgenti della natura sono nella sua propria mente”. Gli piaceva ricordare che Ellen morì in un mormorio, “Non dimentico la pace, la gioia”, prefigurando mondi ulteriori e la presenza di una energia divorante sotto la cute del reale. In quei giorni, tuttavia, la morte lo prese a morsi: nel 1832, dopo una visita al cimitero, scrive, “Sono stato sulla sua tomba, tutto il giorno & ho aperto la bara”. Probabilmente, Emerson compie il gesto con la mente, tombarola, eppure, il padre del trascendentalismo aveva una attrazione per i cadaveri – grigio sudario di ciò che diciamo anima. Dov’è dunque l’uomo, oltre questo macello di carne che si consuma, di ossa tinnanti?, si chiedeva. Trovò la risposta nella mistica, nella volontà, nella fiducia, nell’impero dei titani.
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Con la seconda moglie fu diverso – non l’aveva scelta, come la prima, per la sua indomita debolezza. Le scrisse una lettera. Era il 24 gennaio del 1835, e Lidian Jackson, 32 anni, era intelligente, voleva l’abolizione della schiavitù, maggiori diritti per le donne e per i nativi americani. Le piacevano gli animali, la vita nei boschi. Era solida. Lui, forse, intuì i quattro figli che lei gli avrebbe dato; lei una mente anomala, tesa verso gli assoluti, astratta e concreta a un tempo. Gli rispose dopo due giorni, si sposarono in estate, misero casa a Concord, Massachusetts, un paese misero, invero – fa poco più di 17mila abitanti – eppure il cuore ideale e filosofico degli Stati Uniti d’America, una specie di Atene, dove passarono Louisa May Alcott e i più celebri discepoli di Emerson, Nathaniel Hawthorne – carattere più complicato, sognante, sbrigliato – e Henry David Thoreau, l’entusiasta. Prima di sposarsi, per nettare il lutto che atrofizzava la sua volontà, Emerson andò in Europa. Conobbe John Stuart Mill a Roma, Wordsworth e Coleridge in Inghilterra; divenne amico di Thomas Carlyle. Si può dire che dalla crisalide del lutto nacque un uomo risoluto: in quel 1835 Emerson, in seguito a una visita al Museo di Storia naturale di Parigi, abbozza il saggio più noto, Nature, pubblico l’anno dopo, con quell’incipit folgorante, “La nostra età è retrospettiva. Costruisce i sepolcri dei padri. Scrive biografie, storie, e critica. Le generazioni passate hanno contemplato Dio e la natura faccia a faccia; noi attraversiamo i loro occhi. Perché non dovremmo sperimentare anche noi un rapporto originale con l’universo?”. Qui c’è tutto: individualismo, rottura con la tradizione, Dio & natura, originalità, universo come esplicita appendice della mente.
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Mi sorprende quanto Emerson, amato da Nietzsche – non tanto per gli esiti filosofici ma per l’estro, l’estremismo linguistico, il gergo da autodidatta, da chi sfascia la cristalleria accademica – sia così poco tradotto in Italia. Qualcosa pubblica Donzelli, qualcosa La Vita Felice, Aragno, Diabasis, Moretti & Vitali, Piano B, da poco Rubbettino (Condotta di vita), cioè una legione di piccoli editori, esemplari; la grande editoria snobba Emerson, ritenendolo, forse, troppo ‘facile’, extra-canonico. Eppure, come ha detto ripetutamente Harold Bloom, “Il genio di Emerson continua a essere il genio dell’America: questo filosofo gettò le basi della nostra vera religione, che è postprotestante sebbene finga di non esserlo. La fiducia in se stessi non è una dottrina consolante, perché ci esorta a ricadere sul nostro genio oppure a cadere verso l’esterno e verso il basso”. Emerson è, in modo equidistante, democratico ed elitario: tutto è qui – “Ciò che importa è la vita, non l’aver vissuto” – ed è per tutti, tutti possiamo, raffinando la nostra anima, essere Shakespeare, ma la tensione è quella, miliare, verso Shakespeare (“Shakespeare è escluso dalla categoria degli autori eminenti quanto lo è dalla folla. È inconcepibilmente saggio, gli altri lo sono concepibilmente”), non un grammo di meno. Esiste la vetta, insomma, non la massa. Disintegrare i maestri non significa disonorarli: “non c’è autorità oltre il sé”, scrive Emerson, eppure, nel 1850, in uno dei suoi libri più grandi, Rapresentative Men, erige la piramide dei modelli: Platone, Swedenborg, Montaigne, Shakespeare, Napoleone, Goethe. Per edificare l’anima autenticamente americana, Emerson allinea – plotone di santi, d’esecuzione – i pilastri dell’Europa. Prende il concetto capitale del Romanticismo – il genio – lo annaffia con la lingua spezzata, sprezzante, spiazzante di Seneca, arma il megafono. Emerson fu il primo a fare della filosofia un mestiere: guadagnò tenendo convegni in lungo e in largo per gli States. Era un oratore commovente, che faceva presa sul pubblico – non scriveva per i posteri, non si dava in pasto ai morti – preferiva gli applausi (e consoni compensi). Per questo, alcuni concetti sono epigrammatici, memorabili (“Una insensata coerenza è l’orchetto delle piccole menti, adorato dai miseri statisti, dai filosofi, dai dottori in teologia”), e altri, perfino banali (“Ognuno dovrebbe imparare a scoprire e a tener d’occhio quel barlume di luce che gli guizza dentro la mente più che lo scintillio del firmamento dei bardi e dei sapienti”), sono utili (utili) a trascinarci nel pieno della vita, nella sua giungla, con l’ansia dell’avventuriero, sconfiggendo l’ozio petulante dello spettatore. Se gli europei ammirano le rovine della loro civiltà, tramutando la decrepitezza in tour, l’uomo novus americano sfida gli spazi incontaminati, non ha paura del barbarico, del selvaggio. Se poi nel ‘selvaggio’ di Emerson non troviamo giaguari ma concetti, non intralciamo il cobra ma la mistica di una elaborazione mentale e sentimentale, non stupiamoci: Las Vegas sta nel deserto come Venezia sopra le acque; ma qui si erge la basilica là la cattedrale dell’azzardo (non che il cristianesimo non lo sia, un azzardo, s’intenda…).
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Emerson riconobbe fin da subito il genio ‘barbarico’ di Walt Whitman – il Song of Myself trascende ogni filosofia ma è trascendentalismo messo in versi –, affascinò Emily Dickinson, che lo vide, nel dicembre del 1857, “Sembrava venire dalla terra in cui hanno origine i sogni”, ricorda – ma lui come poteva vederla? –, informò l’opera di Thoreau, diede cardine di pensiero a quelle di Hawthorne e di Melville – che gli fu sottilmente ostile. Era pervasivo, come un sole, Emerson – ragion per cui alcuni preferirono l’ombra. Il suo ottimismo, però, non era commestibile, riguardava una disciplina, ferrea: non è facile avere fiducia in sé fino a esiliarsi dagli altri. “La classe di persone più attraente è composta di coloro che sono potenti indirettamente… la loro è la bellezza dell’uccello e della luce mattutina, e non dell’arte. Nel pensiero di genio c’è sempre la sorpresa”. Il discorso sulla “fiducia in se stessi”, pubblicato negli Essays, nel 1841, fu abbozzato più di dieci anni prima, come sermone sul corpo morto di Ellen: la filosofia vitale di Emerson è impregnata di lutto.
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La furia filosofica di Emerson fu forgiata dal dolore. Nel gennaio del 1842 morì il suo primo figlio, Waldo, di scarlattina. Il filosofo gli dedicò un poema, straziante, Threnody; questa è la seconda stanza:
Vedo la casa vuota,
Gli alberi serrano i rami,
E lui, il bambino prediletto,
Il cui grido d’argento selvaggio
Supera ogni altro suono
Nella spirale cerulea
Il ragazzo di giacinto, per cui
Il mattino potrebbe interrompersi e Aprile
Sfiorire, il bimbo gentile che adornava
Il mondo in cui è nato…
La Natura che lo ha perso, non può ricrearlo;
Il Fato lo ha fatto cadere; il Fato non può riacciuffarlo;
Natura, Fato, uomini, lo cercate invano.
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Ancora una volta, il tormento della morte, l’esigenza dell’immortalità. Morì nel 1882, in aprile, un mese prima di compiere 79 anni, Emerson. Da tre anni non appariva più in pubblico. Che beffa: quell’oratore micidiale, con le citazioni a fior di labbra, abile a sconfiggere ogni tradizione e ogni dogma, stava perdendo la memoria. Forse, aveva toccato il punto d’orizzonte dell’anima, che collima con l’oblio e pretende l’obolo del fallimento. Nel 1872 la casa di Concord aveva preso fuoco, si era letteralmente sbriciolata. Emerson prese quelle fiamme come un segno: dieci anni prima era morto, di tubercolosi, a 44 anni, l’unico che perpetuava a chiamare amico, Henry David Thoreau. Forse, nel fuoco, era l’anima di H.D. a fargli visita. Mentre ordinò di ricostruirgli la casa, fece l’ultimo viaggio in Europa e in Egitto – da tempo, aveva cominciato a studiare le filosofie d’Oriente. La sua tomba, nello Sleepy Hollow Cemetery di Concord, è un sasso, enorme e bianco, tra lapidi e alberi – pare uno spettro pietrificato, un lenzuolo. (d.b.)
In copertina: Franz Gerhard von Kügelgen, “Ritratto di Caspar David Friedrich”, 1820 circa